I primi eventi nella storia di Lady Lovel

 

 

 

 

 

Spesso le donne sono state maltrattate dagli uomini, ma forse nessuna donna ha mai subito maltrattamenti peggiori, crudeltà più feroci di quelle che ricevette in sorte Josephine Murray da parte del Conte Lovel, a cui si unì in matrimonio nella chiesa parrocchiale di Applethwaite – una parrocchia senza villaggio, tra le montagne del Cumberland – il 1 giugno del 181*. Che il matrimonio risultasse valido secondo tutte le norme della Chiesa, ammesso che Lord Lovel avesse i requisiti legali per sposarsi, nessuno lo mise mai in dubbio; né il conte dichiarò mai che non fosse tale. Lovel Grange è una piccola residenza, circondata da una piccola proprietà terriera – piccola per essere la dimora di un ricco aristocratico – che si trova tra le montagne che separano il Cumberland dal Westmoreland, a circa dieci miglia da Keswick, incantevole per il fulgore del tappeto erboso e il rigoglio del terreno boscoso intatto, per la vicinanza di montagne incombenti e per la bellezza di Lovel Tarn, un laghetto appartenente alla proprietà, punteggiato da isolette, ognuna delle quali è coperta da un suo boschetto di agrifogli, betulle e querce nane. La casa in sé è mediocre, mal costruita, con corridoi dispersivi e camere basse, ed è un’abitazione cupa, dall’aria infausta. Quando Josephine Murray vi fu condotta subito dopo le nozze, la trovò molto cupa e infausta; ma amava i laghi e le montagne e fantasticava su una vaga e misteriosa gioia di vivere che le sarebbe venuta dall’aspetto selvaggio della sua dimora.

Ho paura che non avesse altri motivi, più validi di quello, su cui basare le speranze di felicità. Al momento del matrimonio non aveva ragione di credere che Lord Lovel fosse un uomo buono e non si può dire che lo amasse. Aveva allora ventiquattro anni, mentre lui ne aveva il doppio. Lei era molto bella, bruna, con grandi, arditi occhi blu, con i capelli praticamente neri, alta, ben fatta, florida fino a essere quasi robusta, una donna di buona famiglia, coraggiosa, ambiziosa, che riteneva fosse una gran cosa essere la moglie di un lord. Sebbene la nostra storia avrà molto a che fare con le sue sofferenze, la cronaca dei suoi giorni di sposa può essere brevissima. È delle grandi lotte che le toccarono negli anni a venire che ci occuperemo maggiormente e al lettore, pertanto, non sarà necessario venir importunato con lunghe descrizioni di come fosse Josephine Murray quando divenne la Contessa Lovel. C’è la speranza che i suoi torti vengano ritenuti degni di compassione – e in qualche modo possano esser considerati come un’ammenda per i bassi motivi del suo matrimonio.

Il conte, quando trovò la sua sposa, aveva vissuto per un anno quasi in solitudine. Con la gentry1 del vicinato nel paese dei laghi2 non intratteneva rapporti amichevoli. La sua proprietà là era esigua e la sua reputazione pessima. Era un conte inglese e come tale superficialmente noto a coloro che conoscono tutti i conti; ma era un uomo che non si vedeva mai in Parlamento, che aveva trascorso la maggior parte dell’età adulta all’estero, che aveva venduto delle tenute in altre contee, convertendo acri non vincolati in accresciuta ricchezza, una ricchezza però assai meno accettabile per il classico aristocratico inglese di quella che viene direttamente dalla terra. Lovel Grange era l’unica proprietà inglese che gli rimanesse. Quando si trovava a Londra soggiornava nelle camere di un albergo, non riceveva mai e non accettava mai ospitalità. Si sapeva che era molto ricco e si diceva che fosse matto. Questo era l’uomo che Josephine Murray aveva scelto di sposare perché era un conte.

