DICIANNOVE

I

Il passaggio si era dimostrato ampio, ma non abbastanza alto per Luke. Dovette accucciarsi per tutto il percorso, tenendo la torcia davanti a sé sia per far luce sia per fare breccia fra i veli di ragnatele che gli si impigliavano sul viso e fra i capelli. Il pavimento era così coperto di polvere che le sue scarpe lasciavano impronte distinte come quelle lasciate sulla luna. Dopo quindici passi, più o meno, il corridoio volgeva a sinistra e si ritrovò in cima a una scalinata che conduceva in una camera quadrata col soffitto a volta. Ma non c’era traccia del ferro rilevato, ancor meno dell’oro.

Entrambi i lati della camera erano scavati nella roccia, ma il muro di fronte era di mattoni. La malta si era sbriciolata nei secoli, rendendo stranamente appagante staccarla. Fece dondolare un mattone come un dente da latte, finché non venne via. Lo posò a terra e illuminò il buco che aveva lasciato con la sua torcia, per trovare un’altra parete proprio dietro alla prima.

Un rumore alle sue spalle lo fece sobbalzare. Era così concentrato sul suo lavoro da dimenticarsi degli altri. «Ehi», disse Rachel, scendendo nella camera. «Cos’hai trovato?».

Si fece da parte, perché potesse vederlo da sola. «C’è un altro muro qui dietro», disse.

«Un vicolo cieco?».

Strinse le spalle. «Perché murare un vicolo cieco?».

Rachel indicò il corridoio. «Ho promesso che avrei fatto loro sapere che stavi bene. Torno subito».

Spostò di nuovo l’attenzione sul muro, tolse in fretta un secondo e poi un terzo mattone. Ancora nessuna traccia di Rachel. Stava cominciando a chiedersi cosa la trattenesse quando alla fine riapparve trasportando una coppia di borse di plastica bianca. Le appoggiò a terra, da una tirò fuori una macchina fotografica digitale, scattò una foto di lui davanti a quel muro. Il flash in quella piccola camera gli fece chiudere gli occhi. «Per i posteri», disse lei, mentre il caricabatterie cominciava a ronzare come una zanzara. «Olivia insiste perché documentiamo tutto».

«Bella pensata», disse Luke. Esaminò le borse in cerca di altre chicche. Un martello da carpentiere e uno scalpello, qualche barretta di cioccolato dal negozio di souvenir e due grosse bottiglie d’acqua, che gli ricordarono quanto secca fosse la sua gola in quel momento. Si sciacquò la bocca e sputò, poi bevve con così tanta foga da bagnarsi la camicia. Afferrò il martello e tornò al lavoro, rivelando presto una specie di cavità.

Rachel teneva alta la sua lampada e osservava. «Quello è legno?», domandò.

«Così sembra», disse Luke.

«Una porta?»

«Scopriamolo». Tolse un altro mattone, emettendo uno scricchiolio; poi tutto andò in frantumi. Rachel afferrò il suo braccio e lo trascinò indietro mentre l’intero muro collassava fragorosamente in un cumulo, alzando nuvole di polvere soffocante. Luke si rimise in piedi, tossendo violentemente, gli occhi rossi e lacrimanti. Prese una delle bottiglie d’acqua e seguì Rachel su per le scale e lungo il passaggio alla ricerca d’aria. Tolse il tappo dalla bottiglia e la passò a Rachel, la riprese quando lei ebbe finito, sciacquandosi la bocca riconoscente. La sua torcia si era rotta nella caduta, Rachel così alzò la sua. La polvere aveva imbiancato i loro capelli e i loro volti prematuramente. «Il futuro, eh?», sorrise lui.

«Nonna e nonno», confermò lei.

Era una battuta scontata, eppure, in qualche modo, colpì Luke con una forza inaspettata, come una profezia. Per un istante, si immaginò insieme a lei a cinquant’anni da allora, appagato, felice, ancora innamorato. Il disastro con Maria gli aveva tolto ogni fantasia romantica, da quando lei aveva fatto la sua scelta. All’improvviso si sentì di nuovo arrabbiato, furioso. Distolse in fretta lo sguardo prima che Rachel potesse leggere la sua espressione.

«Qualcosa non va?», domandò lei.

«No», disse, schiarendosi la gola per essere credibile. «È solo tutta questa maledetta polvere».

