DICIASSETTE

I

C’era silenzio nella galleria del seminterrato, tranne che per il ticchettio degli orologi alle pareti. Olivia incrociò le braccia enfaticamente mentre gli altri si voltavano verso di lei. «No», disse.

«No, cosa?», chiese Pelham. «Non sai neanche quello che stiamo per dire».

«Sì che lo so. State per chiedermi di scavare il mio pavimento. E la risposta è no. Questo è un museo, non un campo petrolifero».

«Dobbiamo», disse Pelham. «Non capisci che scoperta potrebbe essere? Potrebbe esserci qualsiasi cosa qui sotto».

«Esatto. Ecco perché non rischieremo di danneggiarla».

«Ma non…».

«No. Mi spiace. Finiamola qui».

«Allora cosa facciamo?», chiese Rachel. «Non possiamo fare finta che non ci sia niente».

«E non lo faremo. Chiamerò Albie come prima cosa domani mattina. Può verificare i tuoi rilievi, pensare a un piano. E appena arriverà il momento giusto, potrà scavare con la cura necessaria a un ritrovamento del genere».

Luke lanciò un’occhiata a Pelham. Pelham annuì. «Ho paura ci sia qualcosa di questa storia che non ti abbiamo ancora raccontato», disse a Olivia.

Lei strinse gli occhi. «Vai avanti».

«Non siamo gli unici che stanno cercando questa cosa», disse Luke. Le raccontò la sua giornata: il suo cliente anonimo, la zia di Rachel, Crane Court e la fuga per un pelo dall’appartamento di Pelham.

Olivia ascoltava in silenzio, impietrita. «Come avete potuto non parlarmene?», chiese, quando lui ebbe finito. «Non vi rendete conto in che guaio siete? E in che guaio avete trascinato anche me?»

«Nessuno di noi è esattamente qui per sua scelta», disse Pelham.

«Avreste dovuto dirmelo».

«È vero», ammise Luke. «Hai assolutamente ragione. Mi dispiace. Dispiace a tutti noi. Ma stiamo cercando di restare in sella a un cavallo imbizzarrito. Possiamo solo continuare ad aggrapparci».

«Non fa nessuna differenza», disse Olivia. «Non potete comunque scavare nel mio pavimento. Non mi interessa chi vi insegue».

Luke si chinò, fece aderire il palmo della sua mano al pavimento, stuzzicato dal misterioso oro a pochi piedi sotto di lui. Eppure sapeva in cuor suo che Olivia aveva ragione. Anche se avessero potuto arrivarci, quello era un sito troppo importante per correre rischi. Fece un sorriso ironico verso Rachel. «Tua zia mi ha chiesto una cosa prima… Mi ha chiesto perché un uomo come Newton avrebbe accettato un lavoro alla Royal Mint. Le ho dato le solite motivazioni: posizione, guadagno, Londra. Ma la verità è che nessuno lo sa davvero. E se questo fosse il motivo? Voglio dire, Newton diventò quasi pazzo con gli esperimenti alchemici del 1693. E se non fosse stata pura ricerca? Se semplicemente avesse avuto bisogno di una quantità maggiore di oro per portare a termine qualunque cosa Ashmole gli avesse lasciato? Era un alchimista e quindi avrà prima provato con l’alchimia. Ma quando non ha funzionato, a chi si poteva rivolgere?»

«Alla Royal Mint», mormorò Olivia.

«La posizione di guardiano era sempre stata un lavoro come un altro», disse Luke. «Ma non con Newton. Progettò nuove presse per il conio, inventò nuove leghe. Curò un intero riconio del regno. E fu il più grande matematico della storia britannica, quindi immagino che avrebbe potuto far valere la sua superiorità sui revisori. Avrebbe potuto prendere tutto l’oro di cui aveva bisogno senza che nessuno se ne accorgesse mai».

Pelham fece un sorrisetto guardando il pavimento. «Sir Isaac che ruba i lingotti», disse. «Ma che figata!».

«Tutte ragioni in più per trattare la cosa con rispetto», disse Olivia.

Rachel tornò a consultare le carte di Newton. Adesso si era incupita. «Credo che forse ci stiamo perdendo qualcosa», disse, colpendo il testo. «Voglio dire, siamo tutti d’accordo più o meno su cosa voglia dire, giusto? Ashmole lasciò qualcosa a Newton con l’accordo che la completasse, la portasse qui e la nascondesse sotto il pavimento. Ma questo era un laboratorio in attività a quel tempo. Il più importante laboratorio di tutta l’Inghilterra. E poi un’aula di anatomia. Giusto?»