Lui l’aveva incontrata vicino a Keswick dove, in un grazioso cottage che si affacciava sul Derwentwater, viveva con il padre – un perfetto gentiluomo, perché il Capitano Murray veniva dal ramo giusto dei Murray – e di là l’aveva condotta a Lovel Grange. Josephine non aveva portato con sé nessuna dote e nessuna rendita matrimoniale le era stata assegnata. Il padre, che era allora un uomo anziano, aveva protestato debolmente; ma l’ambizione della figlia aveva prevalso e il matrimonio era stato celebrato. La bella giovane fu portata via come sposa. Non sarà necessario raccontare quali sforzi erano stati fatti per allontanarla dalla casa paterna senza gli onori nuziali; ma va detto che il conte era un uomo che con la sua lascivia non aveva mai risparmiato una donna. Era stata la regola, quasi il credo della sua vita, che la donna fosse creata per soddisfare l’appetito dell’uomo e che fosse solo un povero sciocco l’uomo che non afferrava la dolcezza offertagli. Aveva vissuto in modo da convincersi che quegli uomini che si dedicano alle mogli, come una moglie si dedica al marito, fossero i poveri goffi idioti del creato, a cui era mancata la forza di raggiungere la sola ragione d’esistere che potesse rendere la vita degna d’essere vissuta. Le donne erano state per lui una preda, come la volpe è una preda per il cacciatore e il salmone per il pescatore. Ma aveva acquisito grande abilità nello sport e sapeva inseguire la selvaggina con tutta la maestria che l’esperienza conferisce. Era in grado di guardare una donna come se vedesse nei suoi occhi il paradiso intero e di ascoltarla come se la musica delle sfere risuonasse nella sua voce. Sapeva poi sussurrare parole che, per molte donne, erano come la musica delle sfere e sapeva perseverare, abbandonando tutti gli altri piaceri, votandosi all’unico insano obiettivo con una costanza che rendeva il successo quasi certo. Ma con Josephine Murray non poté ottenere il successo se non portandola all’altare e facendone la Contessa Lovel.

Non aveva vissuto con lui ancora sei mesi quando il Conte Lovel le disse che il matrimonio non era un matrimonio e che lei era… la sua amante. Vi era in quell’uomo un’audacia che allontanava qualsiasi timore della legge e che risultava indifferente alle minacce e alle interferenze. Le assicurò che l’amava e che poteva liberamente vivere con lui; ma non era sua moglie e il bambino che aspettava non poteva essere l’erede del titolo, né poteva vantare diritti ereditari sulla proprietà. L’amava davvero – avendo scoperto che era una donna della cui compagnia non si era stancato nell’arco di sei mesi. Sarebbe tornato in Italia e le propose di portarla con sé; ma non poteva, disse, permettere la farsa di lasciarla a Lovel Grange a farsi chiamare Contessa Lovel. Se avesse deciso di andare con lui a Palermo, dove aveva un castello, e di restare con lui sul suo yacht, le avrebbe permesso per il momento di viaggiare come sua moglie. Ma doveva sapere che non era sua moglie. Era solamente la sua amante.

Naturalmente lei ne informò il padre. Naturalmente invocò ogni Murray all’interno e all’esterno della Scozia. Naturalmente ci furono molte minacce. Si combatté un duello vicino a Londra, dove Lord Lovel acconsentì a farsi sparare addosso per due volte – dichiarando che dopo di ciò non riteneva le circostanze del caso tali da richiedere che si facesse ancora sparare contro. Quando ancora le era permesso vivere a Lovel Grange, nacque la sua bambina e le morì il padre. Ma cosa era opportuno che facesse? Lui dichiarava di avere già una moglie quando l’aveva sposata e che pertanto lei non era e non poteva essere sua moglie. Doveva intentare un procedimento giudiziario contro di lui per bigamia, riconoscendo in tal modo che non era una sposa e che la sua bambina era illegittima? In base alle prove che era riuscita a procurarsi, riteneva che la donna italiana, che il conte aveva sposato in passato, fosse morta prima del suo matrimonio. Il conte dichiarò che la contessa, la vera contessa, era scomparsa solo alcuni mesi dopo la piccola cerimonia nella chiesa di Applethwaite. In un momento di debolezza Josephine cadde ai suoi piedi e gli chiese di rinnovare la cerimonia. Lui si chinò su di lei, la baciò e sorrise. «Mia graziosa bambina», disse, «perché dovrei farlo?». Non la baciò mai più.

Che cosa doveva fare? Prima che avesse deciso, lui veleggiava sul suo yacht verso Palermo e senza dubbio non era solo. Che cosa doveva fare? Le aveva lasciato una rendita, – sufficiente per l’amante ripudiata di un conte – qualche centinaio di sterline l’anno, a condizione che lasciasse pacificamente Lovel Grange, smettesse di farsi chiamare contessa e portasse se stessa e la bambina… ovunque le aggradasse. Per quel che gli importava ogni covo di peccato a Londra le era aperto. Ma che cosa doveva fare? Le sembrava incredibile che dovesse subire un torto così grande e che l’uomo le sfuggisse impunito – a meno che lei non decidesse di riconoscere la bassezza della propria posizione perseguendolo per bigamia. I Murray non le vennero in soccorso con molta generosità, perché il vecchio era stato assai biasimato per aver dato la figlia in moglie a uno di cui non si sapeva nulla di buono. Un Murray aveva sparato due colpi in sua difesa, in risposta a ognuno dei quali il conte aveva sparato in aria; ma oltre a ciò i Murray non potevano far nulla. Ma lei che cosa doveva fare?

