Capitolo 4
Perché la guerra fredda funzionava*

I

La Londra postbellica, dove sono cresciuto, era un mondo alimentato dal carbone e azionato dal vapore, nel quale i venditori ambulanti usavano ancora i cavalli, le automobili erano rare e i supermercati (e gran parte di ciò che vendono) sconosciuti. Per la sua geografia sociale, il clima e l’ambiente, le relazioni di classe e gli allineamenti politici, le attività industriali e l’abitudine alla deferenza sociale, nel 1950 Londra sarebbe stata immediatamente riconoscibile a un osservatore di mezzo secolo prima. Anche i grandi progetti «socialisti» dei governi laburisti del dopoguerra erano in realtà la fioritura tardiva delle idee riformiste dei liberali dell’era edoardiana. Molto era cambiato, ovviamente; in Gran Bretagna come nel resto d’Europa la guerra e il declino economico avevano modificato il panorama fisico e morale. Eppure, proprio per questo motivo, il passato remoto sembrava più vicino e più familiare che mai. Sotto importanti aspetti, alla metà del ventesimo secolo Londra era ancora una città di fine Ottocento. Ciononostante, la guerra fredda era iniziata da tempo.

È utile capire fino a che punto il mondo fosse diverso cinquant’anni fa per riuscire a cogliere un aspetto al quale John Gaddis dà grande risalto nel suo eccellente volume. La guerra fredda ha avuto lunghissima durata: quarantatré anni, dal fallimento dei negoziati postbellici con l’Unione sovietica nel 1947 all’unificazione della Germania nel 1990. È un periodo molto più lungo delle interminabili guerre rivoluzionarie francesi e napoleoniche, più lungo della scellerata guerra dei trent’anni nel diciassettesimo secolo e appena un anno più breve dell’intervallo di tempo che separa, per esempio, la morte di Thomas Jefferson dalla nascita di Lenin.

Nel 1951, al culmine della guerra di Corea, l’Europa era governata da uomini di un’epoca ben diversa: il primo ministro britannico, Winston Churchill, e il cancelliere tedesco, Konrad Adenauer, erano entrambi nati poco dopo la prima unificazione della Germania sotto la Prussia di Bismarck (rispettivamente nel 1874 e nel 1876) e quest’ultimo era ancora la figura dominante sulla scena diplomatica internazionale quando i due statisti cominciarono a prendere cognizione degli affari pubblici. Persino i loro contemporanei «più giovani», come il leader democristiano Alcide de Gasperi o lo stesso Josif Stalin, avevano raggiunto la maturità un decennio prima dello scoppio della Grande guerra e le loro idee sulla politica e specialmente sulle relazioni internazionali erano state plasmate dagli assetti e dai conflitti di un’epoca precedente. Prima di associare in modo un po’ troppo sbrigativo la guerra fredda ai dilemmi dell’era postatomica, dovremmo tenere presente che gli uomini che per primi si ritrovarono a combatterla inevitabilmente vedevano il mondo con occhi molto diversi.

La sensibilità nei riguardi di questa considerazione è una delle numerose qualità del libro di Gaddis, che non è tanto una storia della guerra fredda, quanto una serie di saggi, in ordine vagamente cronologico, sui grandi temi e sulle crisi che la contraddistinsero: la divisione dell’Europa, la questione tedesca, i conflitti in Asia, i paradossi della strategia nucleare e via dicendo. Gaddis espone i fatti con chiarezza, adotta un approccio equilibrato e quasi mai polemico nei riguardi di dibattiti incandescenti e fortemente controversi e ha una conoscenza sbalorditiva della letteratura secondaria in lingua inglese su una sterminata varietà di argomenti. Ha già scritto quattro studi completi sull’epoca della guerra fredda, avvalendosi delle sue competenze in materia di storia della politica estera degli Stati Uniti1. Ma in questo volume ha cercato di riunire il copioso materiale venuto alla luce in seguito all’apertura degli archivi sovietici ed est-europei e le recenti rivelazioni diffuse da fonti statunitensi e di intesserli insieme in un’interpretazione generale allo stato attuale delle nostre conoscenze.

A questo si deve il titolo forse infelice del volume [nell’edizione inglese: We Now Know, «Quello che ora sappiamo»]. Pronunciato correttamente, con l’accento su «ora», lascia intendere che Gaddis riepiloghi lo stato attuale delle nostre conoscenze sulla storia degli ultimi cinquant’anni partendo dal presupposto che le cose potranno apparire diverse quando ne sapremo di più. Ma i lettori, così come alcuni recensori, potrebbero essere tentati di leggerlo come una rivendicazione del carattere definitivo dell’interpretazione: ora sappiamo che cosa è successo e perché. Sarebbe un peccato, perché Gaddis è pienamente consapevole del pericolo insito nel sovrastimare le conoscenze e le impressioni che si possono ricavare consultando archivi da poco aperti al pubblico, per quanto promettenti possano sembrare. In fondo, che contenga i verbali delle riunioni del Partito comunista, le intercettazioni di comunicazioni dei governi stranieri, i rapporti delle spie o persino un elenco di informatori e «collaboratori» della polizia, un archivio non è una fonte di verità. Bisogna sempre tenere conto dei motivi e degli obiettivi di chi ha creato i documenti, dei limiti delle sue stesse conoscenze, dell’inclusione di calunnie o di lusinghe in un rapporto destinato a un superiore, delle distorsioni ideologiche e dei pregiudizi.

