DUE

I

«Li hai trovati», mormorò quasi intimorita Penelope Martyn, quando Luke la raggiunse nella sua cucina. «Non ci credo».

Luke si concesse un sorriso. «Neanch’io», ammise.

«E? Sono… sono quello che speravi?».

Non sapeva cosa rispondere a quella domanda. La casa di lei era enorme ma fatiscente, e aveva avuto la netta sensazione, durante la chiacchierata di poco prima, che un po’ di fortuna sarebbe stata più che benvenuta. «Sono carte alchemiche», rispose con prudenza. «Quattro fogli, scritti fronte e retro. Citazioni da altri autori, per quanto posso dire finora».

«Oh». Tentò, senza riuscirci, di dissimulare la sua delusione. «Quindi non un suo lavoro originale?»

«Temo di no». Le aveva già spiegato una volta la scala di valore fra le carte di Newton: le preziosissime lettere che aveva scritto ai suoi più o meno famosi amici; le ambite annotazioni a Principi di Matematica e a Opticks; i decisamente meno significativi scritti teologici e alchemici, specie quelli che non rappresentavano il pensiero proprio di Newton, ma erano semplici trascrizioni di altri autori. «Poteva andare peggio», disse. «Potevano essere le carte della Royal Mint, la zecca reale».

«Newton era nella Royal Mint?»

«Entrò a farne parte uno o due anni dopo aver scritto queste pagine. Lo gestì per decenni. Coordinò il riconio completo del regno».

Penelope scosse la testa. «Perché un uomo come Newton accettò un incarico del genere?».

Luke si strinse nelle spalle. Era una domanda che aveva angustiato gli accademici per molti anni e nessuno era mai giunto a una spiegazione soddisfacente. «Principi della Matematica lo rese famosissimo», disse. «Si crede che abbia voluto spostarsi a Londra per godersi la gloria. La Royal Mint era la sua occasione. E i soldi erano davvero molti, specialmente dopo la nomina a Maestro».

«Oh, be’». Toccò le carte con la punta delle dita. «Non c’è proprio niente di interessante qui dentro?»

«Non le ho ancora analizzate come si deve», rispose Luke. «Volevo prima mostrarle a te. E poi…».

Indicò la scrittura contorta, i passaggi sottosopra, le parole esoteriche, le parti in latino e francese, a sottolineare la difficoltà che la loro lettura rappresentava. «Ma almeno una cosa c’è».

«Sì?».

Le indicò le quattro parole. Poi, non sapendo se fosse in grado di vederle, le lesse a voce alta. «Qui dice “Fatio Oh mio Fatio”».

«Non capisco», aggrottò la fronte. «Chi è Fatio? Cos’è Fatio?»

«È un chi». Si fermò per aprire la custodia del portatile, tirò fuori la macchina fotografica digitale. «Un lui, per la precisione. Nicolas Fatio de Duillier. Un giovane matematico svizzero che divenne amico intimo di Newton nei primi anni Novanta del Seicento. Forse un amico molto intimo».

«Molto intimo?», chiese inclinando la testa da un lato. «Vuoi dire che…?».

Luke sorrise. «È possibile. Alcuni ne sono certi».

«Sir Isaac Newton? E un giovanotto svizzero?»

«Non c’è nessuna prova che suggerisca ci sia stato nulla di fisico fra loro», disse Luke, raddrizzando la prima pagina sulla tovaglia per fotografarla meglio.

«Anche se una volta passarono insieme una settimana a Londra, e nessun altro sapeva che Fatio fosse nel paese». Controllò l’immagine sul display, voltò la pagina per fotografarne anche il retro. «E Newton più tardi lo implorò di vivere con lui a Cambridge».

«Però». Si lasciò andare a un accenno di risata. «Forse questo è il motivo per cui lo zio Bernie voleva queste carte».

Luke sistemò la seconda pagina. «Che intendi?».

Le si colorarono leggermente le guance. «Ai miei tempi si chiamavano “scapoli impenitenti”», disse con un piccolo sorriso, come se non fosse molto a suo agio nel rivelare segreti di famiglia, ma mostrando di trovare la cosa divertente. «Dicevano: “Non è tipo da matrimonio”. Non avevo idea di cosa intendessero. Pensavo semplicemente che lo zio Bernie non avesse ancora incontrato la donna giusta. Sperai anche di poterlo aiutare a trovarsi qualcuna. Era davvero gentile con me. Il solo Martyn che mi accettasse davvero in famiglia. Ma poi un pomeriggio lo andai a trovare senza preavviso». Fece un altro risolino e arrossì ancora di più. «Insomma, sono sicura che puoi immaginarti il resto».

