VENTIDUE

I

Croke fu il primo a entrare dalla porta ormai demolita del museo, ma la squadra di ricerca e sicurezza dell’NTC se lo lasciò presto alle spalle. Quattro di loro salirono le scale, il resto corse di sotto, controllando tutte le porte che incontravano, gridandosi istruzioni l’uno con l’altro, accendendo le luci. Una voce dalle scale. Croke e Morgenstern corsero a vedere. Un uomo, piazzato, sulla trentina, e una donna dai capelli grigi erano seduti accanto alla scrivania di un piccolo ufficio. Pelham Redfern e Olivia Campbell, a giudicare dalla descrizione che gli era stata fornita. Stavano entrambi indossando delle cuffie collegate a un unico piccolo apparecchio, e tutti e due stavano facendo del loro meglio per sembrare sconvolti.

«Cosa succede?», protestò la donna, levandosi le cuffie, alzandosi in piedi. «Che succede? Chi siete voi?»

«Evitiamo le stronzate», disse Morgenstern. «Non siamo dell’umore».

«Cosa state facendo qui? Come siete entrati? Non mi avrete spaccato la porta?»

«Doveva rispondere quando abbiamo bussato».

«Non vi abbiamo sentiti». Tirò su le cuffie. «Come facevamo a sentirvi?».

Croke andò verso la scrivania, si portò le cuffie all’orecchio. Niente. Le diede un’occhiata storta. Lei schiacciò il tasto play e una donna iniziò a spiegare come produrre ossigeno per reazione chimica. «Le nostre nuove audioguide», disse. «Le stavo mostrando al signor Redfern. Stiamo organizzando una nuova mostra e dovremo registrarne una anche noi».

«Perché disturbarsi a usare le cuffie?», la schernì Morgenstern. «Chi non volevate disturbare?».

Lei prese l’apparecchio. «Questi cosi funzionano solo con le cuffie. Non possiamo lasciare che la gente li ascolti a tutto volume in giro per il museo, rovinerebbe la visita a tutti gli altri, o no?».

Per un istante, Croke se l’era quasi bevuta. Ma poi ricordò la telefonata interrotta, la figura che scrutava il vicolo. «Come no», la prese in giro. Si rivolse a Redfern. «Lei era a Cambridge oggi».

«Ed è contro la legge?»

«Ha dato un passaggio a due persone là. Un uomo e una donna».

«Il suo accento?», aggrottò la fronte Redfern. «È americano, vero? Credo che non si offenderà se le chiedo con quale autorità mi sta interrogando?».

Croke guardò Morgenstern e questi indicò la porta. Uscirono per una riunione bisbigliata. «Stanno mentendo», disse Croke. «Gli altri erano qui».

«Forse», disse Morgenstern, facendo un cenno al capo della sua squadra, che gli comunicava che il museo era stato perlustrato. «Ma non sono qui adesso».

«Questi due sanno dove sono andati. Dobbiamo farglielo dire».

Morgenstern scrollò la testa. «Se ho capito cosa intende, se lo scordi. Gli inglesi sono troppo schizzinosi. Specialmente se la donna è davvero la curatrice di questo posto e afferma che Redfern è suo ospite».

«Allora cosa facciamo?»

«Possiamo mettergli pressione. Accusarli di ostacolare la giustizia, favoreggiamento in un caso di omicidio. Non sono dei duri. Molleranno abbastanza in fretta».

Croke scosse la testa. «Non voglio che entrino nel sistema. Non posso rischiare che parlino con degli avvocati».

Morgenstern annuì. «Posso farli portare a Birmingham per l’interrogatorio. Poi posso farli trasferire a Londra. Possiamo farli rimbalzare in giro per almeno ventiquattr’ore».

«Bene. Lo faccia».

Un agente dell’NTC si avvicinò, tenendo in mano dei vestiti da donna coperti di polvere. «Ho trovato questi nel bagno, signore», disse.

Morgenstern e Croke si scambiarono un’occhiata. Corrispondevano a quello che indossava Rachel Parkes. E gli schizzi d’acqua sulla camicetta indicavano che era stata lì fino a poco prima.

