QUARANTANOVE

I

Rachel fissava Luke come se fosse pazzo. «Una batteria piombo-acido? Dici sul serio?»

«Perché no?», disse Luke. «Dimenticati di quello che poteva essere davvero l’Arca, o anche se sia mai esistita. Non è importante, non adesso. Quello che conta è cosa Newton credeva che fosse. E Newton credeva che Mosè fosse stato un grande alchimista, uno che aveva accesso a ogni sorta di perduta conoscenza. Quindi naturalmente Mosè avrebbe conosciuto il segreto del fuoco sacro; naturalmente avrebbe cercato di imprigionarlo nella sua Arca. E Newton vedeva se stesso come un erede di Mosè, quindi naturalmente si sarà prefissato di riscoprire quei segreti, naturalmente avrà voluto creare la sua Arca. E poi Ashmole e Wren gli mostrarono i pannelli di legno e le dodici pietre per l’abito del sacerdote supremo e forse qualche istruzione grezza per costruire una batteria di Baghdad che Tradescant avrà trovato in uno dei suoi viaggi. Avrà pensato che fosse il suo destino».

«Ma l’elettricità è una conquista del diciannovesimo secolo, o no?», aggrottò la fronte Rachel. «So che Newton condusse degli esperimenti sull’elettricità, ma un dispositivo simile va molto oltre anche le sue capacità».

«Van Musschenbroek inventò la bottiglia di Leida una ventina d’anni dopo Newton», disse Luke. «Rivestì l’interno e l’esterno di una bottiglia con un foglio di metallo per creare una piastra positiva e una negativa, poi mise dentro una barra di metallo e generò una carica sfregando il vetro con la seta. Poteva far secco un uomo. Benjamin Franklin la consigliava per uccidere i tacchini».

«Uccidere tacchini è diverso da annientare eserciti».

«Van Musschenbroek non era Newton. Non fu solo la straordinaria intelligenza di Newton a farlo emergere. Fu anche un artigiano incredibilmente dotato. La gente viaggiava per miglia per poter ammirare i congegni da lui inventati durante l’infanzia; fu il suo telescopio riflettore, più delle sue teorie, a farlo entrare alla Royal Society. Tutti quegli sforzi per trovare la lunghezza del sacro cubito. Chi se ne frega se il Tempio balla di uno o due piedi, no? Ma anche l’Arca era misurata in cubiti. Un dispositivo elettrico doveva essere perfetto». Scoppiò in una secca risata. «Pensaci: la più grande mente nella storia della scienza che lavora a pieno regime su un singolo problema per vent’anni. Onestamente, scommetteresti contro il fatto che fosse arrivato a qualcosa di enormemente potente e inatteso?»

«Lo avrebbe raccontato a qualcuno», obiettò lei.

«No», insisté Luke. «Odiava condividere le sue idee. Ogni volta che lo faceva, inevitabilmente si trovava nel mezzo di qualche disputa. Con Hooke, con Flamsteed, con Leibniz. Inoltre, era a capo della Royal Mint, ricordi? E credeva di aver scoperto la pietra filosofale. Immagina il panico che avrebbe scatenato se si fosse venuto a sapere che l’uomo in quella posizione aveva scoperto come trasformare i metalli in oro. E quando fu vicino alla morte, riesaminò ogni cosa avesse mai scritto e fece un gran falò di tutto quello che non voleva gli sopravvivesse. Nessuno sa di cosa si trattasse, ma scommetto che c’entrava l’Arca, e l’elettricità. Doveva essere terrorizzato all’idea che qualcuno potesse usare quel materiale per rovinare la sua reputazione e accusarlo di stregoneria ed eresia».

«Ma gli sfuggirono due gruppi di carte», mormorò Rachel, finalmente convinta. «E Jay ha trovato il primo a Gerusalemme».

«E io ho trovato il secondo nella soffitta di tua zia». Esaminò l’Arca. Il suo coperchio sembrava in oro massiccio, ma non era abbastanza pesante per esserlo, quindi presumibilmente era legno rivestito con una foglia d’oro. Rachel lo aiutò a sollevarlo e appoggiarlo sul pavimento. Poi insieme guardarono dentro.

«Ma cos’è?», mormorò Rachel.

Ma Luke semplicemente annuì. Era come illustrato nello schema: delle celle disposte a nido d’ape separate da pannelli in legno e materassini in fibra di vetro. Una bobina di piombo era poggiata su un lato in ogni vano. Ne prese una. Non puro piombo, ma una lega formata in una griglia sottile e poi arricchita con una pasta metallica e rivestita con un panno prima di venire laminata. Guardò verso il basso. Un foglio di legno lacerato da filamenti d’oro giaceva qualche centimetro più giù, suggerendo la presenza di una seconda e forse anche di una terza fila di celle sotto la prima.

«Come funziona?», domandò Rachel.