«Deve essere stato uno shock», commentò Luke, fotografando la terza pagina.

«Per entrambi», ammise. «Per tutti e tre, dovrei dire. Una volta noi ragazze eravamo così ingenue. Non ci crederesti».

Fotografò anche il retro dell’ultima pagina, e tenne in mano la macchina. «Potrei mandare un’email con le foto? Prima il mio cliente le vedrà, prima farà un’offerta. Se le vuole, ovvio».

«E non sono obbligata ad accettare, hai detto?»

«Certo che no. Vuole solo l’opportunità di fare la prima offerta». L’avvocato del suo cliente era stato incredibilmente comprensivo sulla questione, ribadendo il concetto a ogni opportunità. “Dovete sentirvi perfettamente liberi di accettare, rifiutare o negoziare una migliore offerta”. In quella casa era troppo sperare nel wi-fi, ma Penelope lo aveva rassicurato poco prima che avrebbe potuto usare la rete che aveva installato nella speranza di convincere i suoi nipoti a venirla a trovare. Collegò il portatile al router, caricò le foto, le allegò alla email e le mandò per la loro strada. I file erano ad alta risoluzione e pesavano un bel po’, in più la connessione era lenta. «Ci potrebbe volere un pezzo», disse. «Ci berremo una bella tazza di tè, allora», rispose Penelope.

Si mise a osservare le foto di famiglia appese al muro, mentre il vecchio bollitore faticava a scaldarsi. La maggior parte di quelle facce erano burbere, con grossi nasi e sottili labbra superiori, e posavano evidentemente malvolentieri per quei ritratti. Ma si imbatté nella foto di una giovane donna con corti capelli castani e un incantevole sorriso appoggiata alla portiera di una vecchia Rover grigio-blu.

«La mia pronipote Rachel», disse Penelope apparendo al suo fianco con un vassoio di frollini. «È una del tuo ramo».

«Il mio ramo?»

«Un’accademica. Sta facendo il dottorato al Caius College, a Cambridge. Vuole diventare professore come te».

«Ah», disse Luke, sentendosi un po’ in colpa. Aveva usato la vecchia carta intestata dell’università per la corrispondenza con Penelope; e aveva tralasciato casualmente di farle sapere che aveva preso una strada diversa dopo la sua condanna per aggressione e violazione della legge antiterrorismo. «Qual è il suo campo?», domandò.

«Archeologia e storia dell’antico Vicino Oriente, credo. Qualcosa del genere, comunque. Tra te e lei, faccio davvero fatica a seguirvi».

«Sembra carina».

«Al contrario del resto della stirpe, intendi?»

«No, non intendevo questo», protestò Luke, con un po’ troppa foga. «Volevo solo dire che sembra carina». Il portatile emise un bip, risparmiandogli di arrossire ancora. Andò a dargli un’occhiata. Si stava esaurendo la batteria. «Ti dispiace se carico la batteria?», chiese.

«Fai pure». Gli indicò una presa libera, si schiarì la voce, essendo lei ora in imbarazzo. «Odio chiederlo», disse, «ma ti sei fatto un’idea di quanto esattamente sia interessato il tuo cliente a queste particolari carte?».

Luke esitò. Le aveva già fatto una stima di massima ed era riluttante a tornare sull’argomento. Con una cifra troppo bassa avrebbe potuto pensare che volesse fregarla; con una troppo alta l’avrebbe preparata a una delusione. Controllò ancora lo schermo e vide che le foto erano state spedite, le rivolse un sorriso vagamente ottimista. «Credo proprio che lo scopriremo presto», disse.

II

Vernon Croke stringeva un bicchiere di cristallo pieno di bourbon e intanto guardava fuori dalle vetrate del terminal dei jet privati all’aeroporto di Napoli, osservando il personale di sicurezza brulicare come formiche intorno al suo aereo.

Era così dappertutto.

