TRENTUNO

I

C’era una galleria con l’organo e una passerella sul retro del triforio che permetteva il passaggio da una parte all’altra della cattedrale senza dover tornare al piano inferiore. A quasi trenta metri d’altezza sopra il pavimento, offriva una vista magnifica, dalla navata centrale fino all’altare; senza dubbio questo era il motivo per cui stavano montando lì il necessario per le riprese televisive, proprio mentre passavano, e il perché due donne pulivano il pavimento, mentre un’altra passava la cera sulla ringhiera nera e oro della balconata.

«Il nostro povero decano sta avendo gli incubi», confidò loro Trevor. «Crede che il mondo intero ci guarderà domani sera, e riderà delle nostre povere pietre».

«Deve essere stressante», disse Rachel, «organizzare un evento del genere».

Raggiunsero il lato più lontano. Diversi progetti architettonici erano appesi lungo il muro. Trevor li guidò al quarto, una vista in pianta della cattedrale. «Li vedete questi?», disse, indicando un numero di cerchi. «Sono aree d’apertura progettate per richiamare la cupola principale. Tre su ogni fianco con un’altra fila centrale che corre fino al centro. Eccolo qui il vostro Albero della vita».

«Ci sono più di cinque cerchi sulla linea centrale», fece notare Luke.

«Mi avete chiesto cosa vi avrebbe detto il mio collega», replicò Trevor. «Questo è quanto. Come ho detto, la sua teoria è una sciocchezza».

«Lui come spiegherebbe la discrepanza?», domandò Rachel.

Trevor sospirò. «Wren aveva meno controllo sui suoi progetti di quanto la gente creda. Il decano e il re gli imposero innumerevoli modifiche. Dovette cambiare tutto, tranne la cupola stessa. Quella c’è in ogni progetto».

Rachel aggrottò la fronte. «Wren fece più progetti di Saint Paul? Non lo avevo capito».

«Oh, sì. Quello in cui ci troviamo oggi è in realtà il suo quinto progetto, a seconda di come li si conti, non certo il suo preferito». Li condusse attraverso il corridoio, aprì una porta chiusa a chiave, li fece entrare in una grande stanza dominata da un enorme modello della cattedrale. «Questo è quello che chiamiamo il Warrant Design, quello che ottenne il mandato reale», disse Trevor. «Gli costò una piccola fortuna farlo realizzare. La commissione glielo fece semplificare parecchio».

«Ed era il preferito di Wren?»

«No. Lo preferiva a quello che abbiamo, ma il suo preferito era ancora più radicale. Saprete, naturalmente, che chiese e cattedrali tradizionalmente seguono il modello della croce latina, per richiamare la crocifissione. Wren decise invece di basare la sua pianta sulla croce greca, sostanzialmente un ottagono con i lati dentellati». Li condusse verso una cassettiera in legno di tasso, aprì uno dei grandi cassetti, controllò le etichette sulle cartelle all’interno e ne estrasse una. La mise in cima, sciolse il nodo di corda rossa che la chiudeva.

«Questi sono gli originali di Wren?», domandò Luke.

«Buon Dio, no. Non crederete mica che lascerei i primi venuti avvicinarsi agli originali. Ma sono antichi. E sono importanti. Quindi non si toccano». Aprì la cartella, estrasse un foglio, lo posizionò in cima. «Ecco qui. Un bell’ottagono, come vi dicevo».

«Lo adoro», disse Rachel.

«Anche il re lo adorava. Ma il decano no. A lui non bastava che sembrasse bello, vedete. Doveva anche essere funzionale. Una chiesa ha bisogno di un punto focale per le funzioni e i sermoni. Il punto focale di un ottagono è il suo centro. Ma questo significa avere i fedeli seduti attorno, lasciando molti senza la possibilità di vedere chiaramente, o anche sentire. Si potrebbe, ovviamente, posizionare l’altare contro un muro, ma questo negherebbe il senso stesso del progetto. E poi c’era l’acustica! Dio mio! Non fatemi cominciare con l’acustica!».

Luke annuì. «Strano che l’avesse anche solo proposto».

«Sì. Be’. Parigi era il centro delle mode architettoniche all’epoca. A Wren girò la testa per lo scompiglio che si creò attorno a una cappella borbonica progettata per Saint Denis. Nemmeno quella fu mai realizzata. Certi progetti funzionano meglio sulla carta. E le sfide tecniche sarebbero state enormi. Per accogliere lo stesso numero di persone, la cupola avrebbe dovuto essere ancora più grande di com’è ora. E pesa circa settantamila tonnellate così com’è. Settantamila tonnellate! E anche questo si è dimostrato troppo».

