Il sarto di Keswick

 

 

 

 

 

Il vecchio Thomas Thwaite si trovava allora a Londra per gli affari della contessa, ma non aveva intenzione di fermarsi là. Aveva ancora il negozio a Keswick e confezionava ancora cappotti e pantaloni per i proprietari terrieri del Cumberland. Non era assolutamente in condizione di ritirarsi dal commercio, avendo speso i risparmi di una vita per la causa della contessa e della figlia. Degli uomini gli avevano detto che, se non avesse colpito il conte nel cortile del Crown a Keswick, mentre venivano portati i cavalli per la carrozza da viaggio del lord, il vecchio peccatore avrebbe provveduto generosamente alla figlia. Forse era così, o forse no, ma le parole dette spingevano il sarto a un maggiore zelo e a un’accresciuta generosità. Opporsi a un conte, anche se in difesa di una contessa, era per lui una gioia; raddrizzare un torto e domare la crudeltà per soccorrere delle donne in difficoltà costituiva l’orgoglio del suo cuore – soprattutto quando gli sforzi erano rivolti contro qualcuno di alto rango. E si trattava di un uomo che sarebbe andato fino in fondo nella sua opera, anche a costo di rovinarsi. Aveva provato disprezzo per i Murray, che avrebbero dovuto sostenere fedelmente la lontana cugina, e aveva esultato pensando che il mondo avrebbe detto che il sarto di Keswick era stato di gran lunga migliore e più devoto dei parenti scozzesi di buona famiglia relativamente ricchi. I poeti dei laghi poi, che non erano ancora diventati del tutto conservatori,7 si erano congratulati con lui lodandolo. I diritti della contessa e i torti della contessa erano diventati la sua vita. Ma continuava a lavorare su scala ridotta nel nord ed era ormai necessario che facesse ritorno nel Cumberland. Aveva saputo che sarebbero state fatte nuove offerte di compromesso – sebbene non gli fosse stata prospettata l’idea del progettato matrimonio tra i lontani cugini. Era stato impegnato a discutere la questione del compromesso con la contessa raccomandando che si arrivasse a un accordo, se possibile, e in quell’occasione lei gli aveva parlato del figlio. Che il denaro venisse pure diviso, purché il matrimonio fosse riconosciuto. Non potevano esserci grandi difficoltà, poiché il matrimonio doveva venir riconosciuto a meno che la parte avversa non portasse dall’Italia prove contrarie. La validità della cerimonia della chiesa di Applethwaite era incontestabile. Che il denaro venisse diviso e la contessa fosse la Contessa Lovel e Lady Anna fosse Lady Anna per tutto il mondo. Perfino il vecchio Thomas Thwaite sembrava pensare che sarebbe stato quasi un trionfo un accordo del genere. «Ma in seguito potrebbero corrompere la donna per farla venire qui a ripresentare le sue rivendicazioni» disse la contessa. «Se la cosa non verrà risolta in modo definitivo ora, quando io sarò morta, diranno che mia figlia non ha diritto al nome che porta». Allora il sarto disse che si sarebbe informato ulteriormente sullo stato dei fatti. Era propenso a credere che sarebbe stato possibile arrivare a una decisione che risultasse definitiva, anche se tale decisione si sarebbe raggiunta con un compromesso tra le due parti attualmente contendenti.

A quel punto la contessa aveva detto una parola su Daniel Thwaite, il figlio, e Thomas Thwaite, il padre, aveva ascoltato con malcelata collera. Era stato molto dolce per lui combattere contro il conte a nome della moglie maltrattata del conte, ma era molto sgradevole venir frenato nella lotta perché lui e i suoi non erano degni di frequentare la figlia di quella donna maltrattata. A parole egli ammise che lei aveva ragione, ma il suo viso era più eloquente delle parole e il suo viso mostrava chiaramente il malcontento.

«Non è di voi che parlo», disse la contessa, poggiando la mano sulla manica del vecchio.

«Daniel, a ogni modo, è più adatto di me» disse il sarto. «Lui ha studiato, io mai».

«Vale tanto oro quanto pesa. Non è di questo che parlo. Sapete quel che intendo».

«So benissimo quel che intendete, Lady Lovel».

