QUATTRO
I
Rachel Parkes teneva in equilibrio il vassoio del tè appoggiandolo sul ginocchio alzato, mentre girava la maniglia dell’ufficio del professor Armstrong, spinse la porta e si affrettò all’interno, appoggiando il vassoio sul bordo della scrivania di quercia e liberando finalmente le mani per potersi grattare la punta del naso, che le prudeva terribilmente da quando aveva iniziato a salire le scale.
«Non là», le fece segno il professore, togliendosi gli occhiali da lettura mentre alzava lo sguardo dalle sue carte. «Sul tavolino da caffè».
«Mi scusi».
«Voglio dire, lo sai vero perché si chiama tavolino da caffè? Non è solo un suggerimento, sai».
«Avevo prurito», gli disse. «Al naso».
«Affascinante», commentò. «C’è qualche altra sensazione fisica di cui vuoi mettermi al corrente?»
«Non al momento, professore», rispose, spostando il vassoio dove richiesto. «Ma la terrò aggiornata». Lui scosse la testa avvicinandosi al tavolino e si riempì una tazza. «Questo lo chiami tè?», chiese.
«Così diceva la scatola».
«Quando tornerà Karen sarò contento».
«Anch’io».
Gli occhi di lui si strinsero, si morse un labbro. «Come va il rapporto di bilancio?», domandò. «Confido nel fatto che sia pronto entro questa sera, come avevi promesso».
«Non ho mai promesso di farcela per stasera», disse. «Ho detto che l’avrebbe avuto domani mattina».
«E che differenza c’è?»
«Esatto, se non c’è differenza non le spiacerà aspettare».
«Vorrei dargli un’occhiata questa notte».
Lei scosse la testa. «Mi spiace. Non posso. Ho un appuntamento».
«Un appuntamento? Oggi sarà pure domenica, signorina Parkes, ma è pur sempre un giorno di lavoro».
«Lei lo sapeva già. L’avevo avvertita settimana scorsa».
«Ricordamelo».
Dietro la schiena, Rachel strinse il pugno. Sapeva benissimo dove doveva andare, e perché. Voleva solo farglielo ripetere per qualche sua ragione perversa, forse voleva fare l’ennesima predica sulla follia dell’Afghanistan, cimitero di imperi. Che fosse dannata se gli avesse permesso di usare suo fratello in quel modo. Dannata. «È una cosa personale», disse. «E avrà il rapporto per prima cosa domani mattina, come ho detto».
«Arriverò molto presto».
«Sarò qui ad aspettarla», annuì un po’ troppo bruscamente, e cercò di smorzare con un vago sorriso. Ma non la stava più nemmeno guardando. Le fece cenno di andarsene con un condiscendente movimento della mano destra, e iniziò a mescolare poco zucchero al suo tè.
II
Max Walters – quello che si faceva chiamare Steven – uscì di corsa dal bosco aspettandosi di vedere Luke, ma di lui non c’era traccia, soltanto una radura delimitata da campi e un compound militare abbandonato. Bestemmiò col fiato rimasto. La frenesia della caccia non l’aveva fatto pensare alla vecchia, ma ora gli tornò in mente. Non provava rimorso. Se l’era cercata mandando quella email. Ma sicuramente era dispiaciuto per la valanga di merda che stava per arrivare.
Cercò di prevedere come sarebbe andata. Luke avrebbe chiamato la polizia, questo era certo, la polizia avrebbe perquisito la casa per verificare la sua storia. La finestra rotta, le tegole e la grondaia distrutte avrebbero confermato la sua versione. E non avevano pensato a indossare i guanti, quindi avevano lasciato impronte dappertutto. Le sue erano nell’archivio della polizia per qualche sciocchezza di gioventù, e sicuramente anche Kieran e Pete avevano precedenti. Era un bel cazzo di disastro. Poi gli venne in mente che anche Luke era schedato. Era uno dei motivi per cui lo avevano scelto, in previsione di un’eventualità del genere. Non conosceva il vero nome di Walters, e il suo unico modo per contattarlo era un indirizzo email facile da far sparire. Cominciò a intravedere una via d’uscita.
«Vedi qualcosa?», gridò in direzione di Kieran, che cercava Luke fra felci e ortiche.
Kieran fece segno di no con la testa. «Deve essere qui da qualche parte. Se fosse andato per i campi lo avremmo visto sicuramente».
«E se riesce a scapparci? Se stesse già chiamando la polizia?»
«Come? Il cellulare l’ha lasciato nella giacca in quella soffitta».
«E se incontra qualcuno? Se trova una casa o un telefono pubblico?».
Kieran annuì preoccupato. «Dobbiamo levarci di torno».
Si voltarono, riprendendo la strada al contrario.
«L’email che ha mandato alla vecchia stronza», chiese Walters. «C’è un modo per sapere se questa Rachel Parkes l’ha già vista?»
«No, a meno che non risponda. Quando ho guardato io non l’aveva ancora fatto».
«Ma è possibile, giusto? Un’email come quella, una dolce vecchietta che le chiede aiuto».
«Credo anch’io».
«Allora presupponiamo che non l’abbia ancora ricevuta. Se potessimo cancellarla in qualche modo, non saprebbe nemmeno che sia mai stata inviata, giusto?»
«Più facile a dirsi che a farsi. Non possiamo farlo da remoto, a meno che lei non sia stata incredibilmente stupida a scegliersi la password “123456”, “RachelP” o stronzate del genere. Possiamo provare con un po’ di queste, ma dovremmo essere davvero fortunati. E il provider ci impedirà l’accesso se sbagliamo troppe volte. Così saprà senza dubbio che c’è qualcosa sotto».
«Allora dammi un’idea migliore».
«Le mandiamo un’altra email spacciandoci per la vecchia. Diciamo che ci hanno hackerato l’account e che l’ultima email era un virus, cancellalo senza aprirlo. O potremmo anche allegargli davvero un Trojan».
«E che succede se questa Parkes scopre che la vecchia era già crepata quando questa ipotetica email le è stata mandata?»
«Non c’è modo di fare questa cosa bene e in fretta», disse Keiran. «Questa soluzione è il minore dei mali».
«Cazzo!». Walters stava per dare un pugno a un albero, ma la cosa non avrebbe aiutato. «Magari abita qui vicino. Magari riusciamo a entrare in casa sua».
«Questo sarebbe facile», annuì Kieran. «Ormai sono tutti continuamente loggati. Nove volte su dieci, accendi il primo dispositivo che trovi e sei dentro. E comunque posso entrare facilmente, mettere su qualcosa di non tracciabile».
«Hai con te il tuo kit?»
«In macchina. Non esco di casa senza».
«Ottimo», disse Walters. «Diamoci da fare allora. Abbiamo parecchio lavoro».