TRENTASETTE

I

L’ondata di fervore religioso si spense in fretta, lasciando Croke quasi in imbarazzo. Si rimise in piedi, si spazzolò le ginocchia, assunse la sua espressione più risoluta, quella che voleva dire che c’era del lavoro serio da fare. Controllò la sua telecamera miniaturizzata, poi si rivolse a Morgenstern, che stava sussurrando un commento alle immagini dell’operatore.

Non era il momento di chiedere il permesso. Si mise esattamente davanti all’obiettivo, staccò il cavo del microfono. «Congratulazioni, signora vice presidente», disse. «Il reverendo mi aveva detto che eravate la nuova Ester. Sembra che avesse ragione».

Un momento di silenzio; iniziò a temere di aver fatto un errore di valutazione. Ma alla fine lei parlò. «La nostra missione non è ancora completata, signor Croke», disse, con la sua voce distintiva.

«No, signora vice presidente».

«La consegnerà personalmente, mi dicono».

Croke annuì. «La porteremo all’aeroporto adesso. Dobbiamo consegnarla prima dell’alba».

«Vi guarderò. Tutto il mondo vi guarderà. Pregando per il vostro successo».

«Grazie». Esitò un istante, poi disse: «Signora vice presidente, c’è qualcosa che devo chiederle».

«Cosa?», domandò, il tono improvvisamente diverso.

Abbassò gli occhi, indicandosi da solo; voleva farle capire che sapeva di essere sul punto di allontanarsi parecchio dal limite consentito. «Signora vice presidente, non m’illudo sui rischi che ho davanti. Li accetto. La missione li vale tutti. Ma c’è qualcos’altro che non riesco ad accettare, per quanto ci provi». Alzò lo sguardo e lo puntò alla telecamera. «Mio padre ha servito il nostro paese per tutta la vita. Credere che io possa tradirlo, in un modo qualunque, lo ucciderebbe».

«Lei sa che non posso riconoscere pubblicamente un suo coinvolgimento».

«No, signora vice presidente. Certo che no. Ma lui ha fiducia in lei. Lui l’ammira. Quindi, se non dovessi farcela, la prego di trovare un modo privato per fargli sapere che ho dato la mia vita per questa missione, che lei conosceva e approvava. Anche solo una parola all’orecchio da qualcuno di cui lui si fida, così che possa tenere la testa alta quando i media gli saranno addosso».

La sua voce tornò la stessa dell’inizio. Le promesse non costavano nulla. «Ma certo. Sarò felice di informare suo padre».

«Grazie, signora vice presidente».

E lo pensava davvero. La voce di lei era fin troppo nota per negare, e le riprese di Morgenstern e dei suoi colleghi dell’NTC erano tutto quello che gli occorreva come ulteriore prova. Quando avrebbero cercato di fare di lui il capro espiatorio, perché l’avrebbero sicuramente fatto, si sarebbero trovati con una brutta sorpresa.

III

Jay non era fra quelli che erano caduti in ginocchio. Sapeva quello che avrebbero trovato, dopotutto. E sapeva anche la verità.

Dopo che aveva scoperto le tracce sbiadite di uno schema nascosto dietro a uno dei testi religiosi di Newton nell’archivio Yahuda di Gerusalemme, aveva creduto che il grande uomo avesse in qualche modo scoperto la vera Arca, avesse analizzato il suo funzionamento e l’avesse sistemata. E suo zio Avram era stato d’accordo, poiché era sempre stato un dogma della sua fede che l’Arca venisse trovata e riportata a Gerusalemme prima che si potesse ricostruire il Terzo Tempio. Questa scoperta, perciò, era sembrata più che una felice coincidenza. Era sembrata la mano di Dio all’opera.

La scoperta di Luke del giorno prima, però, gli aveva fatto mettere in discussione la sua ipotesi. Perché nella sua nota criptica, Newton affermava di aver ricevuto dodici pannelli lisci e “blocchi di LA”. In quel contesto, LA poteva significare soltanto legno d’acero, il materiale di cui era fatta l’Arca. Se questa era l’Arca originale, i pannelli erano già presenti, non servivano né lisci né in blocchi. E così Jay era stato costretto ad arrivare a una diversa conclusione: che Ashmole non avesse lasciato in eredità a Newton la vera Arca, ma semplicemente il materiale e le indicazioni necessarie a costruirne una replica perfetta.

Jay non aveva condiviso la sua nuova teoria con nessuno. Era in debito con suo zio di informarlo per primo, ma non aveva ancora avuto la possibilità di farlo. E, a essere sinceri, non era comunque sicuro di volerglielo dire. Lo avrebbe solo deluso e scoraggiato, e quale differenza poteva fare del resto? Per Jay, un’Arca di Newton era altrettanto meravigliosa e sacra di quella di Mosè. Inoltre, questo era quello che il destino aveva voluto, e chi erano loro per contraddirlo?

Secondo lo schema avrebbe sicuramente dovuto esserci altro materiale. Jay non vedeva altro dentro il Sancta Sanctorum, così tornò indietro e lì le vide: tre casse di quercia, una più grande con due identiche ma più piccole di fronte, come una madre in posa con le sue gemelle.

«Cosa sono quelle?», domandò Luke, alle sue spalle.

«Scopriamolo», disse Jay.