«Non ho nessun amico come voi, signor Thwaite… nessuno a cui voglia bene come a voi. E dopo di voi viene vostro figlio. Per quel che mi riguarda non c’è nulla che non farei per lui o per voi – nessun servigio, per quanto umile, che non sarei pronta a rendervi con le mie stesse mani. Non c’è limite alla gratitudine che vi devo. Ma la mia bambina è giovane e se dovrà portare il peso del rango e della ricchezza… è giusto che gli faccia onore».

«E non è onorevole che la si veda parlare… con un sarto?».

«Ah… se volete prenderla così...».

«Come dovrei prenderla? Quel che dico è vero. E quel che dite voi è egualmente vero. Parlerò a Daniel». Ma la contessa sapeva bene, quando lui se ne andò, che in cuor suo era in collera con lei.

Il vecchio parlò davvero al figlio, sedendo con lui nella stanza da letto che si trovava sopra quella occupata dalla contessa. Il vecchio Thomas Thwaite era un uomo forte, ma suo figlio per alcuni aspetti era più forte. Come aveva detto il padre, aveva studiato – o meglio aveva ricevuto un’istruzione, e la conoscenza impartita conduce alla capacità di pensiero. Egli guardava più a fondo nelle cose di quanto facesse il padre ed era guidato da motivi più grandi e nobili. Il padre era stato un radicale tutta la vita, probabilmente guidato da una qualche formazione giovanile, e i sentimenti che lo inducevano a detestare le pretese di una presunta superiorità lo avevano reso ben saldo nel suo credo. Il vecchio Thwaite non poteva tollerare l’idea che un uomo venisse considerato migliore di un altro perché ne era più ricco. Ammetteva le ricchezze e persino la giustizia delle ricchezze, poiché lui stesso durante gran parte della vita era stato un uomo ricco nell’ambito della sua sfera; ma negava il merito, adducendo a riprova della sua convinzione l’indegnità di certi altolocati peccatori. La carriera del Conte Lovel era stata per lui una prova certa della bassezza dell’aristocrazia inglese in generale. Aveva sognato una repubblica dove un sarto potesse diventare presidente o senatore, o quasi altrettanto nobile. Ma non gli era mai venuto in mente nessun progetto razionale di governo dell’umanità e di teoria politica non ne sapeva di più del lavorante che cuciva sull’asse di legno.

Ma Daniel Thwaite era un uomo riflessivo che aveva letto molti libri. Utopia di More e Oceana di Harrington, insieme a tante altre storie scritte nello stesso spirito, gli avevano insegnato a credere che una forma perfetta di governo, o piuttosto di politica, fosse possibile sulla terra e andasse raggiunta non solo con il lento miglioramento dell’umanità grazie alle incoraggianti leggi divine, ma con gli sforzi continui di uomini buoni e saggi che, con la loro bontà e saggezza, riuscissero a convincere le masse a credere in loro. Diminuire le distanze, non solo tra i ricchi e i poveri ma tra l’alto e il basso, era la grande teoria politica che occupava costantemente il suo intelletto. Il padre pensava sempre a se stesso e al Conte Lovel; mentre Daniel Thwaite era occupato a considerare l’ingiustizia insita nella differenza tra diecimila aristocratici e trenta milioni di persone, che erano per la maggior parte ignoranti e affamate. Ma ciò non significa che anche lui non riflettesse su quel che lo riguardava. Si era gradualmente reso conto che non sarebbe diventato il sovrintendente di un sarto in Wigmore Street se il padre non avesse speso per la contessa quei mezzi con cui lui, il figlio, sarebbe già potuto diventare un commerciante in proprio. E tuttavia non se ne era mai lamentato. Si era dedicato alla causa con lo stesso entusiasmo del padre. Era stata la poesia della sua vita, fin da quando la sua vita era stata capace di poesia – ma per lui non si era trattato di rispetto per quel rango che il padre era così ansioso di restituire alla contessa, né di un qualche valore che attribuiva ai titoli rivendicati da madre e figlia. Detestava il titolo della contessa e quello di sua signoria di Lady Anna. Sarebbe stato felice se li avessero abbandonati. Per lui erano segni odiosi di pretese inique. Ma desiderava intensamente punire e porre rimedio alla malvagità del conte. Teneva in grande considerazione il padre per aver attaccato il malvagio conte gettandolo a terra con un pugno. Era devoto anima e corpo alla causa della moglie maltrattata. E poi quel che gli era veramente caro sulla faccia della terra era Lady Anna.

