QUARANTOTTO

I

Galia Michaeli stampò la rotta del volo e il documento con la richiesta aggiuntiva e corse in sala di regia. Tutti quanti erano fin troppo occupati per prestare attenzione a qualcuno di poco conto come lei, in ogni caso. Tutti la scansavano. Le mancò l’ardire. Queste persone erano giornalisti esperti, dopotutto. Sapevano quello che era importante e quello che non lo era. Probabilmente stava sopravvalutando il rilievo della sua scoperta, disse a se stessa. Batté in ritirata e lasciò la stanza.

Il redattore dell’edizione del mattino era al cellulare nel corridoio, abbaiava contro il loro sfortunato corrispondente da Gerusalemme per essersi fatto scavalcare da Channel 2: era famoso per il suo temperamento e per licenziare il personale all’istante per la più innocua sciocchezza. Per quanto ne sapeva lei, poteva aver visto il paragrafo aggiuntivo appena l’email era arrivata e aver valutato la cosa come di nessuna importanza. La tentazione di far finta di non aver trovato niente, tenere la testa bassa e non farsi notare, l’aveva quasi sopraffatta. Ma quella era una notizia, lo sapeva, e le notizie erano la sua vocazione.

Si parò davanti a lui, mostrandogli nervosamente le due pagine. Lui le prese, le scorse rapidamente, aggrottò la fronte. «Che cazzo sono queste?», pretendendo una risposta.

Fece del suo meglio per spiegarsi, anche se si sentiva la lingua come una lumaca. Lui la fissava mentre parlava; sembrò esplodere.

«Stai cercando di dirmi che questo paragrafo in più era in quella cazzo di email?», domandò.

Lei annuì, accorgendosi di avere gli occhi pieni di lacrime. «Devono averlo cancellato prima di inviare», riuscì a dire. «Ma non del tutto».

Lui fece un cenno con la testa. Se possibile, sembrava ancora più arrabbiato. Marciò dritto nella sala di regia, tenne i fogli alti sulla testa. «Perché cazzo nessuno di voi stronzi se n’è accorto?», gridò.

«Accorto di cosa?».

Tutti controllavano la loro copia del documento mentre lui spiegava loro cosa, verificando con ognuno la storia della ragazza. Per la prima volta, guardarono Galia con qualcosa che si avvicinava al rispetto. Si sentì più alta di tre metri.

«Voglio le telecamere in aria adesso», disse il redattore. «Voglio filmare questo cazzo di aereo per tutto il tempo».

«A quest’ora del mattino?», chiese Lev, il suo vice, l’unico che si azzardava ad affrontarlo. «Dimenticati di attaccare qualcosa a un’ala. Non riusciremo mai a sistemare una telecamera e a metterla per aria in tempo. Ma forse potremmo usare gli elicotteri per le notizie sul traffico».

«Fin dove arrivano?»

«Tremila metri, più o meno. Abbastanza per riprendere la discesa».

«Mettili per aria adesso», disse. «Voglio scoparmi il cranio di quei bastardi di Channel 2. Mi hai capito? È l’ora della vendetta». Si rivolse a Galia. «Tu sei la nuova stagista, giusto?»

«Sì, signore».

«E tutta la merda che ti abbiamo rifilato non ti ha fatto passare la voglia?»

«Io voglio lavorare qui, signore. Più di qualunque altra cosa».

«Allora congratulazioni», le disse. «Sei assunta».

II

Croke stava controllando gli ultimi bollettini da Gerusalemme quando sentì la confusione che arrivava da fuori. All’iniziò la ignorò, dando per scontato che si sarebbe risolta da sola. Ma poi arrivarono le grida. Aprì la porta e vide Walters inciampare fuori dalla stiva, il torso completamente avvolto dalle fiamme. Cadde sulla schiena e restò disteso a urlare, la faccia carbonizzata e le fiamme che gli uscivano dalla bocca come un drago sconfitto e morente. Croke si girò di scatto verso Pete e Kieran, che si stavano sciacquando braccia e viso nel lavandino in corridoio. «Che cazzo è successo?», domandò.

«Acido», disse Pete conciso, voltandosi per mostrare a Croke il suo volto bruciato e pieno di vesciche, lo spaventoso rosso delle sue cornee.

Quella visione scioccante zittì Croke. Ma non per molto. «Entrate là dentro», disse. «Finiteli».

«Stai scherzando, vero?», ringhiò Kieran. «Hanno l’acido, il solvente e un taser».

«Possiamo proteggere la vostra pelle esposta».

«Possiamo proteggere la tua pelle esposta».

«Non era una richiesta», disse Croke. «Era un ordine».

«Mettitelo nel culo».

«Cristo!», esclamò Manfredo, arrivando con Vig in quel momento. «Cosa è successo?»

«Sono là dentro», disse Croke, indicando il portello. «Andate a prenderli».

«Non c’è bisogno», disse Vig. «È più facile chiuderli dentro, e poi depressurizzare. Li facciamo soffocare in un attimo».

Croke aggrottò la fronte. «Possiamo farlo da qui fuori?».

Vig annuì. «Certo. Controlliamo tutto dalla cabina di pilotaggio».

«E le maschere per l’ossigeno? Non scenderanno quelle?»

«Le abbiamo tolte l’anno scorso», disse Vig. «Era una seccatura doverle sostituire ogni volta che depressurizzavamo. Chi le vuole se le deve portare dentro da solo».

«E abbiamo abbastanza tempo prima dell’atterraggio?».

