VENTOTTO

I

Luke chiamò Jay da una cabina vicina alla stazione della metro. «Non è il Monumento», gli disse. «È la cattedrale di Saint Paul. A quanto pare c’è un’iscrizione su Wren: “Lettore, se vuoi vedere il suo monumento, guardati intorno”».

«Oh», disse Jay. «Sì».

«Ci stiamo andando adesso. Non volevo ti preoccupassi. A più tardi, ok?». Mise giù il telefono e si affrettò con Rachel lungo Cannon Street, schivando i ritardatari, provati dai postumi del weekend e dalla depressione del lunedì. Passarono il fianco meridionale del sagrato di Saint Paul e salirono i gradini d’ingresso. Una coppia di insegnanti francesi stava combattendo per raggruppare un gran numero di alunni indisciplinati, così Luke e Rachel affrettarono il passo senza parlarsi, non volendo restare intrappolati dietro di loro, solo per trovarsi davanti a quattro agenti di polizia vicino all’ingresso principale, gonfiati dalle protezioni, con armi automatiche appese di traverso sul petto. All’improvviso i ricordi della notte prima e la paura di un’imboscata li colpirono contemporaneamente, ma riuscirono a darsi un contegno e la polizia diede loro appena un’occhiata.

Ci volle qualche istante perché gli occhi di Luke si abituassero all’oscurità una volta dentro la grande cattedrale e mettessero a fuoco il celebre luogo. L’organista e il coro esplosero in alcune gloriose battute nel momento in cui loro compravano i biglietti, provando Händel per qualche successiva funzione. Camminando lungo la navata principale, il loro sguardo era irresistibilmente attirato verso l’alto, catturato dalla maestosa cupola e dalle scene bibliche riccamente dipinte, dalle statue dal volto severo dei profeti attorno alla sua base e dalla vertiginosa galleria dorata al suo apice. E la sua dimensione. Fotografie e ricordi non potevano sperare di renderle giustizia. E tutto si reggeva su sedici colonne a distanza regolare che creavano una sorta di santuario interno, dove sedie di legno erano state disposte in cerchi concentrici intorno al vasto mosaico di marmo del pavimento, una costellazione di trentadue punti attorno a un disco di ottone lucente. E, attorno al bordo, proprio come aveva detto Rachel, un’iscrizione in latino.

Lector Si Monumentum Requiris Circumspice

La fissarono per qualche istante, quasi aspettandosi che l’illuminazione discendesse su loro come lo Spirito Santo. Così non fu. Rachel sospirò. «È una causa persa, vero?», disse. «Non abbiamo speranza».

«Se fosse stato facile, qualcuno l’avrebbe già trovata».

«Forse l’hanno trovata. Forse l’hanno trovata secoli fa».

Lui scosse la testa. «Quelli di ieri notte non la pensavano così».

«No».

«Allora, supponiamo che sappiano quello che fanno. Supponiamo che ulteriori progressi siano impossibili. Supponiamo che ci manchi qualcosa».

«Tipo cosa?».

Le rivolse uno sguardo ironico del tipo. “Se lo sapessi…”. «Che mi dici di John Evelyn?», disse.

«Cosa ti devo dire?», domandò lei.

«C’erano quatto persone sui muri di quella camera. Conosciamo il ruolo di Ashmole: acquisì le carte e altre cose da Dee e dai Tradescants che poi lasciò a Newton. E presumibilmente fu lui a volere la camera sotto l’Ashmolean. Conosciamo il ruolo di Newton. Ashmole aveva bisogno che lui portasse a termine e poi nascondesse qualunque cosa sia quella che stiamo cercando. E conosciamo il ruolo di Wren. Forse progettò la camera all’Ashmolean. Sicuramente progettò questo posto. E collega tutti gli altri. Ma cosa sappiamo di Evelyn? Come si è guadagnato il suo posto in lista?»

«Forse era lui il cervello dietro a tutto».

«Certo», disse Luke. «Perché è proprio quello che manca a un gruppetto con Newton e Wren: il cervello».

Rachel rise comprensiva. «Va bene. Cervello è la parola sbagliata. Guida. Visione. Spinta. In qualunque modo vuoi chiamarla. Voglio dire, le sue grandi passioni non erano l’orticoltura e l’urbanistica?»

«Quindi?»

«Non lo so. Progettare parchi, piantare ghiande, combattere l’inquinamento. Forse lo sto idealizzando, ma sembra il tipo di persona per cui un risultato a lungo termine conta più che vedersene riconosciuto il merito».