Era stata la poesia della sua vita. Erano cresciuti insieme come compagni di giochi nel Cumberland. Lui aveva combattuto decine di battaglie contro coloro che negavano che lei fosse Lady Anna – anche se già allora detestava il titolo. I ragazzi lo avevano preso in giro per la sua aristocratica fidanzatina e lui aveva gioito nel sentirla chiamare così. Sua madre e l’unica sorella erano morte quando era piccolo e in casa non c’era stato nessun altro a parte lui e il padre. Da ragazzo stava sempre al cottage della contessa e aveva giurato a Lady Anna che sarebbe vissuto e morto al suo servizio. Ora era un uomo forte e le era più devoto che mai. Era il grande idillio della sua vita. Come poteva accadere che la figlia riconosciuta di un conte, con un’enorme ricchezza, diventasse la moglie di un sarto? E tuttavia era la sua ambizione e il suo scopo. Non era la dote ciò che gli importava. Non era, a ogni modo, la speranza della dote che lo aveva indotto ad amarla. La passione era cresciuta e l’intenzione si era formata prima che il vecchio conte fosse ritornato per l’ultima volta a Lovel Grange – quando non si sapeva nulla del modo in cui la sua ricchezza sarebbe stata distribuita. Sarebbe affettazione negare che la prospettiva delle ricchezze si univa alle sue aspirazioni. L’uomo insensibile al potere che il denaro porta con sé non può che essere uno stupido, e Daniel Thwaite non era uno stupido e amava il potere. Ma aveva un cuore orgoglioso e si ripeteva continuamente che se mai il possesso della fanciulla fosse dipeso dall’abbandono delle ricchezze, allora le ricchezze andavano abbandonate senza pensarci sopra.

Si può immaginare che per un uomo simile le parole che il padre avrebbe detto su Lady Anna, per suggerire la rispettosa distanza con cui andava trattata dal sovrintendente di un sarto, sarebbero risultate molto amare. Erano amare per chi le pronunciava e amarissime per colui che le ascoltava. «Daniel», disse il padre, «è una strana vita quella che fai con la contessa e Lady Anna proprio qui sotto, nella stessa casa».

«Era una casa tranquilla dove farle vivere… ed economica».

«Decisamente tranquilla e tra le più economiche, direi… ma non so se sia un bene che tu stia così tanto con loro. Sono diverse da noi». Il figlio guardò il padre, ma non rispose subito. «I nostri destini si sono incrociati per via delle loro difficoltà», continuò il vecchio, «ma si avvicina il momento in cui sarà meglio per noi farsi da parte».

«Che cosa volete dire, padre?».

«Voglio dire che noi siamo sarti mentre queste persone sono nobili».

«Hanno accettato il nostro aiuto, padre».

«Beh, sì, è vero. Ma non spetta a noi fare commenti a riguardo. È stato offerto di cuore».

«Senza dubbio di cuore».

«E verrà dato fino alla fine. Ma la fine giungerà presto ormai. Una sarà contessa e l’altra Lady Anna. Sono la compagnia adatta per tipi come me e te?».

«Se chiedete la mia opinione, padre, io ritengo di sì».

«Loro la pensano diversamente. Puoi starne certo».

«Hanno detto così, padre?».

«La contessa lo ha detto. Si è lamentata perché chiami la figlia semplicemente Anna. In futuro dovrai aggiungere un titolo al suo nome». Daniel Thwaite era un uomo di carnagione scura, senza la minima sfumatura di vermiglio, un uomo snello, sottile, quasi moro, con le mani scure come nocciole e le guance e la fronte brune. Ma in quel momento arrossì fino agli occhi. Il colore del sangue mentre gli inondava il viso si faceva strada attraverso la carnagione scura ed egli arrossì, come arrossiscono uomini simili, con in volto un’espressione indignata. «Basterà che la chiami Lady Anna», disse il padre.

«La contessa si è lamentata di me allora?».

