VENTICINQUE

I

Dopo tutta la premessa di Luke, Rachel rimase un po’ delusa da Jay Cowan. Si aspettava che ci fosse qualcosa di evidentemente diverso in lui, ma non sarebbe potuto sembrare più normale: magro, ordinato e complessivamente discreto. Aveva comunque un modo obliquo di relazionarsi, non gli stava mai di fronte, o non li guardava mai direttamente negli occhi. Era anche calmo in modo innaturale, come se una volta qualcuno gli avesse detto di smetterla di agitarsi e lui l’avesse preso fin troppo alla lettera. E mentre la maglietta verde, i pantaloni neri a sigaretta e gli scarponcini marroni erano normalissimi presi singolarmente, stavano malissimo tutti insieme. Non ordinari, più come se facessero del loro meglio per sembrarlo, ma mancassero di poco l’obiettivo.

«Luke», disse, aprendo la porta. «Cosa ci fai qui?»

«Non ti abbiamo svegliato, vero?»

«Stavo lavorando».

«Lavorando?», domandò Rachel, con il suo sorriso più caldo. «A quest’ora del giorno?».

Non la guardò se non in un punto imprecisato oltre la spalla sinistra. «Sì», disse. Si rivolse a Luke. «Cosa ci fai qui?», domandò ancora.

«Abbiamo bisogno d’aiuto, amico».

«Per cosa?»

«Possiamo entrare? Se non bevo un caffè subito, non mi reggerò più in piedi».

Jay rimase lì ancora per un momento, poi annuì e li fece entrare. Un breve corridoio li portò a una squallida scala rivestita di lisa moquette marrone. Salirono al primo piano. Scatole impilate contro il muro erano state coperte con un lenzuolo bianco. «Cos’è tutta questa roba?», chiese Luke.

«Un progetto». Li fece entrare nel suo appartamento, in una grande stanza piena di libri che avrebbe dovuto affacciarsi sulla strada, ma che le pesanti tende cremisi, tirate lungo tutte le finestre, lasciavano illuminata solo da una lampada da tavolo e da una serie di sei schermi di computer, impilati in due file di tre ciascuna, ognuno dei quali mostrava una mano di una diversa partita di poker online.

«È questo il tuo lavoro?», domandò Rachel. «Poker?»

«È il momento migliore della giornata», disse. «Quelli che hanno giocato tutta la notte adesso sono stanchi. Fanno più errori quando sono stanchi». Cominciò a ritirarsi da una partita alla volta, spense gli schermi.

«E riesci a viverci?»

«Non crederesti quanto siano scarsi alcuni. Puntano in condizioni in cui non c’è ragione di puntare. E poi lo rifanno».

«Forse cercano solo di dimostrare qualcosa a se stessi», suggerì Luke.

«O forse vogliono solo andarsene a letto», disse Rachel.

Jay la guardò direttamente per la prima volta. «Perché allora non vanno a letto?».

Con gli schermi spenti, la stanza sembrò immediatamente un poco spettrale. «Sì», disse Rachel. «Ottima osservazione».

«Che mi dici di quel caffè?», disse Luke, appoggiando il portatile di Olivia. «Abbiamo avuto una nottataccia».

«Certo», disse. Li fece accomodare in una cucina impeccabile, accese il bollitore. «Per cosa avete bisogno del mio aiuto?».

Luke pescò il foglietto con le cifre dalla tasca della giacca di Pelham. Era tutto macchiato e stropicciato, così Jay gli trovò un block notes nuovo su cui riportò le cifre con più chiarezza. «Rachel e io abbiamo trovato questo l’altra notte», disse Luke. «Crediamo sia un testo in codice, forse ideato da Newton».

«Un codice di Newton?». Le pupille di Jay si dilatarono un poco. «Dove l’avete trovato?»

«Non posso dirtelo, temo. Ho dato la mia parola a qualcuno».

«Vuoi il mio aiuto e non vuoi dirmi dove l’hai trovato?»

«Mi dispiace Jay. Se ti avessi dato la mia parola, non vorresti che poi la rompessi, giusto?».

Jay considerò la cosa per un momento, come un bambino con un ginocchio sbucciato che stava decidendo se iniziare o meno a frignare. «Non sapere non mi aiuterà a capire il codice».

«Puoi farcela lo stesso. Stavo giusto raccontando a Rachel quanto sei brillante».

Per un istante, Rachel ebbe paura che la lusinga fosse troppo ovvia, ma Jay annuì semplicemente, così decise di andare in soccorso di Luke. «È vero sai», disse. «Si stava vantando di te senza vergogna».