Anche se potessimo in qualche modo essere certi della veridicità e della rilevanza di una determinata fonte, non potrà mai emergere un documento in grado di dirimere definitivamente una grande controversia storica; gli archivi francesi del Settecento, per esempio, sono ormai aperti da molte generazioni, ma non hanno posto fine ai dibattiti storiografici acrimoniosi intorno alle origini e al significato della Rivoluzione francese. Nel caso della guerra fredda, non sappiamo nemmeno con certezza quale materiale documentario ancora manchi (da entrambe le parti), anche se l’inaccessibilità degli archivi presidenziali della Federazione russa significa chiaramente che gli storici non sono tuttora in grado di descrivere le decisioni o il modo in cui venivano adottate al vertice durante l’era sovietica2. Per tutti questi motivi, la prudenza è d’obbligo. La divulgazione selettiva di archivi e fascicoli personali negli ex paesi comunisti, motivata da considerazioni politiche, ha causato molti danni; la pubblicazione (soprattutto in Francia) di storie popolari che saccheggiano gli archivi sovietici e dei paesi est-europei da poco accessibili per «smascherare» i traditori del passato ha gettato un certo discredito sull’intera impresa3.

Gaddis è prudente. Attinge a piene mani al lavoro svolto da studiosi che hanno usufruito del Centro russo per la conservazione e lo studio dei documenti della storia contemporanea e del «Bulletin of the Cold War International History Project», il periodico sul quale viene discusso quasi tutto il materiale emerso dalla ricerca recente. Ma usa le informazioni principalmente a fini esemplificativi e solo di rado, come nel caso della corrispondenza fra Kim Il Sung e Stalin nel 1950, per azzardare una ferma proposizione interpretativa: conclude che Stalin in principio non intendeva sostenere le mire aggressive di Kim e accettò di appoggiarlo soltanto quando fu chiaro che l’iniziativa e la responsabilità sarebbero state assunte dai cinesi.

Come gli specialisti che hanno condotto la ricerca di cui si avvale, Gaddis riconosce che, per quanto interessanti, i nuovi materiali non rivelano fatti dei quali fossimo del tutto all’oscuro. Grazie alla documentazione selettiva pubblicata dagli iugoslavi durante la loro lite con Stalin, per esempio, o al materiale reso noto nei brevi momenti di «comunismo riformista» in Polonia (nel 1956) e in Cecoslovacchia (nel 1968), la storia interna delle decisioni e dei conflitti nel Blocco sovietico non è mai stata un segreto impenetrabile.

Per la verità, via via che le nuove informazioni vengono pubblicate e discusse, stupisce constatare quanto già «sapessimo». Se teniamo conto delle memorie dei protagonisti di tutte le parti in causa, della documentazione primaria parziale, dell’osservazione percettiva diretta e dell’analisi storica circostanziata, la storia della guerra fredda è sempre stata a nostra disposizione. Per citare due studiosi che hanno fatto abbondante uso della nuova documentazione primaria, sembra ormai chiaro che «la storiografia occidentale della dominazione sovietica [dell’Europa orientale] prodotta durante la guerra fredda fosse sostanzialmente azzeccata»4. L’incapacità di alcuni politici (e studiosi) occidentali di comprendere la natura della guerra fredda, soprattutto all’inizio, non derivava tanto dalla carenza di documenti quanto dalla mancanza di immaginazione. Come ha scritto George Kennan, «i nostri leader nazionali a Washington non avevano la minima idea di cosa significasse l’occupazione sovietica, sostenuta dalla polizia segreta russa dei tempi di Berija, per le popolazioni che la subivano e probabilmente sarebbero stati incapaci di immaginarlo»5.

L’uso che si può fare dei nuovi materiali per approfondire la nostra conoscenza di un particolare momento nella storia della guerra fredda è perfettamente illustrato dalla recente pubblicazione, in cooperazione tra la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e il Centro russo per la conservazione e lo studio dei documenti della storia contemporanea, dei verbali completi dei tre congressi del Cominform 1947-1949, corredati di un dotto ed esauriente apparato di introduzioni e note. Il Cominform fu istituito dall’Urss nel 1947 allo scopo dichiarato di creare un centro di coordinamento per lo scambio di informazioni (e istruzioni) tra Mosca e i partiti comunisti dell’Europa centrale e orientale, dell’Italia e della Francia.