«Un’eminenza grigia», disse Luke. «Ci posso credere. Ma dove ci porta?»

«Tu ti interrogavi sul suo ruolo», disse Rachel. «Questa è la mia teoria. Mai detto che ci avrebbe portati da qualche parte».

Luke guardò in alto. La luce del giorno inondava lo spazio attraverso i vetri delle finestre che circondavano la base della cupola. L’organista riprese, poi si unì il coro, in un crescendo di suoni gioiosi; provò una lieve vertigine, come un formicolio, davanti alla vastità e alla gloria di quel luogo, unita all’ammirazione per il coraggio e l’abilità di muratori e falegnami e pittori che avevano rischiato le loro vite su precarie impalcature di legno, a un passo falso da morte certa. Il peso di tutto questo. Era inimmaginabile. E tutto si poggiava su questo anello di sedici sottili colonne. Ma a un tratto si accigliò. Le colonne non erano veramente disposte ad anello, dopotutto, ma piuttosto in otto coppie. Un ottagono che sorreggeva una cupola; rabbrividì davanti allo spettro di un’idea. Ma Rachel toccò il suo avambraccio e tutto svanì.

«Andiamo di sopra», disse.

«Sopra?».

Rachel guardò la cupola in alto. «“Come sopra splende”». Poi fece un cenno al disco d’ottone nel pavimento. «“Così sotto splende”. La cupola viene chiamata anche “la grande lanterna”, giusto?»

«Questo posto aveva bisogno di luce», disse Luke. «Non si poteva certo premere un interruttore».

«Lo so», disse lei. «Ma anche così. È una pista, no? Qualcosa su cui indagare».

Luke esitò. Più a lungo rimanevano lì, più grande era il rischio che quegli uomini si rimettessero sulle loro tracce, e lo sapeva. Eppure il bisogno di scoprire la verità si dimostrò più forte della cautela. «Facciamolo», disse.

II

Jay Cowan continuava a provare il numero di telefono dello zio, ma lo zio non rispondeva e lui non poteva aspettare per sempre. Mise giù il telefono ancora una volta e andò a mettersi al centro del suo soggiorno. Si strinse leggermente le mani dietro alla schiena e fissò intensamente il muro. Fare questo, in qualche modo, lo aiutava a liberare la mente quando doveva prendere delle decisioni.

Jay sapeva di non assomigliare molto alle altre persone. C’erano voluti molti anni per venire a patti con questa consapevolezza, ma ora lo accettava. Suo zio Avram gli aveva spiegato che era speciale. Essere speciale significava portare speciali fardelli, ma significava anche godere di speciali doni. Più di ogni altra cosa, significava avere uno scopo, perché quale altra ragione c’è nel fare qualcosa di speciale? Suo zio gli aveva mostrato qual era il suo scopo e lui lo aveva accolto con tutto il suo cuore. Ora dipendeva da lui farlo accadere, anche se voleva dire allearsi con persone che non gli interessavano, persone come Vernon Croke. Anche se, nei fatti, voleva dire tradire amici come Luke o la donna, Rachel. Perché a Jay era piaciuta molto Rachel. Era stata gentile e carina, e gli aveva sorriso ed era stata dentro casa sua. Non molte belle donne avevano sorriso a Jay, o erano state dentro casa sua.

Forse un giorno si sarebbero sposati. Era possibile.

Jay sapeva molto bene che non c’era niente nella camera del Monumento di Londra. Al contrario di quanto aveva raccontato loro, c’era stato due volte. Li aveva mandati là nella speranza di tenerli fuori dai piedi e al sicuro. Sfortunatamente, avevano avuto la giusta intuizione da soli ed erano già nella cattedrale a quel punto. Dire a Croke quello che aveva capito li avrebbe inevitabilmente messi in pericolo. Ma non dirglielo avrebbe potuto danneggiare la missione di suo zio; una missione a cui Jay si era dedicato personalmente perché riuscisse.

Era davanti a quello che si dice un dilemma.

I suoi occhi si strinsero. Le labbra si serrarono. La missione di una vita, se significava qualcosa, doveva avere la precedenza sull’amicizia, anche sull’amicizia con la donna che alla fine avrebbe sposato. E poi non era come se non avesse voce in capitolo in questo affare. Aveva il potere di proteggerli. Infatti, proteggendo Rachel, le avrebbe dimostrato di essere alla sua altezza, rendendo molto più probabile una loro eventuale unione.

Andò verso la sua scrivania. Prese il telefono e fece la chiamata.