«Come cazzo sono usciti?», si accigliò Croke.

«Non lo so».

«Non possono essere andati lontano. Voglio tutti gli uomini disponibili fuori a cercarli. Fagli controllare le stazioni dei treni e degli autobus. Compagnie di taxi. E fagli cercare una coppia».

Morgenstern fece trasmettere gli ordini, poi si diressero insieme al piano inferiore nel seminterrato dove due dell’NTC stavano scansionando il pavimento con i georadar. «C’è qualcosa qui sotto», disse uno. «Una camera di qualche tipo e del metallo. Sicuramente ferro e so che può sembrare assurdo, ma forse anche oro».

«Non è assurdo. Come ci arriviamo?».

L’uomo fece una smorfia. «Non sarà facile. È a una profondità di almeno tre metri. Avremo bisogno dell’attrezzatura per tagliare e sollevare. Se faccio richiesta adesso, dovremmo avere tutto qui per domani mattina. Se va tutto bene, possiamo tagliare il pavimento domani pomeriggio sul presto».

Morgenstern guardò Croke. «Per lei va bene?».

Croke fece una smorfia. Per rispettare la scadenza di Avram, avrebbe dovuto lasciare il City Airport non più tardi della mezzanotte del giorno dopo. Lasciando qualche ora per il trasporto, e per le inevitabili stronzate che potevano capitare, i tempi erano davvero strettissimi. «Può andare se è qui sotto», disse. «Ma se poi non è qui?»

«Potremmo dare un’occhiata prima, se vuole», disse l’uomo.

«Come?».

Mise la mano su una delle teche. «Per prima cosa spostiamo questi affari», disse. Si chinò e toccò il punto in cui le gambe erano imbullonate al pavimento. «Poi trapaniamo qui sotto. Un buco di piccolo diametro giù fino alla camera». Disegnò un cerchio con l’indice e il pollice. «Dovrà essere più o meno largo così per il rapporto larghezza-profondità. Una volta fatto il buco, caliamo giù un endoscopio. Sapete cosa sono gli endoscopi, no? Telecamere in miniatura con illuminazione e fish-eye integrati alla fine di un lungo cavo in fibra ottica, come quelli che ti infilano su per il culo quando ti fanno…».

«So cos’è un endoscopio», lo rassicurò Croke.

«Li usiamo tantissimo per la sorveglianza», disse l’uomo. «Ci mostreranno tutto là sotto. Se poi vorrete ancora, avremo tempo di tirare su il pavimento. Se no, tiriamo su l’endoscopio, tappiamo il buco con lo stucco, imbulloniamo la teca al suo posto. Nessuno si accorgerà mai di niente».

«Avete tutto quello che vi serve?», chiese Morgenstern.

L’uomo si strinse nelle spalle. «Abbiamo un trapano nel furgone, ma non è abbastanza lungo. E non abbiamo abbastanza cavo per il nostro endoscopio. Questo è un lavoro molto insolito. Ma possiamo cominciare subito e farci portare quello di cui abbiamo bisogno in un paio d’ore. Così potremmo dare una prima occhiata intorno all’alba. Comunque prima dell’alba non possiamo sperare di avere qui l’attrezzatura pesante».

Croke guardò Morgenstern. «Quando apre questo posto domani?»

«Non apre. Non di lunedì. Tutto nostro, per tutto il giorno».

«Ok», disse Croke. «Facciamolo».

II

Luke e Rachel tornarono alla camera, pensando che sarebbe stato più probabile sentirli se fossero rimasti vicino alla tromba del pozzo. Spensero la lampada per risparmiare la batteria, e sedettero al buio appoggiando la schiena alla Tavola di smeraldo.

«Allora, come mai Newton?», chiese Rachel.

Luke si strinse nelle spalle. «Ha catturato la mia immaginazione, credo».

«Stai scrivendo una biografia su quell’uomo», lo stuzzicò lei. «Ti servirà qualcosa di meglio per la fascetta del libro».