Jay arrossì leggermente e si mise a fissare l’architrave sulla porta della cucina. «Non posso promettervi niente».

«Certo che no», disse Luke, versando l’acqua bollente in tre tazze. «Ti chiedo solo di provarci».

Gli fece un cenno e piazzò il block notes sul bancone davanti a lui.

DE 10338 G
DE 00250 G
BI 03359
BC 40573
KD 10100

«Cinque file di cinque numeri», disse Jay. Si girò verso Luke. «Hai già cercato una griglia, immagino».

«Una che?».

Jay sospirò. «Ci sono ventisei lettere nell’alfabeto latino. Se trattiamo la I e la J o la Y e la Z come una sola lettera, si può far entrare tutto l’alfabeto in una griglia cinque per cinque. Gli ideatori di codici hanno usato questo sistema per secoli. Sarebbe stata ordinaria amministrazione per uno come Newton». Indicò la prima fila di numeri: 1 0 3 3 8. «Se anche questo utilizza questo sistema, allora questi numeri potrebbero indicare quante volte ogni lettera si ripete nel testo cifrato. Il primo 1, per esempio, può significare che la lettera A appare una volta». Scrisse una A in cima a un foglio bianco. «Il secondo 0 significherebbe che non ci sono B».

«Ti seguo», disse Rachel. «Tre C. Tre D. Otto E».

«Come sai che la griglia si legge da sinistra a destra?», domandò Luke, un po’ piccato. «Magari va dal basso verso l’alto».

«La E è di gran lunga la lettera più comune dell’alfabeto», disse Jay. «Otto E perciò hanno senso. Con il tuo sistema, avremmo solo una E, ma otto U. Stai davvero dicendo che otto U hanno più senso di otto E

«Immagino di no».

«In più con il mio sistema abbiamo nove O, che credo abbiano molto più senso delle tue nove W. Forse non sei d’accordo? Forse preferisci le tue cinque Q alle mie cinque I. Almeno sapresti cosa fare con tutte quelle U». Guardò Rachel, con un sorrisetto ironico, come se si stesse pavoneggiando per lei. «E mi vengono cinque R e sette S, per non parlare delle cinque N, le tre L e M, e tutte hanno senso. Ed è anche il motivo per cui posso essere sicuro che si tratti di un codice YZ piuttosto di uno IJ. Altre domande, o posso continuare?». Non si disturbò ad aspettare che Luke rispondesse, invece scrisse tutte le lettere in sequenza:

A C C C D D D E E E E E E E E
H H I I I I I
L L L M M M N N N N N O O O O O O O O
P P P P R R R R R S S S S S S S T T T T
U W

«E che mi dici delle lettere prima e dopo i numeri?», chiese Rachel. «Cosa vogliono dire?»

«I numeri rappresentano delle lettere», disse Jay. «Quindi forse le lettere rappresentano dei numeri».

«Scusa?»

«A uguale a uno, B uguale a due. E uguale a cinque. Somma tutte le lettere e cosa ottieni?».

Luke scosse la testa. «Cosa?»

«Mio Dio, Luke! Per quanto tempo l’hai avuto? Sessantatré. Ora somma i numeri».

«Sessantatré?», azzardò Rachel.

«Esatto. Ben detto. Sessantatré. Adesso lo capisci?»

«No», disse Luke.

Jay prese un altro foglio bianco, lo sistemò vicino alla lista di lettere. Disegnò quattro linee in alto a sinistra della pagina, seguite da uno spazio e altre cinque linee, come nel gioco dell’impiccato. «Ecco le tue prime D e E», disse. Disegnò quattro linee e poi ancora cinque, poi continuò con una terza riga di due linee seguite da altre nove, una quarta riga di due e tre linee, undici e poi quattro linee nell’ultima riga. «Ora tutto quello che dobbiamo fare è provare a mettere queste sessantatré lettere in questi sessantatré spazi finché non otteniamo una frase che abbia senso. Il che sarebbe più semplice se sapessi dove hai trovato questo messaggio, o qual era il suo contesto». Ma lo disse più per rimarcare la cosa che come rimprovero, poiché chiaramente si stava godendo la sfida e non aveva intenzione di renderla più facile.

«Forse dovremmo provarci tutti», suggerì Luke.

«Già. O forse potresti concedermi un po’ di silenzio per lavorarci».

«D’accordo», disse Luke. «Ti lasciamo fare».