«Ha fatto capire che la figlia verrebbe danneggiata dalla tua familiarità, e ha ragione. Suppongo che Lady Anna Lovel dovrebbe esser trattata con deferenza da un sarto… anche se il sarto può aver speso fino all’ultimo soldo al suo servizio».

«Non parliamo del denaro, padre».

«Bene; no. Anch’io preferisco non pensare al denaro. Il mondo non è ancora maturo, Daniel».

«No… il mondo non è ancora maturo».

«Ci devono essere conti e contesse».

«Non vedo perché debbano esserci. Ci sono conti e contesse come un tempo c’erano i mastodonti e altre bestie ottuse, troppo cresciute, che vagavano abbiette e affamate per i boschi paludosi… creature fredde, desolanti, goffe, che nel generale progresso sono andate tutte scomparendo. Tutte le grosse creature devono cedere il passo all’intelletto di chi è più finemente strutturato».

«Mi auguro che uomini e donne non cederanno il passo a cimici e pulci», disse il sarto, che era solito ridere della filosofia del figlio.

Il figlio era sul punto di spiegare la sua teoria delle perfezionate dimensioni medie degli esseri raziocinanti, ma il suo cuore al momento traboccava di Anna Lovel. «Padre», disse, «penso che la contessa si sarebbe potuta risparmiare le sue osservazioni».

«Lo penso anch’io… ma visto che le ha fatte, era meglio che te ne parlassi. Dovrai sposarti prima o poi e non starebbe bene che ti cercassi lì una fidanzata». Se la questione gli veniva mostrata sotto quella luce, Daniel Thwaite non intendeva discutere oltre. «Presto sarà tutto finito», continuò il vecchio, «e forse sarà meglio che non si trasferiscano finché la cosa non sarà sistemata. Divideranno il denaro e ce ne sarà a sufficienza per entrambi, in tutta coscienza. La contessa sarà la contessa e Lady Anna sarà Lady Anna; dopo di che non ci sarà più bisogno del vecchio sarto di Keswick. Si muoveranno in un’altra sfera e noi riceveremo loro notizie magari verso Natale insieme a un cesto di selvaggina e forse un po’ di vino, come regalo».

«Non pensate questo di loro, padre».

«Che altro potranno fare? Gli avvocati pagheranno il denaro e loro verranno portate via. Non potranno venire a casa nostra, né noi andare alla loro. Partirò domani, ragazzo mio, alle sei, e il mio consiglio è di disturbarle il meno possibile con la tua presenza. Puoi star sicuro che non ne hanno bisogno».

Daniel Thwaite non era certamente disposto ad accettare il consiglio paterno, ma d’altronde sapeva molto di più del padre. La scena di cui sopra si svolse di sera, quando il lavoro del figlio era terminato. Mentre scendeva dabbasso la mattina seguente passando silenziosamente davanti alla porta della stanza dove dormivano le due signore, non poté evitare di pensare alle parole del padre. «Non starebbe bene che ti cercassi lì una fidanzata». Perché no? Ma qualsiasi consiglio del genere arrivava ormai troppo tardi. Era proprio lì che si era cercato una fidanzata. Aveva parlato e la ragazza gli aveva risposto. L’aveva tenuta stretta al cuore e aveva premuto contro le sue le labbra di lei, chiamandola la sua Anna, la sua adorata, la sua perla, il suo tesoro; quanto a lei – lei aveva solo sospirato tra le sue braccia cedendo alla sua stretta. Aveva pianto pensandoci da sola, con la consapevolezza che essendo Lady Anna non poteva esserci un amore felice tra lei e l’unico giovane che avesse conosciuto. Ma quando lui le aveva parlato, stringendosela al petto, non si era nemmeno sognata di rimproverarlo. Non aveva mai conosciuto nulla che fosse migliore di lui e non desiderava nulla di più che vivere con lui ed esserne amata. Non pensava che fosse possibile conoscere meglio qualcuno. Quel pesante, pesante titolo la riempiva di sgomento. Daniel, mentre camminava pensando al suo abbraccio, ai baci e all’ammonimento paterno, giurò a se stesso che le difficoltà sul suo cammino non l’avrebbero mai fermato.

Lady Anna
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