Il primo incontro
Per qualche giorno, dopo che la madre le ebbe comunicato le sue intenzioni, Lady Anna rimase a letto. Pregò che non si chiamasse un dottore. Aveva mal di testa – nient’altro che mal di testa. Ma era assolutamente impossibile che sposasse mai il Conte Lovel. Cosa che ripeteva ogniqualvolta la madre tornava sull’argomento – «Non l’ho mai visto, mamma; non lo conosco. Sono sicura che sarebbe impossibile». Poi, quando infine si lasciò convincere a vestirsi, si mostrò ancora restia ad accettare l’incontro a cui aveva riconosciuto di dover sottostare. Alla fine acconsentì a trascorrere una giornata in Bedford Square; a cenare là e a farsi ricondurre a casa in serata. La contessa in quel periodo non aveva piena fiducia nell’avvocato, poiché sapeva che era contrario al progetto matrimoniale, ma era felice che la figlia fosse indotta a uscire, persino per andare a casa dell’avvocato, perché dopo quella visita non avrebbe potuto opporre nessuna ragione per rifiutare l’incontro che si doveva predisporre. Non avrebbe potuto sostenere che stava troppo male per vedere il cugino dopo aver cenato con la signora Bluestone.
Al momento erano stati proposti svariati piani per l’incontro. Il vice-procuratore generale, nel discutere la questione con il giovane lord, aveva ritenuto che la cosa migliore da farsi fosse invitare subito Lady Anna a Yoxham – in qualità di Lady Anna – e il giovane lord sarebbe stato più che soddisfatto di una tale sistemazione. Avrebbe potuto affrontare il corteggiamento obbligato tra i suoi amici, nella casa a cui era abituato, con molta più disinvoltura che non in camere d’affitto londinesi. Ma suo zio, informato per corrispondenza dal signor Hardy, continuava a fare obiezioni. «Equivarrebbe a una resa totale», diceva, «se dovessimo chiamarla anche solo una volta Lady Anna. In che posizione ci troveremmo se non dovessero andare d’accordo? Io non credo e non crederò mai che sia davvero Lady Anna Lovel». Il vice-procuratore generale, quando venne a sapere dell’obiezione, scosse il capo, sentendosi irritato fin quasi alla collera. Che stupide quelle persone a non capire che lui vedeva più lontano nella questione di quanto sapessero far loro e che il modo migliore di uscire dalle difficoltà sarebbe stato di aprire con franchezza le braccia all’ereditiera! Se avessero continuato a essere testardi e prevenuti, tutto ben presto sarebbe andato perduto.
Aveva anche un piano per invitare la ragazza in casa propria con il consenso della moglie. Ma a quel punto gli mancò il coraggio; o, sarebbe più giusto dire, la prudenza prevalse. Era molto ansioso, intensamente desideroso, di comporre la disputa della grande famiglia in modo tale che tutti ne traessero beneficio – credendo, anzi, sentendosi assolutamente certo che tutti gli interessati alla questione fossero onesti; ma non doveva arrivare al punto di infliggersi un danno totale e deplorevole, se alla fine fosse risultato che qualcuna delle sue congetture era sbagliata. Così quel piano venne abbandonato.
Al giovane conte non restava altro che affrontare di persona l’ostacolo e farsi presentare alla ragazza nelle stanze prese in affitto in Wyndham Street. Ma, come preludio a ciò, venne organizzato un incontro nello studio del signor Flick tra la contessa e il presunto futuro genero. Che il conte si recasse nello studio del suo legale era perfettamente nella norma. Mentre si trovava là, arrivò la contessa – il che non era nella norma e indusse quasi l’avvocato di prima classe, quando lo venne a sapere, a dichiarare che non intendeva più avere nulla a che fare con il caso. «Milord», disse la contessa, «sono felice di conoscervi e spero che potremo diventare amici». Il giovanotto era meno padrone di sé e farfugliò qualche parola che voleva essere gentile.
«È un peccato che dobbiate avere interessi contrastanti», disse il legale.
«Spero che non sia necessario che rimangano tali», disse la contessa. «Desidero con tutto il cuore, Lord Lovel, il bene della nostra comune famiglia. Noi non vi negheremo nulla se voi non ci negherete i nomi che ci appartengono e senza i quali non possiamo vivere onorevolmente di fronte al mondo». A quel punto venne borbottata qualche altra parola e il conte promise di andare in Wyndham Street a una certa ora. Sul matrimonio non fu detta una sillaba. Persino la contessa, con tutta la sua determinazione e il suo coraggio, non riuscì a chiedere a chiare lettere al giovane di sposare la figlia.