«Sì», disse Olivia. «Perché?»

«Quindi avevi perfettamente ragione prima quando hai detto che Ashmole non poteva aspettarsi che Newton venisse qui con un piccone e iniziasse a scavare. Il che significa che ci doveva essere una qualche altra strada per scendere qui sotto. Una strada che sia lui sia Newton conoscevano».

«Non c’è», disse Olivia. «Abbiamo ristrutturato questo posto solo Dio sa quante volte. Se ci fosse stato un qualche passaggio segreto o simili, lo avremmo trovato tanto tempo fa, credimi. E se anche non lo avessimo notato in trecento anni, credi davvero che potremmo trovarlo noi in una notte?»

«Non ti viene in mente niente?», domandò Luke. «Nessuna anomalia di qualche tipo?».

Scosse la testa. «Abbiamo trovato una vecchia fossa biologica quando ci siamo allargati sul retro. Ma era profonda non più di un metro, e comunque l’abbiamo coperta con il cemento. E poi c’era il vecchio pozzo, ovviamente. Ma tutto qui».

«Il vecchio pozzo?», chiese seccamente Rachel. «E non potrebbe essere quello il sous

«Oh mio Dio», mormorò Olivia, stringendo le mani vicino alla bocca. «Sì, penso proprio di sì».

II

C’era poco che Croke potesse fare per essere d’aiuto nelle ricerche a Crane Court, così si sistemò in un attico e le guardò da un enorme televisore al plasma. Speculazioni giornalistiche intervallate da filmati a rotazione, uno dei quali includeva anche una breve apparizione di lui e Morgenstern mentre arrivavano. Ma a brevi intervalli tagliavano su riprese aeree, e c’era qualcosa di perversamente gratificante nel poter sentire quegli stessi elicotteri sferragliare sopra la propria testa.

Il suo cellulare squillò. Controllò il numero. Walters. «Sei già a Oxford?», gli chiese Croke.

«Sulla strada», disse Walters. «Ma potremmo aver trovato qualcosa. Ho pensato volesse essere informato subito».

«Vai avanti».

«Redfern e gli altri si sono fermati in un posto che si chiama Oddington. Kieran ha fatto delle ricerche e la casa più vicina rispetto a dove hanno parcheggiato appartiene a una donna di nome Olivia Campbell. Una Olivia Campbell dirige una roba chiamata Museo della storia della scienza a Oxford, a circa un quarto d’ora a piedi da dove hanno lasciato l’auto. Il fatto è questo: qualche anno fa, hanno allestito una storia della chimica nel museo. C’è il programma sul sito internet. E indovini chi ha collaborato a organizzarla? Niente meno che il nostro amico Pelham Redfern».

«Quindi è là che sono andati», disse Croke.

«Così sembrerebbe. Lo scopriremo presto».

«E voi tre potete occuparvene da soli, vero? Vorrei tenere questa cosa fra noi, se possibile».

«Ci lasci provare. La chiamerò se avremo bisogno d’aiuto».

«Bene». Croke chiuse la chiamata, standosene lì corrucciato. Un museo nel cuore di Oxford. Che strano posto per nascondersi. Ci stava ancora rimuginando quando entrò Morgenstern.

«Appena completata la seconda ricognizione», disse a Croke. «Niente. E abbiamo controllato due volte quelle anomalie fra i piani, come ha consigliato lei. Ma era tutta acqua o liquami o altri impianti».

«Sta dicendo che non è qui?».

Morgenstern alzò le spalle. «Gli scanner della polizia sono progettati per trovare ostacoli recenti, resti organici, esplosivi, quel tipo di cazzate. Per qualcosa del genere, forse dovremmo usare un’attrezzatura da geologi, forse anche da archeologi».

Fu la parola archeologi che lo fece scattare, per qualche motivo. Croke alzò una mano chiedendo silenzio, per prendersi il tempo per pensare. Il Museo di storia della scienza. E se Luke e gli altri non fossero andati a nascondersi? E se avessero saputo qualcosa che lui non sapeva? «Rimanga un attimo con me», disse. «Voglio fare una chiamata».

Provò prima con Gerusalemme, ma Avram non rispose, così chiamò suo nipote a Londra.

«Sì?», chiese Kohen.