Luke rimise la bobina al suo posto. Le appoggiò sopra il dito e il pollice e poi fece lo stesso con la sua vicina. «Ciascuna di queste coppie formano una singola cella elettrica», disse. «Combinate con altre celle abbiamo una batteria». Fu proprio per questo che le batterie vennero battezzate con il loro nome, poiché lavoravano in modo molto più efficace in parallelo, come i cannoni. «Venti celle in cima. Almeno altre venti sotto. Sono minimo quaranta, forse sessanta».

«Abbastanza per uccidere un tacchino?»

«Dio, sì. E vedi questi materassini? La fibra di vetro è abbastanza porosa da lasciar passare il liquido».

Un sorriso ironico. «Quindi Newton aveva anche la fibra di vetro adesso?».

Luke indicò le casse di quercia. «Ci sono moltissimi panni di lino là dentro. Sarebbero andati bene. Ma l’acido corrode il lino molto in fretta, quindi Jay deve aver usato le indicazioni di Newton per costruire una versione moderna di tutti i componenti. Nuove bobine, nuovi divisori, nuovi prodotti chimici. Ma il cablaggio è tutta roba di Newton».

«Il cablaggio?», aggrottò la fronte Rachel.

«Il legno non conduce l’elettricità. L’oro è il migliore conduttore che esista. Mettili insieme e ottieni un cablaggio». Diede un colpetto al lato dell’Arca. «Scommetto che c’è altro qui dentro».

«E cosa fa?»

«Non lo so. Dovrei tirar fuori tutto».

Rachel si toccò la fronte, come se stesse per venirle mal di testa. «Devi esserti fatto un’idea».

«So come accenderlo», disse. «Basta versare acido solforico e acqua distillata e poi accendere questo motorino elettrico». Gli diede un colpetto con il piede.

«L’Arca non genera la sua energia?»

«I condensatori e le batterie sono dispositivi tipicamente di stoccaggio, non generatori. Newton avrebbe usato un qualche tipo di macchinario che creasse frizione. Disse questa cosa da anziano: “Se vuoi tenerti le gambe, devi usare le gambe”. Quindi forse aveva inventato il tapis roulant o la cyclette, non sarebbe stato impossibile per lui». Aggrottò le sopracciglia, stava venendo mal di testa anche a lui. E ogni respiro richiedeva uno sforzo maggiore. «Oh, cazzo», disse, quando capì cosa stava succedendo. «Hanno tolto l’aria».

«Cosa vuoi dire?»

«Possono depressurizzare la stiva. Lo stanno facendo adesso».

«No!» urlò Rachel. «Cosa ci succederà?»

«Non lo so. Vertigini, credo. Mal di testa. Nausea. Perdita di sensi».

Gli diede un’occhiata feroce. «Morte?».

Si sentì devastato. Voleva rassicurarla. Ma meritava la verità. «Alla fine sì», disse.

«Dobbiamo reagire», disse lei tetra. «Cosa possiamo fare, Luke?».

Mise la mano sull’Arca. «Questa è un’arma, no?», disse. «Credo sia il momento di scoprire cosa può fare».

II

Avram guardò il pulsante del telecomando nella sua mano sinistra. Gli dava un inebriante senso di potere. Tutto ciò che doveva fare era sollevare la sicura e premere il pulsante rosso e il mondo sarebbe stato un posto diverso.

Ma non ancora…

Un altro giro delle mura, esortando Shlomo e Danel e i loro uomini a restare all’erta per ogni movimento all’esterno, per la possibilità di un contrattacco. Non che avessero bisogno di sentirselo dire. Erano tutti su di giri per l’adrenalina e la riuscita dell’azione. Solo Benyamin sembrava afflitto. «Non sei contento di essere venuto qui?», gli chiese Avram.

L’omone si strinse semplicemente nelle spalle.

Avram tornò al suo portatile, controllò le ultime notizie. Lo divertì sentire il ministro degli esteri farfugliare di aver già ottenuto il rilascio dei prigionieri. E lo eccitò vedere le riprese della Cupola dagli stessi elicotteri di cui poteva sentire il boato sopra la sua testa. Fece il giro dei notiziari, andando così in fretta da superare uno dei canali prima di realizzare che qualcosa non quadrava. Tornò indietro. Sì. Fino a quel momento, tutti i canali stavano riprendendo la Cupola per tutto il tempo. Ma questo aveva diviso in due la schermata. Una metà mostrava la Cupola, l’altra mostrava un mare e un cielo vuoti. Un banner rosso scorreva sotto le immagini.

Aereo coinvolto nell’attentato alla Cupola in arrivo a breve su Ben Gurion

Il cuore di Avram si prosciugò. Come diavolo lo avevano scoperto? Qualcuno aveva parlato? Ma poi il conduttore spiegò la presenza di un paragrafo aggiuntivo trovato con la funzione revisione nel file in cui si richiedeva il rilascio dei prigionieri. La collera per la sua stessa sciatteria lo assalì, ma non riusciva a capire come questo potesse cambiare qualcosa. Gli israeliani dovevano sapere che abbattere l’aereo avrebbe portato all’istante conseguenze catastrofiche. Ma lo stesso tenne d’occhio la schermata da quel momento in poi.