Ovviamente le cabine dei moderni jet erano pressurizzate. A quelle altezze la rarefazione dell’aria avrebbe ucciso passeggeri ed equipaggio, altrimenti. Il carico invece veniva spesso lasciato senza pressurizzazione. In questo tipo di apparecchi i due compartimenti dovevano essere separati e sigillati, nel caso uno sfortunato incidente provocasse una catastrofica depressurizzazione.

Recentemente, però, alcune compagnie internazionali si erano sentite intralciate da questa soluzione. Rimpiangevano la mancanza di un sistema di controllo dell’aria che avrebbe permesso il passaggio fra la zona pressurizzata e quella depressurizzata. Un sistema del genere avrebbe addirittura permesso di aprire un portello esterno a metà volo: ad esempio per gettare prove potenzialmente imbarazzanti, o paracadutare agenti o rifornimenti in territorio ostile. Gli aerei cargo erano troppo lenti, e volavano bassi, troppo esposti per quel genere di compiti delicati, ma nessuno dava una seconda occhiata a un jet privato che si manteneva sui settemila metri. Questo era quanto la CIA aveva assicurato a Croke, perlomeno, quando gli avevano offerto l’aereo come anticipo dopo le indagini del dipartimento di giustizia sui voli con cui spostavano illegalmente i prigionieri politici. Questo, sommato al generoso sconto, e al sofisticato sistema di comunicazioni, era sembrata un’occasione troppo ghiotta per rifiutare. Ma c’erano volte in cui si pentiva della sua decisione, perché le caratteristiche dell’aereo invariabilmente attiravano maggiori controlli ovunque andasse. «Quanto ancora?», chiese a Vig.

«Cinque minuti, signore».

«È quello che hanno detto dieci minuti fa».

La guardia del corpo si strinse nelle spalle. «Un altro?».

Croke scosse la testa. «Devo fare delle telefonate», disse. «Non posso farle qui. Chiunque potrebbe sentire».

La porta si aprì. Un agente della sicurezza aeroportuale gli fece un cenno. Erano a posto. Croke percorse velocemente il corridoio. «Siamo sicuri?», chiese al suo pilota, Craig Bray, che lo aspettava in cima alla scaletta della cabina di guida.

«Appena eseguita una scansione completa», lo rassicurò Bray. «Siamo sicuri».

Le cabine per le comunicazioni erano sul davanti. Croke le aveva trasformate nel suo ufficio di bordo, da cui poteva gestire il suo piccolo impero in perfetta tranquillità. Si diresse lì, controllò i messaggi. Tutti nella norma, tranne quello di Max Walters, capo del suo ufficio di Londra. Lo chiamò immediatamente. «Di che si tratta?», chiese.

«Ho appena ricevuto un’email dal nostro amico di Newton», disse Walters.

Croke si sistemò sulla sedia. «Ha trovato qualcosa?»

«Quattro pagine, signore. Vicino a Thetford in qualche vecchia soffitta. Non l’avrei disturbata, ma c’è una lista di dodici lettere sul retro di una delle pagine, che è una delle cose che mi ha detto di cercare, giusto?»

«Sì», disse Croke. «Mandamele».

«Già fatto, signore. Volevo solo avvisarla».

«Bel lavoro».

«Grazie. Se vuole gli originali, questo pomeriggio sono libero e ho ancora i contanti di quel Riyadh. Ho allertato Kieran e Pete».

«Lascia che gli dia un’occhiata», disse Croke. «Ti richiamo». Scaricò e aprì la email, trovò le dodici lettere in quattro gruppi da tre in un strano passaggio sul retro della terza pagina. Trovò una Bibbia di re Giacomo online, andò diretto all’Esodo, cercò un passo e lo confrontò con la foto della pagina, aprendola contemporaneamente sullo schermo. Affondò nel suo sedile, il cuore gli pulsava fortissimo. Combaciavano perfettamente. Negli ultimi sei mesi, i suoi amici a Gerusalemme e nel sud degli Stati Uniti gli erano stati sempre più addosso, facendogli pressione perché intensificasse le ricerche di quelle carte, che sarebbero servite entro una data specifica. Quella data era dopodomani, martedì 7 giugno.

Per lo più, Croke era figlio di suo padre, e provava solo un vago disprezzo per la religione e le sue relative superstizioni. Ma c’erano delle volte, come questa, in cui il sangue di sua madre si faceva sentire e poteva intravedere la vastità dell’ignoto. Richiamò Walters. «Voglio quelle carte», disse. «Le voglio oggi. Non mi importa il prezzo. Prendimele e basta».