II

La fattoria era a pochi chilometri a nord ovest dell’incrocio di Megiddo, un vecchio kibbutz abbandonato da dodici anni a causa di fratture interne e mancanza di “sangue fresco”. Thaddeus e i suoi amici l’avevano comprato a poco, venduto la terra coltivabile in più e poi avevano convertito le restanti strutture per il bestiame dalla produzione di latte a quella di carne. Avevano rinnovato i dormitori per i loro volontari americani e aggiunto strutture agricole di ultima generazione, incluso un laboratorio per testare, trattare e conservare campioni di sperma. Dopodiché si erano impegnati a farsi da soli una heifer rossa.

Il cortile era buio e deserto mentre Avram parcheggiava fuori dall’edificio principale. Ma spuntò una luce dall’interno proprio mentre Shlomo si fermava accanto a lui, e ne uscì Francis, vestito con insolita modestia con abiti logori da contadino, intenzionalmente sminuendo il suo status per l’occasione. Avram gli fece un cenno. Indicò loro di seguirlo in una stalla buia, impregnata dall’odore degli animali. Grosse barre di luci lampeggiarono tremando come una tempesta senza tuoni prima di accendersi definitivamente. Certificati, album di fotografie e altri documenti sulla heifer se ne stavano su un paio di tavoli vicini a una porta. Un altro paio di tavoli contro la parete di fondo erano apparecchiati con scodelle, coltelli, paramenti e tutto il necessario per il sacrificio. L’acqua sciabordava dentro a una vasca rituale opposta alla porta, mentre il muro alle sue spalle era coperto curiosamente da un enorme lenzuolo bianco. E, alla loro sinistra, un altare ligneo era stato costruito sotto a una porzione aperta nel tetto.

Eppure, fra tutte queste meraviglie, Shlomo e i suoi uomini avevano occhi solo per una cosa.

Il Signore disse ancora a Mosè e ad Aronne: «Questa è una disposizione della legge che il Signore ha prescritta: Ordina agli Israeliti che ti portino una giovenca rossa, senza macchia, senza difetti, e che non abbia mai portato il giogo».

Una giovenca rossa, senza macchia, senza difetti. Ed eccola là, imprigionata in una recinzione in acciaio all’angolo della stalla, un poco tremante, intimidita dall’improvvisa illuminazione e dalla folla di uomini che la fissavano.

La purezza era impossibile in questo mondo. Per quanto si tentasse, semplicemente non era possibile evitare la morte, lo sporco e le malattie. Eppure nessun ebreo osservante era mai stato ammesso nel Tempio se contaminato. E certamente nessuno avrebbe mai nemmeno preso in considerazione di portare qualcosa di impuro al cospetto del Sancta Sanctorum. Quello sarebbe stato un terribile sacrilegio. D’altra parte, gli ebrei dovevano pur sempre visitare il Tempio. Prima di ogni visita, perciò, si sarebbero purificati attraverso l’abluzione rituale e cospargendosi delle ceneri di una perfetta heifer rossa.

Nove volte nella storia una giovenca simile era stata trovata, sacrificata e bruciata. Ma poi i romani distrussero il Tempio e non ci fu altro che cenere. Con l’esatta posizione del Sancta Sanctorum ormai sconosciuta al genere umano, pochi ebrei osservanti si sarebbero azzardati a calcare il Monte del Tempio, meno ancora a entrare nella Cupola della Roccia, col rischio di calpestare per sbaglio il più sacro dei luoghi. Solo cospargendosi con le ceneri di una nuova heifer rossa, perciò, Shlomo e i suoi uomini avrebbero potuto avventurarsi sul Monte. Solo grazie a una nuova heifer avrebbero potuto distruggere la Cupola e edificare il Terzo Tempio.

Si avvicinarono indugiando alla giovenca, quasi spaventati quanto lei. Si riunirono attorno alla recinzione, sporgendosi oltre le barre d’acciaio, eppure senza avvicinarsi davvero, come temendo il verificarsi di un qualche tipo di cataclisma. Ma poi uno di loro la toccò per caso e immediatamente l’incantesimo si spezzò. Le loro mani erano ovunque sulla bestia, mentre blateravano e ridevano, cercando invano quell’unico pelo bianco che avrebbe potuto squalificarla, quell’unico baffo.

Avram lanciò un’occhiata a Francis. Sembrava sereno e sicuro. Qualsiasi trucco avesse usato, tinta, pinzette o qualunque altra cosa, avevano indubbiamente ingannato quella dozzina di ragazzi di città. Rassicurato, andò a unirsi a loro, a condividere la loro gioia mentre la verità sorgeva trionfante su di essi.

La heifer era reale. Il momento era reale.

Il tempo del Terzo Tempio era giunto.