Il Rettorato di Yoxham
La signorina Lovel, per quanto saggia e dotata d’ingegno, non osava prendere una decisione riguardo alla proposta che le era stata fatta senza consultare qualcuno. Per quanto fosse forte, si sentì d’un tratto troppo debole per parlare al nipote della recente conversazione con il grande avvocato senza chiedere il parere del fratello. Il religioso l’aveva accompagnata a Londra, furibondo con Sir William, perché non aveva mandato a chiamare lui invece della sorella, e fu a lui che lei raccontò tutto quel che era stato detto. Il fratello si trovava al suo club quando lei tornò in albergo, così la signorina Lovel ebbe alcune ore per pensare a quel che era accaduto. Non poteva costringersi in un attimo a credere che tutte le sue precedenti convinzioni fossero false e prive di fondamento.
Ma se l’opinione del vice-procuratore generale non la persuase, quando arrivò al fratello risultò ancor meno convincente. Lei era rimasta scossa, ma il signor Lovel sulle prime non fu per nulla scosso. Sir William era un Whig e un traditore. Sir William li stava scaricando. I Murray, che erano tutti Whig, l’avevano in loro potere. Lui, il signor Lovel, sarebbe andato subito dal signor Hardy e avrebbe detto al signor Hardy quel che pensava. Il caso andava immediatamente tolto ai signori Norton e Flick. Non lo sapevano forse tutti che quelle truffatrici erano delle truffatrici? Sir William doveva essere smascherato e disonorato – anche se a proposito del minacciato disonore, il signor Lovel era quasi dell’idea che il suo partito avrebbe apprezzato ancor di più il vice-procuratore generale per essersi rivelato un traditore, dimostrandosi pertanto un buon Whig. Diede in escandescenze e si agitò in giro per la stanza, usando un linguaggio che poco si addiceva al suo abito. Se il nipote sposava la ragazza, egli avrebbe disconosciuto il nipote per sempre. Se la truffa doveva avere la meglio, che il nipote fosse povero e onesto. Egli avrebbe dato la metà di tutto quel che possedeva per sostenere il titolo ed era certo che i suoi ragazzi l’avrebbero ringraziato per quel che aveva fatto. Ma non avrebbero mai dovuto chiamare quella donna cugina; e quanto a lui, che gli si riempisse la lingua di vesciche se mai avesse parlato di una di quelle donne come della Contessa Lovel. Pensava che l’intero caso andasse immediatamente tolto dalle mani di Norton e Flick, senza ulteriore preavviso, e che si dovesse ingaggiare un altro legale. Ma alla fine acconsentì a recarsi dal signor Norton il mattino seguente.
Il signor Norton era un vecchio severo e onesto, che si occupava di semplici cessioni di proprietà e sedeva tra le cassette dei suoi clienti latifondisti. Egli non poté far altro che mandare a chiamare il signor Flick, e il signor Flick arrivò. Quando il signor Lovel diede sfogo alla collera, il signor Flick apparve alquanto indignato. Il signor Flick sapeva come farsi valere e il signor Lovel nello studio del legale non era proprio lo stesso uomo che si era mostrato nel suo salottino all’albergo. Il signor Flick riteneva che non si potesse ottenere in Inghilterra un patrocinatore migliore del vice-procuratore generale e che nessuna opinione fosse più degna di fiducia della sua. Se il conte decideva di porre il caso in altre mani, naturalmente era libero di farlo, ma a sua signoria conveniva far molta attenzione per evitare di mettere a repentaglio interessi di estrema importanza mostrando la propria debolezza alle parti avverse. Il signor Flick parlava nell’interesse del cliente – così disse – e non nel proprio interesse. Il signor Flick era chiaramente del parere che si dovesse raggiungere un compromesso e, avendo fornito tale opinione, non poteva dire altro al momento. Il giorno dopo il giovane conte vide il signor Flick, e vide anche Sir William, e fu allora informato dalla zia della proposta che era stata fatta. L’ecclesiastico si ritirò a Yoxham e la signorina Lovel rimase a Londra con il nipote. Alla fine della settimana la signorina Lovel era stata persuasa che un qualche compromesso era necessario. Il tutto avveniva nel mese di maggio. La causa sarebbe stata discussa in tribunale a novembre, il lungo intervallo era stato concesso per la difficoltà prevista nel produrre le prove necessarie a respingere le rivendicazioni della figlia del defunto conte.