Il conte se ne era ormai andato da cinque anni, veleggiando da qualche parte per il mondo, quando infine lei decise di intentare una causa per bigamia. In quegli anni viveva ancora alla Grange, con la bambina, e il tribunale le aveva assegnato una certa somma come alimenti finché non si fosse deliberato sul suo caso; ma trovò molto difficile mettere le mani su quegli alimenti – quasi impossibile mettere le mani sulla totalità della somma. Accadde poi che venisse spogliata dagli avvocati e dai commercianti e si facesse una cattiva reputazione affermando che le richieste a lei rivolte si sarebbero per legge dovute rivolgere allo stesso uomo che era sul punto di perseguire per bigamia. La cosa andò avanti finché continuare a vivere a Lovel Grange le divenne impossibile.

A quel tempo viveva a Keswick un certo signor Thomas Thwaite, un sarto, che poco a poco aveva assunto una parte importante nel denunciare i torti che Lady Lovel aveva subito. Era un uomo possente, vigoroso, con buoni mezzi per la sua posizione, un noto radicale, in una contea dove i radicali non erano mai stati popolari e dove cinquanta anni fa erano molto più rari di quanto non lo siano ora. In quel periodo Keswick e i dintorni cominciavano a essere noti come luoghi di residenza di poeti e Thomas Thwaite conosceva Southey e Wordsworth.3 Si trattava di un uomo intelligente, retto, impulsivo, che aveva una buona opinione del posto che occupava al mondo e sapeva dar voce alle proprie idee. Era alto, massiccio e robusto; tenero di cuore ed estremamente generoso, e detestava il Conte Lovel con tutta l’anima. Una volta, quando la storia dei torti subiti dalla contessa era ormai conosciuta, i due uomini si erano incontrati e il sarto aveva atterrato il conte con un pugno. Ciò era accaduto mentre il conte stava lasciando Lovel Grange ed era sul punto di partire per il suo lungo viaggio. La scena si verificò dopo che si era separato dalla contessa – che non avrebbe mai più rivisto. Egli si rialzò e si lanciò contro il sarto, ma i due furono separati e il conte ritenne meglio partire per il suo viaggio. Quanto al pugno, non ebbe altre conseguenze e molti anni scivolarono via prima che il conte tornasse nel Cumberland.

Diventò impossibile per la contessa e sua figlia, la giovane Lady Anna come veniva di solito chiamata, rimanere a Lovel Grange, ed esse trovarono rifugio nella casa del signor Thwaite, a Keswick, come residenza temporanea. In quel periodo la contessa aveva dei debiti e c’erano già dei procedimenti legali per ottenere il pagamento di tali debiti dai beni del marito; non appena lei si decise di intentare la causa per bigamia, la confusione a riguardo andò aumentando. La contessa smise di farsi chiamare contessa, perché certamente non sarebbe stata una contessa se fosse riuscita a dimostrare che il conte era colpevole. Inoltre se lui fosse stato reo di bigamia, l’ordinanza in base alla quale le erano assegnati gli alimenti sarebbe risultata nulla. Se avesse vinto, sarebbe diventata una donna nubile con una figlia e senza un soldo, la sua bambina sarebbe stata illegittima e disprezzabile, mentre lui – per quel che lei riusciva a prevedere – sarebbe sfuggito al castigo. Ma, a dire il vero, lei e il suo amico sarto non erano in cerca di vittoria. Lei e tutti i suoi amici credevano che il conte non avesse commesso il reato. Ma se fosse stato assolto, allora la richiesta di essere chiamata Lady Lovel e di godere delle prerogative del suo rango sarebbe stata accolta. O perlomeno qualcosa si sarebbe ancora potuto fare perché tali richieste venissero accolte. Comunque durante quel periodo si fece chiamare signora Murray e la piccola Lady Anna era chiamata Anna Murray.