«È una donna molto bella», disse il lord al legale, quando la contessa se ne fu andata.
«Proprio così».
«E signorile».
«Assolutamente signorile. Lei stessa viene da una buona famiglia».
«Suppongo che fosse davvero la moglie del defunto conte. Non crede, signor Flick?».
«Chi può dirlo, milord? È proprio questo il problema. Il vice-procuratore generale ritiene che lei riuscirebbe a dimostrare i suoi diritti e non mi risulta che egli si sia mai sbagliato quando si è formato una salda opinione».
«Perché non rinunciare subito in suo favore?».
«Non mi sentirei di consigliarlo, milord. Perché dovremmo rinunciare? Gli interessi in gioco sono enormi. Non penserei per un momento di suggerirvi di rinunciare».
«Non voglio nulla, signor Flick, che non mi appartenga».
«Proprio così. Ma forse vi appartiene davvero. Non potremo mai saperlo con certezza. Senza dubbio la via più sicura per voi sarebbe di imparentarsi con questa signora. Naturalmente in tal caso ci ritireremmo, ma l’assegnazione matrimoniale assicurerebbe i beni». Al giovane conte ciò non piaceva proprio. Avrebbe preferito cominciare il corteggiamento una volta che la ragazza avesse visto riconosciuti i suoi diritti, quando non si sarebbe sentita costretta ad accettarlo. Ma egli aveva acconsentito ed era troppo tardi ormai per tirarsi indietro. Era già stato deciso che si sarebbe recato in Wyndham Street l’indomani a mezzogiorno, per poter essere presentato alla cugina.
Quella sera la contessa rimase in piedi fino a tardi con la figlia, per evitare che il mattino dopo venisse detto qualcosa volto a turbare la mente della ragazza. Ma mentre sedevano insieme nel crepuscolo e poi nell’oscurità della notte, vicino alla finestra aperta, da dove giungeva fino a loro l’aria opprimente della metropoli calda con tutto il calore di una giornata di giugno londinese, la contessa parlò moltissimo. «Toccherà a te, domani, portare a compimento o distruggere tutto quel che ho fatto dal giorno in cui sei nata».
«Oh! Mamma, che cosa terribile da dirsi!».
«Ma le cose terribili vanno dette quando sono vere. È così. Sta a te decidere se trionferemo, o se saremo completamente e per sempre annientate».
«Non riesco a capirlo. Perché dovremmo venire annientate? Non mi vorrebbe sposare se il patrimonio non fosse mio. Non verrà qui, mamma, perché mi ama».
«Dici così perché non capisci. Credi che il mio titolo mi verrà concesso, se tu dovessi rifiutare la proposta di tuo cugino? Se è così, sei in grave errore. La battaglia continuerebbe e, visto che noi non abbiamo denaro, avremmo la peggio alla fine. Perché non dovresti amarlo? Non c’è nessun altro a cui tu voglia bene».
«No, mamma», disse lentamente.
«Allora, che altro puoi volere?».
«Non lo conosco, mamma».
«Ma lo conoscerai. Se ci si basasse su questo, nessuna ragazza si sposerebbe mai. Non è una gran cosa che ti venga chiesto di godere del rango appartenuto a tua madre, ma di cui lei non ha mai potuto beneficiare?».
«Credo, mamma, che non mi importi molto del rango».
«Anna!». Nel sentire ciò la mente della madre corse subito al sarto. Dopo tutto un’infelicità così terribile l’aveva travolta?
«Voglio dire che non me ne importa granché. Non ci ha mai fatto del bene».
«Ma se si tratta di qualcosa che ti appartiene, con cui sei nata, devi sopportarlo, nella gioia e nel dolore. Se è tuo, non puoi gettarlo via da te. Puoi disonorarlo, ma continuerai ad averlo. Anche se ti dovessi buttare tra le braccia di uno spazzacamino, resterai sempre Lady Anna, la figlia di Lord Lovel».
«Non è necessario che mi chiami così».
«Ma altri ti chiameranno così. È il tuo nome e non te ne puoi liberare. È tuo di diritto, come il mio nome mi è appartenuto di diritto, e non rivendicarlo, non esserne all’altezza, non esserne orgogliosa, dimostrerebbe un’incredibile bassezza. ‘Noblesse oblige’. Conosci il motto e sai quel che significa. E a questo punto tu vorresti gettar via per una qualche puerile fantasia tutto quel che ho ottenuto lottando per te nella mia intera esistenza? Hai mai pensato a quel che è stata la mia vita, Anna?».
