TRENTACINQUE

I

Era stato uno shock per Luke vedere Jay prima parlare con i loro sequestratori, poi intervenire per conto suo e di Rachel. Aveva provato a resistere all’idea che il suo vecchio amico non solo conosceva questa gente, ma stava lavorando con loro, aveva lavorato con loro fin dal principio. Ma la conclusione era inevitabile. Guardò Rachel. Aveva gli occhi chiusi e la testa reclinata leggermente in avanti, come in preghiera. Aveva recuperato un po’ del suo colore dall’avventura sulla balconata, ma sembrava ancora a pezzi. E anche lui non si sentiva molto bene, anche se cercava di non darlo a vedere. Voleva rassicurarla, farle credere di avere un piano. Ma il suo unico piano consisteva nell’usare Jay in qualche modo, e quel pensiero lo disgustava insieme a quello di Jay che li aveva venduti.

Il picchiatore faceva la guardia alla stanza giocando a qualcosa su un tablet. Si annoiò, andò alla porta a parlare con chiunque fosse di guardia fuori. Luke guardò Jay e fece segno con la testa di avvicinarsi.

«Cosa c’è?», domandò Jay, raggiungendolo.

«Tu conosci questa gente», mormorò Luke. «Com’è che li conosci?»

«Mio zio», disse Jay, osservando la porta, chiaramente nervoso al pensiero di oltrepassare qualche limite sconosciuto. «Questo è il suo progetto. È per questo che posso proteggervi, perché questa notte non accadrà niente senza di lui».

«Questa notte?», domandò Luke. «Cosa succede questa notte?».

Jay scosse la testa. «Non posso dirtelo. Ma andrà tutto bene. Fidati di me».

«Fidarmi di te?», si infuriò Luke. «Lavoravi con loro fin dall’inizio. Ci hai traditi».

«Ho provato a tenervi lontani», disse Jay. «Giuro che ci ho provato. Per questo vi ho mandato al Monumento».

«Ehi!», disse il picchiatore. «Silenzio, voi due».

Luke lo ignorò. «Mi hai fatto assumere tu da questa gente, vero? Per trovare le carte di Newton, intendo».

Jay sembrava angosciato. «Dicevi che avevi bisogno di lavorare. Ho pensato che ti avrebbe aiutato».

«Ma perché?», chiese Luke. «Perché non le hai cercate tu stesso?»

«Odio quel tipo di cose», disse Jay. «Avere a che fare con degli sconosciuti. Non sono bravo. E, in ogni caso, ero troppo impegnato a controllare tutti gli altri manoscritti di Newton».

«Basta», disse il picchiatore. Si avvicinò e puntò il taser alla gola di Luke. «O vuoi provare questo?»

«No», disse Luke. «Starò buono».

II

Mentre Morgenstern telefonava alla Casa Bianca, Croke si occupò di qualche affare per conto suo. Organizzò un ufficio in una stanza vuota, poi inviò ad Avram un’email con gli ultimi aggiornamenti e un link per vedere le riprese dal vivo. Fatto questo, controllò che Grant avesse già onorato la sua parte dell’accordo.

Entrò nel suo account sulla pagina web della Rutherford & Small’s, una piccola banca delle Isole Vergini britanniche. Digitò il numero di conto, la password e il codice di sicurezza. Ed eccoli là, abbastanza per lanciare il suo cuore a un piacevole galoppo.

$ 70.000.000,00

Non erano ancora suoi, comunque. Non del tutto. Lui e Grant usavano un sistema di pagamento a tre stadi per affari del genere. Questa volta, al primo stadio, Grant avrebbe versato l’intera somma su un conto esistente, dedicato a questa specifica missione, permettendo a Croke di verificare che la cifra fosse là. Ma per il momento tutto quello che poteva fare era guardarla. Più tardi quella notte, una volta che Avram avesse attaccato, Grant gli avrebbe mandato una nuova password con cui avrebbe avuto potere di veto su tutte le future transazioni, trasformandolo in sostanza in un conto bloccato. Solo allora Croke avrebbe consegnato il suo carico e avrebbe completato la sua parte dell’accordo; a quel punto Grant avrebbe rinunciato al controllo sul fondo, e i soldi sarebbero stati di Croke.