«E se non volesse vendere?»

«Trova un modo. Ti pago per questo, no?»

«Certo signore».

«E voglio che tutte le copie di queste foto vengano distrutte. E la tua signora e il tuo esperto di Newton devono tenere la bocca chiusa. Capito?»

«Certo, signore. Quando avrò gli originali, dove vuole che li spedisca?».

Croke esitò. Suo padre avrebbe compiuto settantacinque anni il prossimo fine settimana, e la sua rotta verso gli Stati Uniti era compatibile con una sosta nel Regno Unito. E che senso aveva possedere un aereo privato, se non per usarlo in situazioni come questa? «Proverò a fare tappa io, in aereo», disse. «C’è qualche aeroporto in zona?»

«Sicuramente Cambridge e Norwich. Ce ne dovrebbero anche essere altri».

«Bene. Ti farò sapere». Chiuse la telefonata e passò qualche minuto a fissare il criptico messaggio di Newton, cercando di comprenderlo. Ma era troppo oscuro per lui, non ne avrebbe cavato un ragno dal buco. Era arrivato il momento di coinvolgere gli esperti. Era arrivato il momento di Avram.

III

Città vecchia, Gerusalemme

Ci fu un’altra scossa d’assestamento quel pomeriggio, circa mezz’ora dopo che Avram rincasò dall’ospedale. Una scossa leggera, appena sufficiente a far traballare le stoviglie nelle credenze e far scattare l’allarme di qualcuno giù in strada. Eppure un gran brivido percorse Avram. Insieme alle notizie che aveva ricevuto poco prima, era come se Dio stesso, benedetto il Suo Nome, fosse entrato in casa sua per dirgli senza mezzi termini che non era più tempo di rinvii e scuse. Doveva accadere adesso.

Il suo cuore si gonfiò nel petto. Gli occhi cominciarono a riempirsi di lacrime. E poi, dal nulla, il suo telefono si mise a squillare.

«Shalom», disse Avram, rispondendo alla chiamata. Poté udire un lieve respiro e tre distinti clic prima che chiunque ci fosse all’altro capo interrompesse la telefonata. Mise a posto il ricevitore, il suo cuore galoppava, le mani iniziavano a sudare. Così era costretto a comunicare in questi giorni, da quando aveva scoperto che la sua sicurezza era compromessa. Andò in camera da letto, arrotolò il tappeto, sollevò una piastrella in terracotta che rivelò una cassaforte in acciaio incassata nel pavimento. Compose il codice sulla tastiera, aprì lo sportello, estrasse il piccolo portatile, il modem satellitare e le due chiavi di sicurezza, e portò tutto su per le scale di legno che raggiungevano la terrazza sopra la casa.

Il pomeriggio era limpido e ferocemente caldo, rendeva ancora più pungente l’odore proveniente da tutti i tubi della Città Vecchia danneggiati dal terremoto e non ancora riparati. Si sedette con la schiena poggiata al basso muro perimetrale e puntò il modem verso nord. Con la coda dell’occhio poteva vedere la Cupola della Roccia troneggiare su tutta la Città Vecchia di Gerusalemme come un tronfio rospo dorato. Ma non distolse lo sguardo. Aveva scelto questa casa proprio per quella vista, sapeva che avrebbe agito su di lui come sprone.

Tremila anni prima, Re Salomone aveva costruito il suo tempio su quella montagna sacra. I babilonesi lo avevano raso al suolo circa quattrocento anni dopo, ma Ciro ne aveva autorizzato la ricostruzione e poi Erode l’aveva arricchito e ampliato. Nel 70 d.C., i romani lo avevano distrutto ancora, per punire le rivolte dei giudei. Poi giunsero i mussulmani. Ben sapendo che quello era il luogo più sacro del giudaismo, nel 691 Abd al-Malik ci fece costruire sopra la sua disgraziata cupola. E lì era sempre rimasta da allora, una spina dorata nel cuore di ogni ebreo.