III

Curiosità e dignità avevano combattuto come angeli rivali per l’anima di Croke all’invito di calarsi con la corda per vedere di persona quello che la camera sotterranea conteneva. Aveva vinto la dignità.

Guardò le immagini dallo schermo di un portatile. Il passaggio. La camera stessa. Nessun segno, da nessuna parte. Non che si fosse aspettato diversamente, non dopo aver visto il plinto vuoto. Eppure fu un’altra bella batosta. E il tempo si stava esaurendo in fretta.

Il suo cellulare suonò. Il nipote di Avram Kohen, Jakob. Quello che li aveva mandati là. «Cosa vuoi?», domandò secco.

«So dove si trova», disse Jakob. «So esattamente dove si trova».

«È quello che hai detto l’ultima volta».

«No. Ho solo detto che aveva senso. Questa volta sono sicuro».

«Dimmi, allora. Dove?»

«Voglio prima la tua parola su una cosa. Luke Hayward e Rachel Parkes sono miei amici. Non dovete fargli del male».

Croke aggrottò la fronte. Ecco dov’erano andati da Victoria Station. A trovare Kohen. «Bene», disse. «Hai la mia parola. Noi non gli faremo del male. Adesso, dove si trova?». Ascoltò mentre Kohen parlava. «Sei davvero sicuro?», domandò, quando ebbe finito. «Ci hai già indirizzati male due volte».

«Sono sicuro», disse Kohen. E si lanciò in una confusa spiegazione sulla camera sotto i piedi di Croke, su cifre, ancore di ferro e funerali di stato.

«Va bene», disse Croke, tagliando corto. «Daremo un’occhiata. Se la troviamo, tu verrai con noi, giusto?»

«Sì».

«Tuo zio ha detto qualcosa sul materiale. Tutto quello che ti serve sarà al City Airport per metà pomeriggio». Gli diede i dettagli per contattare il suo pilota Craig Bray, poi terminò la chiamata e si fermò a ragionare sul prossimo passo. Provò prima con Walters. «Te lo dicevo che sarebbero usciti allo scoperto», gli disse quando Walters rispose.

«Dove?»

«La cattedrale di Saint Paul. Ma stammi a sentire: ho dato la mia parola a Kohen che non gli sarebbe successo niente di male. Non per mano nostra. E abbiamo bisogno di averlo dalla nostra parte, almeno per ora. Quindi, se deve capitar loro qualcosa, non deve sembrare che siamo stati noi».

«Capisco, capo. Lasci fare a me».

Croke andò verso il pozzo, lanciò un grido a Morgenstern. L’agente dell’NTC risalì atleticamente fino in cima. «Ho appena ricevuto una chiamata», gli disse Croke, conducendolo verso un angolo appartato. «Sembra che alla fine si trovi a Londra».

«Ma che cazzo!», aggrottò la fronte Morgenstern. «In quanti altri vicoli ciechi ci dobbiamo ancora cacciare».

«Questo non è stato un vicolo cieco», disse Croke. «Questo posto è stato costruito per contenerla; semplicemente poi hanno trovato qualcosa di meglio. E adesso sappiamo che posto è».

«Dove?»

«La cattedrale di Saint Paul».

«Impossibile. Assolutamente impossibile, cazzo. È chilometri oltre la mia autorità».

«La sua autorità deriva dal suo comandante in capo», disse Croke. «Sta pensando di non utilizzarla?».

Morgenstern strinse i denti, riportò la rabbia sotto controllo. «Non funziona così», disse. «Lo farei se potessi. Ma non posso. Semplicemente non posso. Non ho quel tipo di potere. Crane Court era una cosa diversa. Potevo gestirla di mia iniziativa e, solo poi, dare spiegazioni. Ma Saint Paul è una cosa diversa. Avremo bisogno di una esplicita approvazione dal ministero. E vorranno incontrarci di persona. Con delle prove. Prove circostanziate. Non qualche misteriosa fonte fantasma».

«Il mio informatore mi ha appena assicurato che i terroristi di Crane Court hanno messo una bomba sporca nella cripta della cattedrale di Saint Paul. Domani sera ci sarà una cerimonia di stato, alla quale il primo ministro, il suo gabinetto e l’intera famiglia reale saranno ospiti d’onore. Mi sta davvero dicendo che è pronto a lasciare che la cerimonia abbia luogo senza prima verificare la sicurezza del sito?».

Morgenstern annuì, capendo come avrebbe potuto far funzionare la cosa. «Un attacco alla famiglia reale», disse. «Al governo britannico. Alla democrazia stessa. Non possiamo assolutamente rischiare».

«No», disse Croke. «Non possiamo».