«Sì, mamma».
«Avresti il coraggio di deludermi, ora che abbiamo raggiunto la vittoria – ora che grazie al tuo aiuto può essere nostra? E cos’è che ti chiedo di fare? Se quest’uomo fosse cattivo – se fosse come tuo padre, se fosse un ubriacone, crudele, irascibile, o anche grossolano, sciocco, o deforme, se ti avessero raccontato delle storie per metterti contro di lui, che è stato falso con altre donne, per esempio, potrei capire. In tal caso a ogni modo scopriremmo la verità prima di procedere. Ma di quest’uomo abbiamo saputo che è buono e gradevole; un giovane eccellente, che si è fatto apprezzare da tutti coloro che lo conoscono. Un uomo tale che tutte le ragazze della sua levatura in società darebbero qualunque cosa per conquistare».
«Allora che lo conquisti qualche ragazza che gli vuol bene».
«Ma lui vuole conquistare te, tesoro».
«Non perché mi ama. Come può amarmi se non mi ha mai visto. Come posso io amarlo se non l’ho mai visto?».
«Desidera conquistarti perché ha saputo come sei e perché si rende conto che così facendo appianerebbe una situazione che per molti anni è stata riprovevole».
«È perché otterrebbe tutto quel denaro».
«Lo otterreste entrambi. Non desidera nulla di disonesto. Qualunque cosa prenderà da te, ti darà altrettanto. E non solo per questa generazione. Non ti importa che le persone a capo della tua stessa famiglia che verranno dopo di te possano andare a testa alta tra gli altri pari britannici? Non vorresti che tuo figlio diventasse il Conte Lovel, con un patrimonio sufficiente a sostenerne la dignità?».
«Non penso che ciò lo renderebbe felice, mamma».
«In questo c’è qualcosa che non mi riesce di capire, Anna. Una volta non eri così. Quando parlavamo di queste cose negli anni passati, tu non eri indifferente».
«Allora non mi veniva chiesto di… di… sposare un uomo che non amo».
«C’è qualcos’altro, Anna».
«No, mamma».
«Se non c’è null’altro imparerai a volergli bene. Lo vedrai domani e rimarrai da sola con lui. Io resterò con voi per un po’ e poi vi lascerò. Tutto quel che ti chiedo è che tu domani lo riceva senza nessun pregiudizio nei suoi confronti. Dovrai ricordare quanto dipende da te e che tu non sei come le altre ragazze». Dopo di che a Lady Anna fu permesso di andare a letto e di piangere in solitudine sulla sua situazione sventurata. Non solo amava Daniel Thwaite con tutto il cuore – lo amava con un amore che era aumentato crescendo con lei di anno in anno – ma lo temeva anche. Quell’uomo era diventato il suo padrone; e se anche le fosse riuscito di dimostrarsi scorretta, le sarebbe mancato il coraggio di dichiarare tale slealtà all’uomo a cui aveva promesso il suo amore.
Il mattino seguente Lady Anna non scese a colazione, e la contessa cominciò a temere di non riuscire a indurre la sua ragazza ad alzarsi in tempo per ricevere il visitatore. Ma la povera bambina aveva deciso di ricevere la visita dell’uomo e non contemplava nessuna scappatoia del genere. Alle undici si vestì lentamente e prima delle dodici scese pian piano nell’unico salottino che occupavano. La contessa si voltò a guardarla, ansiosa di trovarla nella sua forma migliore. Le aveva dato certe istruzioni sul suo abbigliamento, l’acconciatura dei capelli e la disposizione dei nastri; e tutte erano state eseguite abbastanza bene. Il suo viso, però, aveva una durezza immota, risoluta, tale da far temere alla madre che il conte potesse esserne scoraggiato. La madre sapeva che la figlia non aveva mai avuto un’espressione simile prima di allora.
Puntualmente alle dodici fu annunciato il conte. La contessa lo ricevette in modo molto amabile e con gran compostezza. Gli strinse la mano come se si conoscessero da tutta la vita e poi lo presentò alla figlia con un dolce sorriso. «Spero che la riconoscerete come una lontana cugina, milord. Dicono che il sangue non sia acqua e, se è così, voi due dovreste essere amici».
«Di certo io spero che potremo diventarlo».
«Lo spero anch’io… milord», disse la ragazza, mentre abbandonava la mano immobile in quella di lui.