Molti anni prima, Avram aveva dedicato la sua vita a rimuovere quella spina. Ma col tempo aveva capito che distruggere la cupola non sarebbe stato abbastanza. L’opinione mondiale si sarebbe indignata; i codardi leader di Israele avrebbero ceduto alle pressioni per ricostruirla. E quello sarebbe stato un sacrilegio ben peggiore! Non soltanto una cupola, ma una cupola innalzata da ebrei. Era quindi giunto alla conclusione che la distruzione doveva essere tale da non permettere la ricostruzione e portare all’edificazione di un nuovo, Terzo Tempio: in questo modo la Terra Promessa sarebbe stata loro per sempre.

Il modem satellitare finalmente trovò il segnale. Digitò i codici copiandoli dalle sue chiavi di sicurezza per effettuare le chiamate. «Hai trovato le carte», disse appena Croke fu in linea. «Non ti avevo forse detto che le avresti trovate?»

«Ti ho appena inviato per email le fotografie», disse Croke. «Controlla il fondo del sesto allegato e richiamami». I file si aprivano con snervante lentezza sullo schermo di Avram, che come sfondo aveva una cortigiana velata. Riuscì a resistere all’impulso di schiaffeggiare il portatile. Ma alla fine la pagina apparve.

Ricevuto da E.A.
12 pannelli lisci e blocchi LA, 2 rotoli di lino
S T S, C Z D, L A A, G O D
Carte J.D. J.T.
Al termine, E.A. chiede che tutto sia ben celato nella SALOMANS HOUSE

Qualcosa gli bagnò il polso. Guardò in alto, aspettandosi di trovare delle nuvole, appena apparse, ma il cielo era ancora di un azzurro impossibile, e capì che stava piangendo. Si alzò e cominciò a percorrere la terrazza a grandi passi, ora le lacrime sgorgavano abbondanti sulle guance rugose. Si fermò, mostrò il pugno al Monte del Tempio, agli operai che come insetti si affannavano inutilmente a riparare i danni del terremoto. Solo adesso poteva ammettere, anche a se stesso, che la sua fede aveva vacillato nell’ultimo anno, nonostante gli sforzi.

Mai più, giurò. Mai più.

Bisognava ristabilire le priorità. Il messaggio andava ancora interpretato. Conosceva intimamente gli studi di Newton sul Tanakh e sulla Cabala, i suoi scritti su antichi regni e il cubito sacro. Ma questi erano una cosa diversa. Doveva parlare con suo nipote.

«Jacob», disse, quando il ragazzo rispose al telefono. «Sono io. Zio Avram».

«Zio? Sei tu?»

«Avevi ragione: le carte esistono. Le abbiamo appena trovate». Spiegò a Jakob tutta la storia e gli lesse il messaggio. «Ben celato nella Salomans House», gli fece eco Jakob, quando ebbe finito. «Quindi è là che la troveremo».

«Sì, di certo. Ma dov’è la Salomans House?»

«È qui», disse Jakob. «A Londra».

«Non capisco».

«Sir Francis Bacon. Scrisse un libro chiamato La nuova Atlantide. Lì compare la casa di Salomans: una sorta di prototipo di istituto di ricerca da cui trasse ispirazione in seguito la Royal Society. E stammi a sentire: Newton divenne il presidente proprio della Royal Society. E una delle sue decisioni più importanti fu quella di spostarla fuori dal Gresham College, in due edifici adiacenti in un posto chiamato Crane Court. Li fece sventrare e ricostruire su sue precise istruzioni».

«Ecco dov’è allora», disse Avram, un po’ spaesato. «Ce l’abbiamo fatta».

«Non è così semplice», lo frenò Jakob. «La Royal Society si trasferì da Crane Court nel 1780. E nessuno sa quali edifici occupi da allora».

«Qualcuno lo saprà», protesto Avram. «Te lo assicuro, zio», disse Jakob. «Ho provato io stesso a scoprirlo due anni fa. Ma l’indirizzo esatto non è registrato da nessuna parte, non ci sono targhe commemorative lì intorno e niente sul web. O almeno, niente di significativo. Ho impiegato giorni e giorni a cercare, te lo giuro».

«Che mi dici di vecchie mappe di Londra, elenchi delle vie della città?»

«Niente, quando viene riportato un indirizzo c’è scritto semplicemente “Royal Society, Crane Court”, mai un numero. Ho anche contattato direttamente la Royal Society, chiedendo di poter consultare i titoli di proprietà o qualche vecchio quaderno di conti, ma hanno portato tutti i documenti in qualche magazzino del Galles per risparmiare sui costi, per poi perdere tutto durante un’alluvione».