Uscì dal suo account e tornò alla cripta. Un paio di seghe circolari con le punte in diamante stridevano e lanciavano scintille contro il mosaico, lasciando salire piccole nuvole di sabbia e polvere. «Ha detto di sì, posso supporre?», domandò a Morgenstern, dovendo quasi gridare per farsi sentire.

«Ha detto di sì», ghignò Morgenstern, passandogli un paio di occhiali protettivi. «Sapevo che avrebbe detto di sì. È il suo destino».

«Se lo dice lei».

«Le ho detto che avremmo finito per le otto di sera, ora nostra. Si è liberata dagli altri impegni per vedere la diretta. E ha promesso che avrebbe parlato con Downing Street, per assicurarsi che non ci ostacolino».

«Possiamo farci affidamento?»

«Così ha detto lei. A quanto pare abbiamo dei filmati sul nostro nuovo primo ministro».

«Filmati?», Croke strizzò gli occhi incredulo. «Vuole dire filmati con qualche ragazza

«Anche meglio. Con qualche ragazzo».

Croke rise allegro. «Fantastico».

«Stiamo per tirarla fuori», disse Morgenstern. «Non riesco a crederci: stiamo davvero per tirarla fuori».

«Non abbiamo ancora finito», lo mise in guardia Croke. «Non sappiamo nemmeno se è davvero quaggiù».

«È quaggiù», disse Morgenstern. «Gliel’ho detto: è destino».

«Forse. Ma il destino non la porterà da solo al City Airport».

L’uomo dell’NTC aggrottò la fronte. «Perché dovrebbe essere un problema?»

«Sta scherzando? Tutto il mondo ci sta guardando. Qualunque cosa lascerà questo posto su un camion si trascinerà dietro una coda di media da non credere. E non intendo solo elicotteri, auto e furgoni, che forse si possono bloccare o costringere a voltarsi dall’altra parte. Intendo ogni londinese con un cellulare e un account Twitter. Se vedono che ci dirigiamo verso l’aeroporto, se ci vedono caricare il mio aereo, è finita. Il primo ministro può anche controllare lo spazio aereo britannico, ma non è lo spazio aereo britannico che mi preoccupa».

«E allora che facciamo?», domandò Morgenstern.

Croke indicò la tomba di Nelson. «Cosa farebbe se ci fosse davvero qualcosa là? Voglio dire, immaginiamo che i terroristi abbiano usato le fognature o la metropolitana o qualunque cosa per arrivare sotto la cripta e mettere una bomba sporca».

«Dice sul serio?»

«Mi assecondi. Deve avere un piano di emergenza. Cosa si farebbe?».

Morgenstern aggrottò la fronte. «Si evacuerebbe l’area, come abbiamo già fatto. Chiameremmo degli esperti per valutare e poi disarmare il dispositivo. Metteremmo il materiale radioattivo in un container nucleare, poi lo porteremmo in un impianto idoneo per le analisi e lo smaltimento».

«Civile o militare?»

«Dipende. Una testata è roba militare. Ma le bombe sporche di solito sono tritolo messo dentro a qualche bidone di combustibile esausto o qualche altra scoria nucleare. Le centrali nucleari hanno a che fare con quella roba continuamente».

«Dov’è la più vicina?»

«Sizewell, credo. Sulla costa del Suffolk».

Croke annuì. Era stato nel Suffolk molti anni prima, durante uno dei giri di suo padre fra le basi aeronautiche statunitensi della zona. «E questo container avrebbe la scorta completa, giusto? Macchine e moto della polizia, forse un camion o due. E fareste liberare le strade perché non ci fosse il pericolo di farlo bloccare nel traffico?»

«Dove vuole arrivare?»

«Quando siamo arrivati ieri dall’aeroporto, abbiamo attraversato un lungo tunnel».

«Il Limehouse Link», disse Morgenstern.

«È sulla strada per il Suffolk, no?»

«Può essere. Ma perché dovrebbe…». Rise forte appena capì la risposta. «Sì, potrebbe funzionare. Ma che succede una volta che arriviamo alla centrale di Sizewell e vedono che non c’è niente nel container?».

Croke si strinse nelle spalle. Non era un problema suo. «Non riesce a trovare qualche vecchia barra da metterci dentro?»