III

Non c’era tempo per le finezze, per capire in che ordine fare le cose. Luke e Rachel aprivano strappando le casse di bottiglie di acido solforico e di acqua distillata, le stappavano e le versavano più o meno in egual misura nelle celle dell’Arca. Il liquido svaniva nello stesso tempo che impiegava a sgorgare, infiltrandosi nelle celle sottostanti. Il pavimento si riempì in fretta dei vuoti, e ancora non l’avevano riempita.

«Cosa succederà all’aereo?», domandò Rachel. «Non sono costruiti apposta per resistere ai fulmini?»

«Solo perché lo scafo esterno è isolato dal guscio interno», disse Luke. «Così un fulmine non può entrare. Ma significa anche che una carica elettrica difficilmente può uscire. Potrebbe consumare tutto».

«Inclusi noi?».

Fece una smorfia. «È la nostra unica possibilità». L’aria era sottile e rarefatta. I loro movimenti si facevano sempre più rallentati dalla mancanza di ossigeno, i loro occhi lacrimavano dal mal di testa. Ma continuarono a svuotare bottiglie finché l’Arca fu piena. Riposero il coperchio al suo posto, poi Luke si chinò sul motorino elettrico. «Pronta?», chiese.

«Pronta», disse Rachel.

Girò l’interruttore e fece un passo indietro, temendo qualcosa di straordinario. Ma non accadde nulla. Rachel lo guardò. «Ci vorrà un po’», disse.

L’Arca iniziò a buttar fuori fumo e vapore, riempiendo la stiva di esalazioni nocive. Poi sembrò quasi crepitare. L’aria, nonostante fosse tanto rarefatta, divenne sempre più carica. La pelle di Luke iniziò a formicolare. Il formicolio si trasformò in prurito, la pelle infestata da sciami di insetti invisibili che ora scavavano dentro di lui, spremendo i suoi organi, pompando il cuore, facendo ribollire il suo sangue come in un folle esperimento.

«Cosa sta facendo?», domandò Rachel, strofinandosi gli avambracci.

Guardò in basso al pavimento dove fili di una moquette dozzinale si alzavano come cavi. Dovevano uscire da lì. Dovevano isolarsi. Stava per dirlo a Rachel quando l’Arca rilasciò una violenta scintilla che si scaricò sul suo braccio fino al petto come un taser divino. Cadde a terra. Rachel cercò di prenderlo ma trascinò giù anche lei. Gli arti non gli funzionavano. Non riusciva a respirare. Qualcosa gli ostruiva la gola. Iniziò ad annaspare, lottando per riprendere fiato. Rachel lo girò sulla schiena e gli mise un dito in bocca, tirandogli fuori la lingua. Lui rotolò sul fianco. «I pallet», ansimò. «Legno».

Lei annuì e lo aiutò a salire sul loro santuario isolato. Si voltarono a guardare l’Arca, fiammeggiante di scintille incontrollabili. Un arco di elettricità univa i cherubini d’oro gemelli inginocchiati sul suo coperchio, abbagliante e sfrigolante come il filamento di una lampadina impossibile, tanto da essere costretti a chiudere gli occhi e voltarsi. Poi una singola brillante vampa di luce scoppiò in avanti, luminosa come il sole, così luminosa che Luke poteva vederla anche attraverso le palpebre strettamente chiuse e il rumore che ne uscì non era simile a niente che avesse mai sentito prima, una sorta di esplosione crepitante che fece tremare l’intero aereo.

Entrambi i motori borbottarono all’istante e poi si spensero. L’aereo cominciò a precipitare. Sobbalzarono senza peso ancora e ancora e ancora. Tutti strillarono, nella stiva e nella cabina principale, un giro di conferme del terrore nella certezza di una imminente morte violenta. Ma il pilota continuava a lottare e riuscì a riguadagnare un minimo di controllo. Un motore ferito gemette e si oppose eroicamente alla gravità e alla spinta acquisita. Le ali e la fusoliera tremarono come lottando contro un orribile carico. Gli armadietti si spalancarono, vomitando il loro contenuto. Le casse di quercia sobbalzarono e le bottiglie vuote danzarono impazzite. Poi la gravità ritornò a vendicarsi, schiacciando forte Luke e Rachel contro i pallet. La loro traiettoria si raddrizzò e ripresero quota. Erano precipitati così tanto che l’aria adesso era più spessa e iniziava a invertire il suo flusso, rendendo più facile la respirazione, limando i margini più affilati dei loro mal di testa.

Fu Rachel a sentire il rumore. «Cos’è?», domandò.

«Cos’è cosa?»

«Questo lamento», disse. «Non lo senti?».

Luke guardò il motorino elettrico. «Oh Cristo», disse, mentre l’Arca iniziava a brillare di nuovo. «Si sta ricaricando».