Vig si strinse nelle spalle. «Non si può affrettare una cosa del genere, non a novemila di quota. Si rischia ogni genere di stronzata. Ma possiamo comunque rendere la situazione abbastanza brutta in fretta, là dietro. Dieci minuti e saranno in difficoltà. Quindici e perderanno i sensi. Venti e sono morti. Poi chiudiamo le prese, pompiamo dentro l’aria, apriamo il portello e li buttiamo fuori durante la discesa». Diede un calcetto a Walters. «Ma dobbiamo iniziare immediatamente».

Croke annuì. «Allora sbrigatevi», disse.

III

Paragonata alla cabina principale, la stiva era decisamente più funzionale. C’erano dei sedili disposti lungo i due lati, ma erano piegati verso l’alto per fare spazio all’Arca, alle casse, ai vari bagagli e ai pallet con il materiale. Luke provò prima con le casse. Il pannello finale di quella più grande era stato rimosso, lasciando l’interno esposto; ma dentro non c’era niente. Provò con i due più piccoli. Il primo conteneva paramenti, incluso l’abito che Jay aveva esaminato poco prima; il secondo conteneva vecchie bottiglie di liquido, alcuni sottili quadrati di legno e lenzuola di lino bianco insieme a delle bobine dentellate e deformi di un qualche metallo grigio e morbido, probabilmente piombo a giudicare dal peso.

Un telone vicino alla coda era stato ripiegato su se stesso. La forma all’interno era inconfondibile. Luke provò un misto di dolore e di rabbia mentre lo sollevava. Si era già preparato a trovare Jay morto, ma non lo era per la vista della sua pelle chiazzata e le unghie rotte e strappate, e nemmeno per quel nastro blu intorno al collo. Non poteva lasciarlo lì con quella grottesca garrota, così cercò un taglierino vicino ai pallet e la tagliò via prima di coprire ancora Jay con il suo sudario di plastica. Poi frugò inutilmente fra i bagagli e gli armadietti in alto, trovando nient’altro che coperte e giubbotti di salvataggio.

«Era Jay?», domandò Rachel, quando tornò da lei.

«Sì».

Gli toccò l’avambraccio. «Mi dispiace», disse.

Una specie di progetto o schema se ne stava srotolato vicino all’Arca, con gli angoli tenuti giù dalle bottiglie. Luke si accovacciò per guardarlo meglio. Si rivelò essere un disegno tecnico con la fotografia di un testo di Newton pinzata insieme in un angolo. Luke staccò la foto per portarla sotto una luce migliore. C’erano righe cancellate sotto la scrittura di Newton, molto simili a quelle dello schema più grande. La deduzione era ovvia. Era stato il grande uomo a disegnare quello schema, poi lo aveva cancellato e aveva riutilizzato la carta per un testo religioso. Jay doveva aver notato quelle deboli tracce quando si trovava a Gerusalemme, doveva averle portate alla luce con moderne tecniche di riproduzione fotografica e poi ricreato questa versione, più grande e più chiara. Mostrava l’Arca di lato, davanti e dall’alto, e non come una reliquia religiosa, ma come una sorta di macchina. Non c’era da stupirsi che Jay e suo zio ne fossero tanti eccitati. Non c’era da stupirsi che avessero deciso di controllare tutti i testi di Newton, e di trovare quelli scomparsi. Guardò Rachel. «Nikola Tesla», disse.

Lei scosse la testa. «Cosa c’entra lui adesso?»

«Jay aveva una sua foto appesa al muro. E io l’ho studiato da laureando. L’archetipo dell’inventore matto. Finì in bancarotta cercando di inventare una super arma elettrica. Dichiarò che avrebbe potuto uccidere interi eserciti che si fossero trovati sulla sua traiettoria». Mise le mani sull’Arca. «Il fatto è che credo sia possibile che avesse preso l’idea da questa. C’è questo strano documento che scrisse, in cui affermava che l’Arca non era assolutamente un artefatto religioso, ma piuttosto un condensatore incredibilmente potente».

«Un cosa?»

«Un condensatore. Si tratta di un dispositivo che può tenere un’enorme carica elettrica. Come una batteria, ma progettato per rilasciare la sua carica in un’unica grande scossa, come una nuvola temporalesca durante una tempesta. Questo l’avrebbe resa tanto letale».

«Nell’antichità non c’era una tecnologia simile», disse Rachel. «Avremmo trovato dei reperti se ci fosse stata».

«E cosa sarebbero le tue batterie di Baghdad?», disse Luke. «È lo stesso principio di base, solo aumentato di qualche tacca. A ogni modo, non sto dicendo che avesse ragione. Dico solo che forse Newton era arrivato alla stessa conclusione: che l’Arca fosse una sorta di super arma, proprio come descritto nella Bibbia. Una super arma alchemica. Perché l’oro non era semplicemente un metallo per gente come Newton, ricordati. Non era nemmeno un metallo primario. Era un simbolo. Rappresentava il sole. Rappresentava la luce. Rappresentava lo stesso fuoco sacro, che Newton credeva essere l’elettricità. E cos’era l’alchimia dopotutto? A un livello base, qual era il suo scopo?»

«Non lo so», Rachel scuoteva la testa. «Diciamo trasformare i metalli in oro».

«Non proprio», disse Luke. «Era trasformare i metalli in oro trattandoli con l’acido solforico. E se l’oro in realtà è la luce, se è l’elettricità, allora non ci troviamo in pratica davanti alla descrizione di una batteria piombo-acido?».