I lati delle casse e i coperchi erano elaboratamente decorati con scene tratte dalla Genesi, dall’Esodo e dai Libri dei Re. Aprì una delle due più piccole prima. Era stata riempita fino all’orlo di paramenti. L’abito più in alto era così pesante che sollevarlo era stato uno sforzo. Era un abito viola, lilla, bianco e scarlatto, impreziosito da ricami dorati, piattini e campanelle d’oro. Ma quello che davvero catturò lo sguardo di Jay furono le quattro file di pietre preziose e semi-preziose cucite sul corpetto. Si voltò felice verso Luke e Rachel. «L’efod», disse. «Le vesti del Kohen, il Sommo Sacerdote dell’Arca dell’Alleanza». Lo tenne steso sul suo petto per mostrare loro le pietre. «Sardonio, topazio e smeraldo». Fece scorrere il dito lungo la fila. «Carbonchio, zaffiro e diamante». Le sue dita si spostarono alla terza fila. «Ligurio, agata e ametista». E infine la quarta. «Grisolito, onice e diaspro».

«Le iniziali sulle carte di Newton», disse Rachel.

«Le iniziali sulle carte di Newton», annuì Jay. «Le dodici pietre che Ashmole lasciò a Newton così che potesse confezionare un efod per se stesso. Dimostra che facevano sul serio, non è un qualche tipo di esercizio intellettuale. Perché avrebbe dovuto averne bisogno altrimenti?». Scosse la testa ammirato. «Ma lui non era un Kohen, Luke. Questo è il fatto. Aveva bisogno di un Kohen, come me».

«Jay Cowan», mormorò Luke. «Jacob Kohen».

«Fu il mio bisnonno», disse Jay. «Pensò che Cowan sarebbe stato un nome più prudente per viaggiare attraverso l’Europa. Ma siamo Kohen lo stesso».

«Quindi quei vestiti sono tuoi, giusto?»

«Confezionati per me dallo stesso Newton», disse Jay. «Pensateci. Per tutta la vita, le persone mi hanno detto che ero strano. Eppure adesso so che sono stato fatto in questo modo per una ragione. Ora so di avere un destino. È una cosa grossa, che ne dite? Avere un destino?». Ripiegò la veste e la rimise nella cassa, spostò l’attenzione sulla sua gemella. Il suo interno era diviso in due; sulla sinistra c’erano fogli di metallo opaco, sulla destra c’erano ampolle con tappi incrostati e piene per tre quarti con un qualche torbido liquido. La richiuse, si rivolse alla cassa madre. Il suo coperchio, però, non si sollevò. Aggrottò la fronte e ci girò intorno, cercando un sistema per aprirla. Aveva delle robuste maniglie d’ottone sui lati, ma non accadde nulla quando provò a tirarle. E i pannelli di quercia erano montati così perfettamente insieme che non c’era un indizio su come si potesse aprirla. Più per frustrazione che per altro, spinse a turno ognuno dei lati, e alla fine uno dei pannelli cedette un po’. Spinse più forte e si aprì una parte del coperchio, consentendogli di far scivolare il pannello verso l’alto fino a sfilarlo. C’era un secondo pannello immediatamente sotto, coperto con un ricco panno blu e munito di due maniglie di pelle. Le tirò e uno scomparto interno scivolò dolcemente verso di lui, come un cassetto su binari oliati. Lo estrasse, lo girò. Era forse lungo ottanta centimetri, la metà della lunghezza della cassa. I suoi lati erano coperti con lo stesso panno blu, ma l’interno era rivestito di pelliccia marrone e bianca, e aveva chiaramente la forma adatta a contenere l’Arca come un guanto ha la forma di una mano.

Si inginocchiò per guardare meglio all’interno. Una pelliccia bianca e marrone rivestiva il fondo su entrambi i lati, uguali e opposti, così che le due metà insieme formassero un ventre perfetto per il suo prezioso carico. La toccò per capire se anche quel pannello fosse estraibile, ma sembrava fissato. Guardò verso Luke. «Non si può trasportare l’Arca lasciandola all’aperto», Jay gli disse. «È contro la legge ebraica. Se la si deve spostare, è necessario avvolgerla prima nel tachash e nel panno blu.

«Tachash?», domandò Luke.

«È un tipo di pelliccia», disse Jay. «Anche se nessuno sa per certo di quale animale sia». Accarezzò la pelliccia nel sollevarla. «Ma Newton seguiva la Bibbia di re Giacomo, e re Giacomo la tradusse come pelliccia di tasso».

«Così costruì questo per trasportarla qui», chiese Rachel.

Jay non rispose, la sua attenzione era rivolta invece a un grande taglio ovale sul fondo della cassa, dell’esatta forma e dimensione della base dell’Arca stessa. Sorrise quando capì come funzionava. Trovò e rilasciò una coppia di fermi che fissavano la metà anteriore del pannello di fondo, poi lo fece scivolare via e lo mise da parte. Ora la cassa si poteva poggiare sopra l’Arca e fissarla intorno. Il pannello di fondo si poteva poi riposizionare e chiudere intorno alla base dell’Arca, come il collare di una ghigliottina sul collo della prossima vittima. Facendo scorrere indietro lo stampo con la pelliccia e fissandolo al pannello frontale, l’Arca sarebbe stata pronta per essere trasportata senza che nessuno dovesse nemmeno toccarla.

Quel pensiero gli ricordò che era là per una ragione. Tornò davanti alla camera e trovò i goyim con le loro mani ovunque sull’Arca. «Fermatevi!», comandò, la sua voce suonava imperiosa anche a se stesso. «Rimettete quel coperchio al suo posto».

Croke gli lanciò un’occhiata acida. «Sei qui come osservatore», disse.

«Non capisci cos’è questa?», domandò Jay. «Bisogna prendersi il tempo necessario. Bisogna maneggiarla con cura. E nessuno deve toccarla. Nessuno tranne me».

«Ma…».

«Solo un Kohen può toccare l’Arca, o la punizione è la morte. La punizione è la morte. Io sono un Kohen. Ci sono altri Kohen qui?». E si guardò così bellicosamente intorno che nella camera nessuno disse una parola.