«Abbiamo sentito parlare di voi giù nel Cumberland», disse la contessa. «È da molto tempo che non vedo quei posti, ma non lo dimenticherò mai. Non c’è un cespuglio tra le montagne che io non ricorderò, … sì, nell’aldilà, se qualcosa dei nostri ricordi ci rimane».
«Amo le montagne; ma la casa è molto cupa».
«Cupa davvero. Se voi la trovate triste, che cosa deve essere stata per me? Spero di potervi raccontare un giorno tutto quel che ho sofferto là. Ci sono cose da dire di cui non ho ancora mai parlato a essere umano. Lei, povera bambina, finora è stata troppo giovane e vulnerabile perché la si turbasse con una simile storia. Talvolta penso che nessuna tragedia mai scritta, nessuna storia di orrori mai narrata, possa superare nella descrizione le cose che ho sopportato in quell’anno di vita coniugale». Poi si dilungò sull’argomento, senza rivelare i dettagli di quell’anno orribile, ma parlando in generale delle sofferenze della sua vita. «Non mi sono mai stupita, Lord Lovel, che voi e i vostri parenti più prossimi abbiate messo in dubbio la mia posizione. Un uomo cattivo mi aveva circondata ad arte con tale malvagità che liberarmi dai suoi lacci è stato quasi superiore alle mie forze». Tutto ciò era stato progettato in anticipo, perché aveva deciso che si sarebbe subito precipitata nel vivo dell’azione, assicurandosi se possibile le sue simpatie.
«Spero che ora ciò possa aver fine», egli disse.
«Sì», lei replicò, alzandosi lentamente dalla sedia, «spero che ora ciò possa aver fine». Era venuto il momento in cui doveva giocare la mossa più difficile dell’intera partita e molto poteva dipendere dal modo in cui la giocava. Non poteva lasciarli insieme, uscendo bruscamente dalla stanza, senza fornire qualche scusa per un comportamento così insolito. «Davvero, spero che ora ciò possa aver fine, sia per noi che per voi, Lord Lovel. Quell’uomo malvagio, nel lasciare dietro di sé una tale causa di litigio, ha danneggiato voi profondamente quasi quanto noi. Prego Dio che voi e questa cara ragazza possiate guardare l’uno nel cuore dell’altra e fidarvi dei reciproci motivi, che possiate porre riparo al male fatto dal vostro predecessore. In tal caso la famiglia Lovel per secoli a venire avrà ragione di benedire i vostri nomi». Poi con passi misurati lasciò la stanza.
Lady Anna aveva detto una parola, e quello era stato tutto. Certamente non toccava a lei ora parlare. Sedeva appoggiandosi al tavolo, con gli occhi fissi a terra, non osando guardare l’uomo che era stato condotto da lei come suo futuro marito. Un unico sguardo gli aveva rivolto mentre entrava nella stanza e aveva subito visto che era bello e di carnagione chiara, che aveva ancora in viso quelle dolci, accattivanti tracce di fanciullezza che fanno capire a una ragazza di non dover temere l’uomo in questione – perché quell’uomo ha qualcosa della sua stessa debolezza e non c’è bisogno di trattarlo come se fosse saggio, superbo o eroico. Con quell’unico sguardo vide anche quanto fosse diverso da Daniel Thwaite, l’uomo a cui si era assolutamente promessa – e in quel momento comprese qualcosa del fascino della dolcezza voluttuosa e del lusso aristocratico. Daniel Thwaite era bruno, con le mani callose per il lavoro, la barba scura – con un nobile fuoco negli occhi, ma con un’innata grossolanità della bocca che denotava rudezza oltre che forza. Se per lei le cose fossero state diverse da quel che erano, avrebbe potuto, pensò, trovare assai facile amare il giovane conte. Ma data la situazione, non le restava altro da fare che aspettare e rispondergli come meglio poteva.
«Lady Anna», lui disse.
«Milord!».
«Non sarebbe un bene se fossimo amici?».
«Oh, … amici; … sì, milord».
«Vi dirò proprio tutto – intendo di me. Mi hanno insegnato a credere che voi e vostra madre eravate solo… delle truffatrici».
«Milord, noi non siamo truffatrici».
«No – ci credo. Sono sicuro che non lo siete. Sono stati fatti degli errori, ma non è stata opera mia. Da ragazzo cosa potevo credere, se non quel che mi veniva detto? Ora so che siete e sempre siete stata quel che vi siete definita. Se non ne verrà null’altro, io a ogni modo questo lo dichiarerò. I beni che vostro padre ha lasciato vi appartengono senza dubbio. Se potessi impedirlo, non ci sarebbe più nessuna azione legale».