Luke rise. «Ok. C’è questa storia che ho sentito la prima volta da ragazzino. È una specie di fantasia da nerd. So che lo troverai difficile da credere, ma ero un po’ nerd anch’io a quel tempo».

Rachel si finse sconvolta. «No. Non mi dire».

«Era il 1697 o una cosa così. Newton stava avendo una disputa piuttosto spiacevole con Leibniz su chi avesse inventato il calcolo. L’avevano inventato entrambi, come succede a volte, ma entrambi erano convinti che l’altro gli avesse rubato l’idea. In Gran Bretagna si sosteneva Newton. In Europa Leibniz. Un amico di Leibniz, uno svizzero-italiano, tale Johann Bernoulli, si inventò un paio di rompicapi matematici che si dimostrarono troppo ostici per le teste europee, così se ne uscì con un piano diabolico. Li mandò a Newton, sperando che anche lui fallisse, distruggendo la sua reputazione di genio. Newton li ricevette il giorno successivo presso la Royal Mint. La mattina seguente rispedì le soluzioni alla Royal Society. Le pubblicarono anonime, ma tutti sapevano chi c’era dietro. Anche Bernoulli. Sai cosa disse? Disse: “Puoi riconoscere il leone dalla sua zampata”. Me ne innamorai. Sognavo a occhi aperti che qualcuno lo dicesse di me. Considera che avevo dieci anni all’epoca». Rise e piegò la testa da un lato. «È il tuo turno», disse. «Come mai archeologia?».

Rachel sospirò. «Non lo so. Credo che significasse qualcosa in quel momento». La domanda sembrava averla resa inquieta. Si alzò e accese la lampada, fece il giro delle pareti.

«Ti dona il tweed», le disse Luke, quando tornò indietro. «Saresti un’ottima professoressa».

«Prude che non ne hai un’idea», disse lei. Il suo sguardo scivolò da lui alla Tavola di Smeraldo che aveva alle spalle, e poi si corrucciò. «E questa?», mormorò, più a se stessa che a Luke. «Un acrostico».

Si girò per leggere la prima lettera di ogni riga. «Balinus?», aggrottò la fronte.

Lei fece segno di sì. «È come gli Harraniani chiamavano Apollonio di Tiana».

«Se serviva a chiarirmi le cose», disse Luke, «potresti fare un altro tentativo, sai».

«Apollonio era un sant’uomo turco dello stesso periodo di Gesù. Trovammo molti oggetti del suo culto durante il nostro scavo ad Antiochia. Uno dei miei colleghi su quel sito è l’autorità in materia».

«E che ci fa qui il suo nome?»

«Gli Harraniani vivevano nel sud della Turchia, proprio sulla traiettoria della conquista islamica. Ma gli fu consentito mantenere la loro religione, che sembrava essere quasi di natura alchemica. I loro testi sacri erano gli Hermetica, che è il motivo per cui sono arrivati fino al Rinascimento, ed è il motivo per cui Newton dovette tradurli dall’arabo invece che dall’egiziano, dal greco o dal latino. E questo è il punto: loro adoravano questo Balinus o Apollonio per aver portato in salvo la Tavola di smeraldo prima di loro. Era uno dei loro eroi».

«Perciò la nostra cabala, qui, decise di onorarlo», disse Luke. «Ma perché usare un acrostico? Perché non scrivere semplicemente il suo nome?»

«Perché quella di Apollonio fu una figura molto controversa, specialmente fra i cristiani. Un bambino maschio la cui nascita fu annunciata da esseri celestiali, che accolse povertà e celibato, che girava ovunque scalzo e si rifiutava di mangiare carne. Un grande maestro morale che guariva gli ammalati, resuscitava i morti, esorcizzava demoni e prediceva il futuro. Messo a morte dai romani ma che invece ascende al cielo».

«Apollonio?»

«Il che lo rende piuttosto problematico per i cristiani che predicavano l’unicità della gloria di Gesù», disse Rachel. «Eppure mi sorprende che Newton fosse un suo fan. Ho sempre creduto che fosse un cristiano devoto».