La situazione della donna era resa molto più dolorosa dal fatto che la simpatia pubblica in luoghi distanti del paese – a Londra e nelle contee meridionali, e persino presso alcuni settori della gentry nel Cumberland e nel Westmoreland – non fosse dalla sua parte. Si era sposata senza la dovuta cautela. Alcuni uomini dicevano – e molte donne ripetevano la storia – che lei avesse saputo dell’esistenza di una precedente moglie quando aveva sposato il conte. Aveva contratto dei debiti e poi aveva rifiutato di riconoscere i debiti. Si trovava ad abitare nella casa di un sarto radicale di bassa estrazione, che aveva assalito l’uomo che lei chiamava suo marito; inoltre aveva ripreso il suo nome da ragazza. Si raccontavano di lei storie del tutto false – come quando si disse che beveva. Ne furono riportate altre che avevano in sé qualche granello di verità – per esempio che era violenta, altezzosa e vendicativa. Se avessero detto di lei che ormai la sua unica religione era far valere i diritti della figlia, – per fas aut nefas – farli valere in qualsiasi modo; rendere giustizia alla figlia senza curarsi di qualsiasi torto fatto a se stessa o agli altri – allora si sarebbe detta la verità.

Il caso si trascinò lentamente e la piccola Anna Murray era ormai una bambina di nove anni quando alla fine il conte fu assolto dall’accusa che gli era stata mossa. Durante tutto quel periodo egli era stato assente. Anche se ci fosse stato l’intento di farlo comparire in tribunale di persona, la legge non avrebbe avuto il potere di raggiungerlo. Ma non c’era stato un tale intento. Era stato impossibile dimostrare il precedente matrimonio, che aveva avuto luogo in Sicilia – o se non impossibile, perlomeno nessuna prova adeguata era disponibile; non c’era alcun autentico desiderio che ci fosse una prova del genere. Gli avvocati del conte si astennero, per quanto poterono astenersi, dall’intraprendere qualsiasi mossa. Spesero il denaro necessario e ottennero il procuratore generale del tempo come difensore. In tale veste il procuratore generale dichiarò di non avere nulla a che fare con il modo in cui il conte aveva trattato la donna che ora si faceva chiamare signora Murray. Non sapeva nulla delle circostanze di quel legame e non intendeva andare oltre il suo mandato. Si trovava là per difendere il Conte Lovel dall’accusa di bigamia; cosa che fece con successo facendo assolvere il conte. A quel punto, in tribunale, l’avvocato della moglie dichiarò che la sua cliente avrebbe nuovamente assunto il nome di Lady Lovel.

Ma non era così facile indurre gli altri a chiamarla Lady Lovel.

Inoltre ormai non solo lei era notevolmente ostacolata dalle difficoltà economiche, ma lo era anche il sarto. Thomas Thwaite però non diminuì mai, nemmeno per un momento, i suoi sforzi per dimostrare il rango della donna che aveva deciso di aiutare; così per un altro e più lungo periodo di otto anni la battaglia proseguì. Proseguì molto lentamente, come è consuetudine nelle battaglie di tal genere, e si ottennero ben pochi risultati. Il mondo, di norma, non credeva che la donna che si faceva di nuovo chiamare Contessa Lovel avesse diritto a quel nome. I Murray, i suoi stessi parenti – per quanto fossero i suoi stessi parenti – avevano imparato a dubitare dei suoi diritti. Se era una contessa perché si era gettata tra le braccia di un vecchio sarto? Perché lasciava che la figlia giocasse con il figlio del sarto, se quella figlia era davvero Lady Anna? Perché, soprattutto, si permetteva che si menzionasse il nome di Lady Anna, come veniva menzionato, insieme a quello di Daniel Thwaite, il figlio del sarto?

Durante quegli otto logoranti anni Lady Lovel – perché così verrà chiamata – visse in un piccolo cottage a circa un miglio da Keswick, sulla via per Grassmere e Ambleside, che affittava di trimestre in trimestre. Riceveva ancora una certa parte di alimenti, che però scivolavano via attraverso vari canali e le giungevano insieme a solenni asserzioni circa l’impossibilità di ottenere qualcosa di simile alla cifra che le era stata assegnata. E alla fine accadde che lei non sapesse più per quale scopo stesse lottando. Il suo obbiettivo, naturalmente, era che tutto il mondo riconoscesse lei come la Contessa Lovel e sua figlia come Lady Anna. Ma non si poteva costringere tutto il mondo a farlo per vie legali; né la legge poteva costringere il marito a tornare a casa e vivere con lei, a condurre il genere di vita litigioso che in tal caso le sarebbe toccato. I suoi diritti pecuniari erano tutto quel che poteva pretendere – ma scoprì che era impossibile farsi dire da qualcuno in che cosa consistessero precisamente. Rimanere fuori da un istituto di carità sembrava tutto quel che fosse in grado di chiedere. Ma il vecchio sarto le rimase fedele, giurando che sarebbe infine diventata davvero la Contessa Lovel.

Poi, improvvisamente, lei venne a sapere che il Conte Lovel era di nuovo alla Grange, dove viveva con una straniera.

 

 

 

 

 

 

Lady Anna
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