«Grazie, milord».
«Vostra madre dice di aver sofferto molto. Sono certo che ha sofferto. Confido che tutto ciò ora sia finito. Sono venuto qui oggi per dire questo da parte mia, più che per qualsiasi altra ragione». L’ombra dell’ombra della delusione, la più remota sembianza di una nube le attraversò il cuore nel sentire ciò. Ma era un bene. Non avrebbe potuto sposarlo, anche se lo avesse voluto, e ora pareva che la difficoltà fosse superata. Sua madre e quegli avvocati si erano sbagliati ed era un bene che lui glielo dicesse subito.
«È molto bello da parte vostra, milord».
«Non dovete credere che io venga da voi nella speranza che mi promettiate il vostro amore prima di avervi mostrato se vi amo o meno».
«No, milord». A quel punto non riusciva più a capirlo – intendeva proporsi come corteggiatore o no?
«Voi, Lady Anna, siete l’erede di vostro padre. Io sono vostro cugino, il Conte Lovel, il pari più povero d’Inghilterra. Mi dicono che dovremmo sposarci perché voi siete ricca e io sono un conte».
«Così mi dicono – ma questo non sarebbe giusto».
«Non lo accetterei, anche se osassi credere che dareste il vostro assenso».
«Oh, no, milord; nemmeno io».
«Ma se voi poteste imparare ad amarmi…».
«No, milord; no».
«Non rispondetemi ancora, cugina mia. Se giurassi che vi amo – vi amo già dopo avervi appena visto – e vi amo per di più sapendo che siete un’ereditiera così ricca…».
«Ah, non parlate di questo».
«Bene; non di questo. Ma se io dicessi che vi amo, non mi credereste».
«Non sarebbe vero, milord».
«Ma io so che vi amerò. Mi lascerete tentare? Siete molto bella e mi dicono che avete un carattere dolce. Non faccio fatica a credere che siate dolce e amabile. Mi lascerete provare ad amarvi, Anna?».
«No, milord».
«È deciso, così presto?».
«Sì, milord».
«Perché? È perché siamo due sconosciuti? A questo si può rimediare, se non in fretta, come io vorrei porvi rimedio, lentamente e gradualmente; lentamente quanto potete desiderare, se solo mi sarà concesso di venire dove sarete voi. Avete detto che potremo essere amici».
«Oh sì, amici, spero».
«Amici a dir poco. Siamo nati cugini».
«Sì, milord».
«Non potete chiamarmi per nome? I cugini, sapete, lo fanno. E ricordatevi che non avrete e non potrete avere cugino più stretto di me. Sono tenuto come minimo a essere un fratello per voi».
«Oh, siate mio fratello!».
«Questo o più di questo. Sarei felice di essere di più. Ma sarò almeno questo. Mentre venivo da voi, prima di vedervi, sentivo che quando ci saremmo conosciuti non avrei potuto essere per voi meno di tanto. Se sarò vostro amico, dovrò essere il vostro migliore amico – visto che sono, sebbene povero, il capo della vostra famiglia. I Lovel dovrebbero almeno amarsi a vicenda; e tra cugini ci si può voler bene, anche se non ci si ama abbastanza da diventare marito e moglie».
«Vi vorrò sempre bene così».
«Abbastanza da essere mia moglie?».
«Abbastanza da essere la vostra cara cugina – la vostra amorevole sorella».
«Così sarà, a meno che non si possa essere di più. Non vi chiederò altro per ora. Non vorrei che mi concedeste di più ora. Ma pensate a me e chiedetevi se avrete il coraggio di darvi a me del tutto».
«Non avrò il coraggio, milord».
«Non chiamereste vostro fratello milord. Il mio nome è Frederic. Ma Anna, cara Anna» – e poi egli le prese la mano che non opponeva resistenza – «non vi verrà chiesto altro per ora. Ma tra cugini, cugini che si sono appena incontrati, che si vogliono bene, che sono pronti a sostenersi l’un l’altro contro il mondo, ci si può certamente scambiare un bacio – come farebbero fratello e sorella. Non mi negherete un bacio». Allora lei gli offrì innocentemente la guancia ed egli la baciò con gentilezza – con un bacio che non si poteva definire da innamorato. «Ora me ne andrò», egli disse continuando a tenerle la mano. «Ma dite questo a vostra madre: che non sarà più disturbata dagli avvocati su istanza di suo cugino Frederic. Per me è la Contessa Lovel e da me verrà trattata con il rispetto adeguato al suo rango». E così egli lasciò la casa senza rivedere la contessa.