«Cosa intende dire?»

«I pilastri e le colonne iniziarono a incrinarsi e scoppiare per il peso. Si rovinarono al punto che Wren dovette rompere il pavimento della cripta e ancorarle insieme con enormi catene di ferro».

«Wren fece scavi nella cripta?», domandò Luke, dando un’occhiata a Rachel. «Quando?»

«Iniziarono a notare le fratture intorno al 1690, credo. Ma Wren lasciò passare anni, in diniego. Non poteva sopportare di ammettere l’errore. Inoltre, la soluzione più ovvia erano queste ancore in ferro che ho appena citato, eppure Wren aveva preso in giro altri architetti per questi espedienti. L’orgoglio è una cosa terribile, non è vero? Ma intorno al 1705, credo, la situazione peggiorò al punto che non ebbe più scelta. È ancora un argomento tabù tra gli ammiratori di Wren. Lui o i suoi discepoli misero in giro la voce che avesse tagliato il sistema di ancoraggio, solo per dimostrare che non era davvero necessario».

«Quale parte della cripta si trova sotto la cupola?», chiese Luke.

«La tomba di Nelson», disse Trevor, riponendo la cartella coi disegni al suo posto. «Deposero la bara attraverso un buco nel pavimento principale durante la funzione. Una cosa bella da vedere, ma francamente fin troppo macabra per i miei gusti. So che la morte non è il più gioioso degli eventi, ma preferisco comunque qualcosa di più lieve. Più terra terra, se perdonate la battuta. In effetti, perché dovreste?», aggiunse tetro. «È una battuta orribile».

«Ne ho fatte di peggiori», disse Luke.

«Molto gentile da parte sua dirlo, ma non credo davvero che sia possibile».

«Nelson non morì prima di altri cent’anni dal 1705», fece notare Rachel. «Cosa c’era nella cripta fino a quel momento?»

«Niente di che, per quanto ne so, oltre alla tomba dello stesso Wren. Divenne il posto dove essere seppelliti solo dopo la sepoltura di Nelson. Dopo tutti vollero stare lì».

«E la bara di Nelson?», chiese Luke. «È sopra o sotto il pavimento?»

«Sopra», disse Trevor. «Ma perché lo chiede?»

«Così», rispose Luke.

II

Avram imballò il vaso con le ceneri e lo sistemò al sicuro nel vano sotto il sedile del passeggero nel camion, poi congedò Shlomo e i suoi uomini e guidò in direzione sud-ovest, verso la costa. La schiena e le caviglie cominciavano a dolergli per la stanchezza accumulata alla guida, ma furono la mancanza di sonno, i fumi del motore e il calore della giornata a stenderlo davvero. Continuava a pizzicarsi la pelle del dorso della mano per tenersi sveglio.

Raggiunse Netanya in poco tempo, a ogni modo. Si fermò per mangiare qualcosa, poi continuò verso il magazzino. Digitò il codice sulla tastiera e la saracinesca di acciaio si alzò lentamente sferragliando. Parcheggiò all’interno, riabbassò la saracinesca, accese le luci. Il magazzino era pieno degli scarti di un centinaio di case sgomberate: vecchie lavatrici e frigoriferi, scatole di libri, tappeti arrotolati, letti e divani. Gli unici oggetti che sembravano fuori posto erano tre cassonetti dell’immondizia che aveva rubato diversi mesi prima dalle strade di Gerusalemme.

Controllò l’orologio: ancora mezz’ora all’arrivo di Danel. Tutto il tempo per telefonare a Croke. Sistemò il telefono satellitare all’esterno e si affrettò a eseguire i protocolli di sicurezza.

«Finalmente», grugnì Croke. «Cominciavo a credere che ti fossi sganciato».

«Sono stato occupato».

«Tutti siamo stati occupati».

«L’hai trovata, allora?».

Più un grugnito che una risata. «Come cazzo dovremmo trovarla se tu e quell’idiota di tuo nipote continuate a mandarci nel cazzo di posto sbagliato?». E mise al corrente Avram degli ultimi eventi, incluso il ritorno a Londra.

«La troverai», disse Avram, imperturbabile. «Ciò che è destino è destino».