Aspettarono ancora un minuto prima di tornare indietro. L’aria era ancora spessa, ma la loro curiosità non poteva attendere oltre. C’era davvero una porta dietro alla falsa parete. Un paio, anzi, con grossi battenti ad anello come maniglie e cardini arrugginiti che indicavano un’apertura verso l’esterno. Rachel scattava fotografie mentre Luke liberava lo spazio davanti alla porta di sinistra. I suoi cardini si erano allentati nei secoli, così che il fondo della porta raschiò contro la pietra, ma riuscì ad aprirla abbastanza perché Rachel potesse strizzarcisi dentro e lui potesse seguirla. Teneva la lampada con la mano ancora all’esterno, cosicché entrambi furono nell’oscurità per un istante, prima di portarla dentro. Poi la sollevò, per scoprire quello che avevano trovato.

«Mio Dio», disse Rachel. «Non ci credo».

II

«Zio», disse Uri stordito. «Cosa stai facendo? Che succede?»

«Ti ho accolto in casa mia», disse Avram. «Ti ho dato riparo. Ti ho trattato come un figlio. Non ti ho fatto mancare niente. Ed è così che mi ripaghi? Andando alla polizia? Raccontandogli i miei piani?»

«No, zio. No. Non l’avrei mai…».

«Sì».

«No! Lo giuro».

«Credevi davvero di poterti fidare di loro?», chiese Avram. «Be’, adesso sai che non avresti dovuto. Si sono vantati con gli americani di essersi infiltrati nel nostro gruppo. Si sono vantati di avere un informatore dentro la casa del capobanda. Sfortunatamente per te, abbiamo americani anche dalla nostra parte. Sfortunatamente per te, sappiamo del tuo tradimento da mesi».

«No», disse Uri disperatamente. «Hai frainteso tutto. Tu mi devi credere».

«Non abbiamo frainteso proprio niente, Uri. Hanno fatto anche il tuo nome».

«Stanno cercando di metterci contro. Tutto qui. Sono bugie, disinformazione. Sai come funziona il gioco».

«Non sono bugie, Uri. Sappiamo entrambi che non sono bugie. Tua nonna è mia sorella, sei pur sempre sangue del mio sangue. Confessa tutto, dimmi chi sono loro, cosa sanno e come comunicavi con loro, e io ti do la mia parola che cercherò un modo per lasciarti in vita».

«Questa è una follia, zio. Non ho parlato con nessuno. Giuro, non l’ho fatto». Uri iniziò a piagnucolare. Si inginocchiò nella cassa di metallo e unì le mani in preghiera. «Lo giuro su Dio».

«È la tua ultima occasione», disse Avram.

«Ti prego, zio Avram. Ti scongiuro. Non farlo. Non voglio morire». Si guardava intorno, come in attesa di un miracolo, ma non c’era possibilità di un miracolo. «Sapevano già tutto», singhiozzò. «Giuro che lo sapevano. Non sono andato io da loro. Sono venuti loro da me. E sapevano tutto. Non gli ho mai detto niente che non sapessero già».

«Vai avanti».

«Mi sono fatto promettere che non ti avrebbero fatto niente, niente galera o roba simile. Gli ho fatto firmare un accordo. Mi stavo solo preoccupando di te».

«Di me?»

«Tu vuoi servire Dio. So che è così. Ma questa cosa non ha niente a che fare col servire Dio. Non spetta a gente come me o te di…».

Avram si sorprese a premere il grilletto. Aveva intenzione di spremere Uri completamente prima di ammazzarlo. Ma la rabbia fu troppa. I quattro colpi gettarono Uri all’indietro, lasciandolo sdraiato sul fianco, nascondendo l’entrata e l’uscita delle pallottole. Avram entrò nella cassa, premette il silenziatore contro le tempie del nipote e sparò ancora una volta. Poi si arrampicò fuori, ripulì le impronte dalla pistola, la gettò nella cassa e la richiuse a chiave.

Avrebbe dovuto cambiare il suo giro per gli approvvigionamenti, a quanto pareva…

L’irriverenza del pensiero lo fece sorridere. Sentì, a dire il vero, qualcosa che somigliava in modo disturbante all’euforia. Fino a quel preciso istante, non era stato certo di avere il tipo di forza necessaria per portare a termine la missione. Ora lo sapeva. Eppure l’euforia non era una reazione appropriata per un atto così solenne, così si mise a fare quello che doveva; afferrò la pala e, quasi come penitenza, cominciò il faticoso lavoro di seppellire suo nipote e la sua bara improvvisata sotto la sabbia.