«Lo era», Luke assicurò. «Ma un cristiano molto idiosincratico. Credeva negli insegnamenti di Gesù, ma non lo credeva Dio. Quella era la sua eresia più grande. Disprezzava la dottrina della Trinità, e di conseguenza disprezzava la Chiesa cattolica che la diffondeva nel mondo».

«E che mi dici degli altri?».

Luke scrollò la testa. «Tutti abbastanza convenzionali, per quello che so. Ma bisognava esserci. L’antitrinitarismo era un crimine grave. Alla meglio, significava la morte sociale e professionale. Un antitrinitario non avrebbe mai potuto ricostruire Saint Paul, per esempio».

«Saint Paul», mormorò Rachel. «Sì, certo».

«Certo cosa?»

«Qui». Fece cenno a Luke di avvicinarsi all’altro lato del plinto e di chinarsi davanti alla seconda iscrizione. «Apollonio non era un problema per i cristiani solo per le similitudini con Gesù. Era ancora più vicino a San Paolo. Il nome Apollonio viene da Apollo, che è abbastanza facile da confondere con Paolo. Era nato nel sud della Turchia, circa trenta miglia a nord di Tarso, da dove veniva San Paolo. E studiò proprio a Tarso per tutta l’adolescenza. Quindi in pratica abbiamo questi due uomini con nomi simili, nati nello stesso periodo e nello stesso luogo, entrambi diventati predicatori itineranti, famosi per le lettere sulla morale che scrissero ai cittadini delle principali città del Mediterraneo. Entrambi ebbero incontri con animali selvatici a Efeso. Entrambi scrissero di sacrifici e rituali. Ed entrambi furono cittadini romani che fecero arrabbiare l’imperatore e furono condannati a morte».

«Stai dicendo che erano la stessa persona?».

Rachel alzò le spalle. «Tantissime persone l’hanno creduto nei secoli. Forse anche i nostri amici lo credevano. Tu che ne pensi? Avrebbero potuto credere che San Paolo fosse Balinus, il misterioso alchimista che salvò la Tavola di smeraldo?»

«Non posso parlare per tutti», disse Luke. «Ma Newton, sicuramente. Non pensava ai profeti come mistici ispirati da rivelazioni divine, come credevano gli altri. Pensava a loro come a uomini immensamente intelligenti e istruiti, maestri non solo della religione, ma anche della matematica, dell’astronomia, dell’alchimia e di tutte le altre discipline che fanno parte della filosofia naturale. Perciò Mosè, Enoch, Elia, Ermete Trismegisto, Salomone e tutti gli altri erano grandi alchimisti per definizione. Era quello a cui Newton aspirava per sé, quindi avrebbe perfettamente senso che pensasse lo stesso di San Paolo. Specialmente perché fu una figura molto apprezzata dagli alchimisti».

«In che senso?»

«Conosci il “mito” di Gesù, vero? L’idea che Gesù non sia mai nemmeno esistito».

«E allora?»

«Molto di questa idea deriva da San Paolo, perché notoriamente non scrisse mai molto su Gesù come uomo, ma solo su Cristo come forza spirituale. E scrisse una cosa molto particolare in una lettera ai Corinzi, sui seguaci di Mosè che si abbeveravano alla “roccia spirituale che seguiva”, e la roccia era Cristo. Alcuni alchimisti interpretarono quel passaggio come se lo stesso Gesù in qualche modo fosse la pietra filosofale. Alcuni credettero anche che, se avessero trovato la pietra filosofale, avrebbero potuto accelerare la Seconda Venuta».

Rachel guardò le facce sulle pareti. «Cosa stavano cercando di fare?».

Un ronzio sordo risuonò prima che Luke potesse rispondere. La polvere, scossa dalle pareti e dal soffitto, iniziò a vorticare alla luce della lampada. Guardò angosciato verso l’alto. «Questo è un trapano», disse. «Vogliono arrivare qui da quello che per loro è il pavimento, ma per noi… il soffitto».