«Il Museo di storia della scienza di Oxford», disse Croke.

Un attimo di silenzio. «Ah», disse Kohen. «Sì».

La rabbia discese su Croke come lo spirito santo. «Dimmi».

«Il Museo di storia della scienza una volta era l’Ashmolean. L’Ashmolean una volta era considerato una Salomon’s House. Infatti, se l’E.A. nel messaggio di Newton si riferisce a Elias Ashmole, come sembra plausibile da questa ipotesi, allora forse è più probabile che sia…».

Croke appoggiò il cellulare sul fianco, per evitare di gridare. Quando si fu calmato un poco, lo riportò all’orecchio. «Mi stai dicendo che abbiamo chiuso mezza Londra per cercare nel cazzo di posto sbagliato?», chiese. Diede a Kohen la possibilità di replicare, ma ottenne solo silenzio, perciò chiuse la chiamata prima di dire qualcosa di irrimediabile.

«Stiamo cercando nel posto sbagliato?», domandò Morgenstern.

«Così pare».

«E questo tuo museo di Oxford? È quello il posto giusto?»

«Così sembra».

Morgenstern annuì mentre processava l’informazione. Le sue labbra si serrarono e un po’ di rosso gli colorò il collo. Poteva cogliere l’occasione per mettere distanza fra sé e quel fallimento, Croke lo sapeva, o poteva ricordare a se stesso che quella era la priorità numero uno del suo comandante in capo. Fortunatamente, scelse la seconda opzione. «Ok», disse, «Allora faremo meglio ad andare là, giusto?».

III

Il pozzo originariamente si trovava proprio sotto il muro sul retro dell’Ashmolean, ma il recente ampliamento l’aveva portato all’interno. Olivia li condusse là. La sua parte esterna arrivava alle loro ginocchia ed era forse un metro di diametro; era stato munito di un argano dipinto di nero e messo lì per sembrare funzionante, anche se la bocca del pozzo era stata coperta con una lastra di vetro di sicurezza, imbullonata al muretto.

«Torno subito», disse Olivia. Sparì su per le scale e tornò trasportando una malconcia cassetta degli attrezzi blu. Luke si trovò una chiave inglese e si mise al lavoro. I bulloni non vennero via facilmente, nemmeno dopo averli lubrificati. Ma alla fine dovettero cedere. Insieme sollevarono la lastra di vetro, la appoggiarono contro il muro. Un odore nauseante si sollevò dall’oscurità. Luke prese una torcia dalla cassetta e puntò la luce verso il basso. L’acqua scintillò scura in profondità, increspata dai frammenti di muratura che avevano scrostato rimuovendo la lastra. Illuminò ogni sezione del muro circolare, ma tutto sembrava perfettamente normale.

«E adesso?», domandò Rachel.

«Uno di noi scende, ovviamente», disse Pelham. Diede a Luke un’eloquente occhiata. «Non riesco a immaginare chi».

«Ehi», ghignò Luke. «Io pagherei per il privilegio». Un telescopio riflettore in ottone era esposto ai piedi della scala principale, cintato da un cordone per scoraggiare i bambini dall’usarlo come giostra. La corda era rosso cardinale, sembrava abbastanza resistente. Luke la slegò e la portò al pozzo. Fece un nodo intorno all’argano, lo strattonò per assicurarsi che reggesse.

Rachel fece una smorfia mentre lo guardava. «Sei sicuro di farcela?»

«Andrà tutto bene», disse, gettando il resto della corda giù nel pozzo. Si srotolò durante la discesa, finché l’estremità si tuffò nell’acqua scura. La torcia aveva un cinturino da polso, ma Luke aveva bisogno di avere le mani libere. C’era una palla di stringhe nella cassetta degli attrezzi, ne tagliò una della lunghezza giusta, la fece passare attraverso il cinturino e se la annodò attorno al collo come un medaglione fuori scala. Si sedette sul bordo con le gambe oltre il muretto, afferrò la corda con entrambe le mani, diede un altro strattone. I fermi dell’argano cigolarono un pochino, come per ricordargli di essere fissati a qualcosa di puramente decorativo. Guardò giù nel pozzo, nero e minaccioso, si girò verso Pelham. «Se quell’affare inizia a cedere, prendi tu la corda, vero?»

«Terrò certamente la cosa in piena considerazione», disse Pelham.

«Non chiedo di meglio, amico».