«Impossibile. Non con così poco preavviso».

«Allora perché non portarlo alla vostra base aeronautica, invece? È da quella parte, no? E tratta il nucleare».

«Non più. Abbiamo rispedito le testate a casa».

«Ma le basi hanno comunque gli impianti necessari, giusto? Nel caso voleste riportarle indietro?»

«Quindi?»

«Si immagini che accada qualcosa sulla strada verso Sizewell. Si immagini di ricevere una soffiata sui terroristi che vogliono attaccare il convoglio. Quindi lei prende la decisione “sul campo” di dirottare tutto verso la più vicina base americana, perché lì la bomba sarà al sicuro. Una volta lì, è come essere in territorio americano. Libero, a casa».

«I britannici daranno di matto», disse Morgenstern.

«È un problema?»

«Cazzo, no», ghignò Morgenstern. «È più… un incentivo».

III

Avram e Shlomo parcheggiarono vicini in un nuovo lotto di Ma’aleh Shalom, a sud della Città Vecchia. Il percorso più diretto consisteva nel passare attraverso il Dung Gate, ma non potevano rischiare di affrontare la sicurezza raddoppiata della Western Wall Plaza, così entrarono attraverso lo Zion Gate. Avram faceva strada, senza mai voltarsi verso Danel e i suoi compagni. Due volte vide squadre di poliziotti davanti a lui, ma conosceva così bene quei vicoli che evitarli non fu un problema.

Il rifugio era un appartamento con una camera nel seminterrato. Aprì la porta e la lasciò socchiusa alle sue spalle. Era buio, soffocante e c’era cattivo odore là dentro. A parte i suoi sporadici controlli, nessuno c’era stato in un anno. Ma il posto aveva tutto il necessario, elettricità inclusa, acqua corrente e una connessione satellitare. Ci collegò il portatile, mentre Danel e gli altri entravano e richiudevano la porta, poi controllò i messaggi da Croke. Ne aveva due, uno con il link alla diretta video, l’altro che gli diceva di accendere la televisione alle venti, ora di Londra.

«Facci vedere, allora», disse Danel. «Questa tua cosa».

«Non ancora», disse Avram, mostrandogli l’email di Croke. «E comunque dobbiamo ripassare ancora il piano».

«Lo abbiamo già ripassato il piano».

«Non insieme agli altri, non l’abbiamo fatto».

«Dove sono?»

«Li vado a prendere adesso. Ma Ana e Ruth non possono essere qui quando torno indietro. Le incontreremo più tardi vicino al camion».

Danel aggrottò la fronte. «Chi si crede di essere questa gente?»

«Mi dispiace», disse Avram. «Non possono stare qui».

Si perquisì brevemente per essere sicuro di non portare niente di compromettente addosso e uscì in direzione del Muro Occidentale. La piazza era affollata quando arrivò, e ronzava dell’euforia della fede. Il lunedì sera non era normalmente così frequentata, ma l’anniversario della guerra dei sei giorni aveva portato lì molta folla. Il suo cuore si gonfiò mentre si guardava intorno: queste persone non lo sapevano, ma il loro lungo esilio dal Monte del Tempio era quasi giunto al termine. Una vecchia conoscenza lo salutò. Fece un cenno di risposta, ma con un’espressione volutamente severa perché fosse chiaro che non era libero di chiacchierare.

Shlomo e i suoi uomini se ne stavano in un angolo, ai piedi della scalinata. Non li guardò, ma passò loro lentamente tanto vicino da assicurarsi di essere visto. Poi si diresse anch’egli verso il muro.

Aveva già composto la sua breve preghiera. O, più precisamente, Isaia l’aveva composta per lui, e lui l’aveva semplicemente trascritta.

Alla fine dei giorni, la casa del Signore sarà eretta sulla cima dei monti e sarà più alta dei colli.

Piegò il foglietto molte volte, lo mise in una fessura in alto nel muro. Per la prima volta nella sua vita da adulto sentiva qualcosa di simile alla pace mentre se ne stava lì a pregare, quella assillante voce interiore finalmente placata. Il Signore, benedetto il Suo Nome, gli aveva fatto il dono della vita. Adesso, finalmente, aveva l’opportunità di mostrare la sua gratitudine.