Per la metà di giugno tutti i Lovel si trovavano di nuovo a Londra – il pastore, la sorella, la moglie del pastore e il conte. «Non ho mai visto la ragazza in vita mia», disse il conte alla zia.
«Quanto a questo», disse la zia, «senza dubbio potresti incontrarla, se ritenessi saggio farlo».
«Magari la si potrebbe invitare al rettorato?» disse la signora Lovel.
«Il che equivarrebbe a una piena capitolazione», disse il rettore.
«Sir William ha detto che non ci danneggerebbe per nulla», disse zia Julia.
«Dovrete chiamarla Lady Anna», disse la signora Lovel.
«Non potrei farlo» disse il rettore. «Sarebbe molto meglio darle la metà».
«Ma perché dovrebbe accettare la metà se le appartiene tutto?» chiese il giovane lord. «E perché io dovrei pretendere la metà se nulla mi appartiene?». In quel periodo il giovane lord era piuttosto scoraggiato riguardo ai suoi presunti diritti, e di tanto intanto aveva reso infelici tutti i suoi cari pensando di rinunciare alle rivendicazioni. Si era reso conto che Sir William credeva che la figlia fosse la vera erede ed egli riteneva che Sir William dovesse sapere meglio degli altri come stavano le cose. Era depresso e giù di morale, ma nondimeno deciso a essere giusto in tutto quello che faceva.
«Mi sono informata», disse la zia Julia, «e credo proprio che le storie che abbiamo sentito sulla ragazza fossero false».
«Il sarto e suo figlio sono stati i loro più intimi amici», disse il signor Lovel.
«Perché non ne avevano altri», disse la signora Lovel.
Era stato deciso che per il 24 di giugno il lord dovesse comunicare se accettava o meno il consiglio di Sir William. Nel caso l’avesse accettato, Sir William avrebbe suggerito qual era il prossimo passo da farsi per prendere contatto con le due signore. In caso contrario Sir William avrebbe allora consigliato il modo migliore di portare avanti la causa. Quel giorno si trovavano nuovamente tutti a Yoxham e la necessaria comunicazione andava inviata per posta al signor Flick. Il giovanotto era stato da solo tutta la mattinata a pensare alla sua posizione e indubbiamente il desiderio del denaro aveva finito con l’esercitare una crescente influenza su di lui. E perché non avrebbe dovuto esser così? Esiste un aristocratico in Gran Bretagna in grado di dire che potrebbe perdere il patrimonio che possiede o la fortuna che erediterà senza provare un tormento che gli spezzerebbe quasi il cuore? Il giovane Lord Lovel sospirava per quella ricchezza la cui assenza avrebbe reso il titolo solo un terribile peso per lui e tuttavia era deciso a non prendere parte a nulla che fosse ingiusto. La ragazza, aveva saputo, era bella, dolce e gradevole, inoltre ora gli dicevano che le cattiverie riferite sul conto di lei erano state calunnie. Gli assicuravano che non era né grossolana, né volgare, né impudica. Due o tre uomini anziani, del suo stesso rango – uomini che erano stati amici del padre ed erano legati ai Lovel, e che godevano della fiducia di Sir William – gli dicevano che il modo giusto per uscire dalle difficoltà gli era stato suggerito. Non poteva esserci nulla, sostenevano, di più appropriato del matrimonio dei due cugini, data la loro situazione. Con una tale legittimazione del rango e della nascita di lei, tutti avrebbero accettato sua moglie. Non c’era a Londra una contessa o una duchessa che non sarebbe stata lieta di esserle amica. Le sue due zie avevano gradualmente ceduto e gli era chiaro che suo zio avrebbe ceduto – persino suo zio – se lui stesso avesse capitolato. Gli fu spiegato che se la ragazza veniva a Yoxham, con il privilegio di esser chiamata Lady Anna da coloro che vivevano al rettorato, l’avrebbe naturalmente fatto a condizione di dover accettare la mano del cugino. «Ma io potrei non piacerle», disse il giovane conte alla zia.
«Non piacerle!» disse la signora Lovel, alzando la mano fino alla fronte di lui per spingerne via i capelli. Era possibile che a una ragazza non piacesse un uomo del genere, e per di più conte?
«E se lei non piacesse a me, zia Lovel?».
«In tal caso io non le chiederei di diventare mia moglie». Egli pensò che ciò fosse ingiusto, ma tuttavia prima che la giornata fosse trascorsa aveva accettato.
«Non credo che riuscirò a chiamarla Lady Anna», disse il rettore. «Non credo che riuscirò a costringere la mia lingua a farlo».