Luke strinse la presa e cominciò la discesa, oscillando nel pozzo come il batacchio di una campana, colpendo il muro più forte di quanto si aspettasse, con la muratura fredda che gli graffiava la spalla e il fianco. La corda cigolò e dondolò, ma sia lei sia l’argano tennero. Descrisse dei cerchi con la gamba destra, facendosi attorcigliare la corda intorno prima di bloccarla fra i piedi, riuscendo così a spostare tutto il peso dalle mani. Iniziò a calarsi. La torcia gli sbatteva sul petto e sui gomiti, illuminando irregolarmente le pareti. La pietra in cima era stata da poco pulita e restaurata, ma qui era annerita da decenni o forse centinaia di anni di abbandono. Guardò in alto e fu colto alla sprovvista da quanto già si fosse allontanato, l’imboccatura si chiudeva sopra di lui come le fauci di un qualche animale preistorico.

«Stai bene?», chiese Rachel, la sua voce stranamente inspessita e resa più profonda dall’eco.

«Vedi qualcosa?», chiese Pelham.

«Non ancora». La corda ondeggiava meno adesso, facendogli toccare le pareti solo ogni tanto, staccando occasionalmente pezzi di intonaco che cadevano in morbidi sussurri nell’acqua sotto di lui. Portò di nuovo tutto il peso sui piedi, la posizione migliore per ispezionare i muri. Sotto il muschio e l’umidità, le pietre erano grigio granito, grosse come pagnotte rustiche, tagliate curve per formare un anello. Ma raggiunse l’acqua senza aver scoperto una traccia di manomissione o qualche anomalia.

«Torna su», lo chiamò Rachel. «Dobbiamo ripensare la cosa».

«Arrivo». Iniziò a tirarsi verso l’alto. Salire rapidamente non fu molto furbo. La corda cigolò e ondeggiò; la torcia gli sbatté contro il petto, gettando inquietanti ombre, dipingendo facce sul muschio e sui licheni. Era la sua mente che gli giocava un brutto scherzo, o davvero qui il muro aveva un leggero rigonfiamento? Se era vero, era abbastanza lieve da non averlo potuto notare durante la discesa. Ci mise sopra i palmi. La pietra era umida, fredda e sgradevole. Ma non c’era dubbio: sporgeva. Ci doveva essere terra e altro materiale dall’altra parte, per tenere quelle pietre strette insieme. Ma perché in quel punto sporgesse così, doveva sicuramente esserci una sorta di fessura o una cavità dietro.

«Cosa c’è?», chiamò Olivia.

«Non lo so», disse Luke. «Probabilmente niente». Appoggiò la schiena contro il muro opposto, mise le suole sul rigonfiamento, cercò di spingere. Niente. Provò finché i polpacci e le cosce non gli fecero male. Ancora niente. Aveva le mani stanche. Non avrebbe dovuto sprecare energia così, dovendo ancora risalire. Ma poi ricordò il rumore del metal detector, lo sguardo stupito sul viso di Rachel. Non era una qualche folle fantasia. C’era davvero qualcosa là sotto.

Mise i piedi contro la sporgenza per una terza volta e spinse con tutta la forza che aveva. Fu ricompensato dal più minuscolo frammento di rumore mentre la pietra cedeva di un nulla. Si concesse qualche istante di riposo prima di riprovarci. Cedette di più questa volta, forse tre centimetri buoni. Un altro sforzo e si arrese completamente, cadendo all’indietro. Entrambi i suoi piedi svanirono nello spazio che si era creato così da oscillare selvaggiamente per la tromba del pozzo, lottando per restare aggrappato alla corda. Si riprese, portò fuori i piedi, puntò la torcia all’interno, illuminando uno spazio aperto ricavato da un basamento roccioso, come il rifugio di qualche contrabbandiere.

«Be’?», chiese Rachel. «Cos’è?»

«Difficile da dire», disse Luke. «Forse un passaggio». L’apertura era troppo piccola per lui, ma aveva già allentato le pietre vicine e presto riuscì a spostarle. Nessun dubbio adesso. Un passaggio di qualche tipo. Posizionò la torcia sul pavimento e si lanciò all’interno, attutendo la caduta con le ginocchia e i gomiti. Si mise in piedi, guardandosi intorno, si ancorò all’interno per sporgersi. «È un passaggio», gridò. «Gli do un’occhiata e torno subito su».

«Stai attento», gli disse Rachel.

Luke rise un poco, scrutando quell’antica oscurità. «Contaci», disse.