«Forse. Ma siamo sul filo del rasoio. Peraltro, stiamo facendo delle riprese dal vivo per i nostri amici americani. Vuoi assistere anche tu?»

«Certo», disse Avram. «E deve esserci anche mio nipote».

«Vedrò cosa si può fare».

«No», disse Avram. «Deve esserci. E deve restargli accanto in ogni momento del viaggio».

«Come ho detto, vedrò cosa…».

«Non mi stai ascoltando», disse Avram. «So cosa si può fare con la tecnologia al giorno d’oggi. Conosco gli effetti speciali e le immagini generate al computer. So di scambi e di diversivi. Quindi, lasciami essere chiaro: non se ne fa niente a meno che mio nipote non la esamini con mia totale soddisfazione, e poi non la lasci mai, per tutto il tragitto. Hai capito?»

«Va bene», sospirò Croke. «Ci penso io».

Non c’era ancora alcun segno di Danel, così Avram si occupò di un’altra parte della questione. Creò un nuovo account con Hotmail sul suo portatile e riempì la lista contatti con gli indirizzi email di quanti più giornalisti, società di comunicazione, ambasciate e lobbisti riuscisse a trovare. Poi aprì un nuovo file di testo e lo riempì con due serie di richieste, controllando in internet i nomi dei prigionieri idonei per la prima, verificando il numero di matricola del jet di Croke per la seconda.

Aveva quasi finito quando Danel finalmente arrivò al volante di un minibus bianco. Avram gli diede il benvenuto. Si erano incontrati la prima volta quattro anni prima mentre girava per le colonie, predicando la costruzione del Terzo Tempio. Danel si era alzato durante il momento delle domande e aveva chiesto bruscamente perché così tanti ebrei parlavano di distruggere la Cupola, eppure non facevano mai niente. Una domanda piuttosto comune, ma mentre tutti gli altri avevano riso, Danel era rimasto serio, con un’espressione di pietra. Avram lo aveva fermato sulla porta, chiedendogli se lui fosse pronto per fare qualcosa a riguardo. Non lui soltanto, era venuto fuori, ma anche i suoi compagni coloni, furiosi per la recente demolizione delle loro case a Havat Gilad.

Scesero dal minibus, stiracchiandosi e camminando un poco. Dieci in tutto. In maglietta, pantaloncini, scarpe da ginnastica e occhiali da sole, non avrebbero potuto essere più diversi da Shlomo e dai suoi haredim. C’erano anche due donne con loro. Eppure, sebbene giovani e apparentemente improvvisati, erano dei veri duri, disciplinati e incredibilmente arrabbiati.

Avram li salutò con un cenno. «Mettiamoci sotto», disse. «Abbiamo del lavoro da fare».

III

Degli agenti di polizia stavano scendendo da tre furgoni fuori da Saint Paul mentre Walters e i suoi arrivarono sul posto. Non davano l’idea di un’azione imminente, a ogni modo, ma se ne stavano a chiacchierare fra loro, attendendo istruzioni.

«E ora che si fa?», domandò Kieran.

Walters si strinse nelle spalle. Braccare una persona era complicato nelle migliori condizioni. Braccarne due in un sito turistico circondati dalla polizia… Eppure bisognava sistemare Luke e Rachel se si presentava l’occasione. «Troviamoli prima, va bene?», disse, comprando i biglietti e facendo strada lungo la navata.

«E poi che facciamo?».

Walters fece un cenno in direzione della camera a sussurro che circondava la base della cupola a circa trenta metri sopra le loro teste. «Il capo e i suoi amici stanno per fare evacuare la cattedrale», disse. «Daranno l’ordine alla polizia di mettere in sicurezza il perimetro e farsi da parte fino all’arrivo di quelli dell’NTC. Significa che presto qui si svuoterà. Non sarebbe un vero peccato se un paio di persone si facessero prendere dal panico durante l’evacuazione, e si facessero un volo da lassù?»

«Con un po’ di fortuna potremmo davvero trovarli là sopra», disse Kieran.

«Chi ha parlato di fortuna?», chiese Walters. «Giochiamocela bene e andranno lassù di loro spontanea volontà. È solo questione di trovarli e presentarsi nella maniera giusta. Poi andranno dove vogliamo noi, da brave pecorelle».

Pete fece un ghigno. «Poi aspettiamo che il posto sia sgombero, e la facciamo finita».