«Non ci credo, Jakob. Qualcuno deve saperlo».

«Mi spiace, zio. Non lo sanno. E anche se si trovasse il vecchio indirizzo, ed è impossibile, potrebbe non servire a molto. Crane Court è cambiata da allora. Alcuni edifici sono stati demoliti, altri sono stati assemblati, altri ancora sono diventati uffici, ristoranti o complessi di appartamenti. Anche se conoscessimo il numero civico del tempo, quasi sicuramente non sarebbe più là».

«Lo troveremo», insistette Avram. «È destino. E quando lo troveremo, sarai tu a doverlo portare qui, personalmente. Sei pronto? Hai tutto quello che ti occorre?»

«Sì, zio».

«Dovrai organizzarti con i tuoi amici. Io sarò troppo occupato».

«Come desideri, zio».

«Shalom, Jakob. A Gerusalemme, allora. Sarà bello rivederti». Riagganciò, chiamò ancora una volta Croke, aggiornandolo su quello che aveva scoperto. Croke grugnì di delusione. «Questo non va bene», disse. «Ma posso farci lavorare i miei uomini di Londra settimana prossima, vediamo se tuo nipote ha ragione…».

«No», disse Avram. «Non possiamo aspettare. Aver trovato le carte proprio oggi non è una coincidenza. È un segno. Dopodomani è il 7 giugno. È il giorno esatto in cui la mia gente riconquistò Gerusalemme dai mussulmani». La sua mente vacillò un momento, riportandolo a quasi cinquant’anni prima, quando, giovane soldato di leva, era rimasto in piedi fuori dalla Porta d’Oro a fissare stupefatto il Monte del Tempio, aspettando i bulldozer che per qualche inspiegabile ragione non erano mai arrivati. «È il 49° anniversario. La data che predisse il profeta Daniele. La data esatta».

«Mi dispiace. Ci sono troppe cose da sistemare per martedì. Devi capirlo».

«Non martedì. Lunedì».

«Ma hai appena detto…».

«Il giorno ebraico comincia e finisce al tramonto. Avremo bisogno dell’oscurità per compiere il nostro attacco. Questo significa necessariamente domani notte. La gente inizierà a svegliarsi al primo richiamo alla preghiera, intorno alle tre, ovvero all’una di notte a Londra. Dovremo aver già preso possesso della Cupola per quell’ora. E non darò l’ordine di attaccare se non saprò che sta già arrivando. Perciò hai un massimo di trenta ore per trovarlo e metterlo in volo».

«Trenta ore? È impossibile».

«È possibile. Deve esserlo».

«Io non capisco», protestò Croke. «Perché devi proprio prendere possesso della Cupola? Perché non tirarla giù direttamente con quei Predator che ti ho procurato?».

Avram sospirò. Era come parlare a un sasso certe volte. «Sai come si chiama?», chiese. Croke sembrò perplesso. «Intendi la Cupola?»

«No, intendo la Cupola della Roccia. La roccia che noi ebrei conosciamo come la Pietra della Fondazione. La stessa Pietra della Fondazione dalla quale Adamo stesso fu creato dal Signore, benedetto il Suo Nome. La stessa Pietra della Fondazione sulla quale Abramo offrì suo figlio Isacco in sacrificio. La stessa Pietra della Fondazione sulla quale, per centinaia di anni, il Sancta Sanctorum ospitò l’Arca dell’Alleanza. L’ombelico del mondo, il luogo dove il cielo incontra la terra, il luogo più sacro di tutta la Creazione. E tu mi dici di lanciargli contro i missili?»

«Ah», disse Croke.

«Sì», fece Avram. «Ah».

«Quindi per cosa ti servivano quei Predator?», domandò Croke. «Sai quanto è stato difficile metterci le mani sopra?»

«Accendi la televisione domani notte. Lo vedrai da te».

«Non lo so», disse Croke. «Non credo che ci basterà il tempo».

«Ma ci riusciremo», insistette Avram. «Il Signore, benedetto il Suo Nome, mette duramente alla prova i Suoi servi, ma non chiede mai l’impossibile. Deve esserci un modo. Trovalo, amico mio. Trovalo e tutti e due avremo quello che vogliamo».