In occasione della sua prima riunione, nel settembre 1947 a Szklarska Poręba, in Polonia, Andrej Ždanov espose la teoria secondo cui l’Occidente e l’Unione sovietica dovevano essere visti come due «campi» inconciliabili, visione che sarebbe servita come base dottrinale della politica estera sovietica fino alla morte di Stalin. Alla seconda riunione del Cominform, svoltasi a Bucarest nel giugno del 1948, il conflitto sovietico-iugoslavo venne a galla e l’eresia «titoista» fu definita e condannata; la «lotta contro il titoismo» sarebbe poi stata usata per orchestrare e giustificare le persecuzioni e i processi farsa degli anni successivi. L’ultima riunione, tenutasi in Ungheria nel novembre 1949, servì soltanto a consolidare le ormai rigide linee nazionali e interne della politica comunista. In seguito le attività del Cominform si limitarono alla pubblicazione di un bollettino e l’organizzazione fu infine sciolta nel 1956, superata dai mutamenti dell’era Chruščëv.

Il Cominform è importante perché la sua creazione e gli atti dei suoi congressi, soprattutto il primo, sono una spia essenziale delle motivazioni e dei tempi dell’evidente riorientamento della linea comunista, nel corso del 1947, verso lo scontro con le potenze occidentali. Siamo sempre stati bene informati in proposito. Entrambi i delegati iugoslavi al primo congresso, Milovan Djilas ed Edvard Kardelj, hanno pubblicato le loro memorie. Uno dei due delegati italiani, Eugenio Reale, in seguito uscì dal Partito comunista italiano e scrisse un libro nel quale racconta la sua esperienza alla riunione costitutiva del Cominform. Il governo iugoslavo pubblicò una selezione della propria corrispondenza con Stalin e altri documenti risalenti ai preparativi del secondo congresso per difendersi dalle accuse sovietiche. Il Cominform pubblicò la propria versione purgata degli atti dei congressi. Cos’altro possiamo sperare di apprendere dai verbali completi?6

I documenti del Cominform, insieme con i materiali preparatori reperiti negli archivi russi, ci permettono di vedere le cose in maniera un po’ diversa sotto tre aspetti, che non sono irrilevanti. In primo luogo, e questo conferma alcuni elementi che emergono dal recente studio di Norman Naimark sull’occupazione sovietica della Germania Est, Stalin non aveva affatto le idee chiare sul modo in cui procedere nella sua zona d’influenza europea7. La strategia di fondo non è mai stata in discussione: ottenere il controllo comunista totale e duraturo in ogni Stato nella regione. Ma le scelte tattiche restavano incerte. Ancora nel giugno del 1946, in una conversazione con Tito, Stalin affermò di essere fermamente contrario a riesumare sotto qualsiasi forma il vecchio e accentrato Comintern, che aveva esercitato un rigido controllo e diramato da Mosca istruzioni precise per tutti i partiti comunisti ed era stato sciolto nel 1943. Ma la proposta del piano Marshall nel 1947, assieme al problema irrisolto della Germania divisa, indussero Stalin, peraltro cronicamente incline a percepire una minaccia occidentale anche quando non esisteva, a cercare di ottenere un più stretto controllo dottrinale e amministrativo su tutti i partiti comunisti dell’Europa centrale, specialmente quelli che, come in Cecoslovacchia, nutrivano ancora l’illusione di poter seguire la propria particolare «via» al socialismo. Le varie stesure preliminari del discorso di Ždanov al Cominform, elaborate durante l’estate del 1947, rivelano una progressiva puntualizzazione, un irrigidimento della linea.

In secondo luogo, la situazione relativamente caotica del comunismo internazionale nei primi anni del dopoguerra ora risulta più chiara rispetto a un tempo. Le tattiche dei comunisti italiani e francesi, che cercavano di profittare dell’aura della Resistenza per conquistare potere attraverso il sistema parlamentare, si erano ormai rivelate fallimentari nel maggio del 1947, quando uscirono entrambi dai governi di coalizione al pari dei comunisti belgi. Alla riunione del Cominform in Polonia furono puntualmente attaccati dai russi e dagli iugoslavi per la mancanza di fervore rivoluzionario, per l’impegno iniziale a favore di un percorso non rivoluzionario verso il potere e per l’incapacità di prevedere le «mutate circostanze» che avevano indotto Stalin, tramite Ždanov, a stigmatizzare la via della «coesistenza pacifica». Per molto tempo si suppose, ed Eugenio Reale in particolare insiste su questo punto, che i rimproveri rivolti ai francesi e agli italiani per il loro «deviazionismo di destra» fossero un espediente escogitato dai sovietici per far ricadere sugli sventurati partiti comunisti occidentali la responsabilità del fallimento della precedente strategia di «cooperazione» con gli ex alleati in Europa occidentale adottata da Mosca stessa.

Tuttavia sembra ora possibile, stando a una lettera di Ždanov a Maurice Thorez, leader dei comunisti francesi, datata 2 giugno 1947, copia della quale fu spedita ad altri dirigenti comunisti (una è stata ritrovata di recente negli archivi del Partito a Praga), che in alcuni casi Mosca fosse altrettanto all’oscuro delle tattiche del Partito comunista francese quanto chiunque altro: «Molti pensano che le iniziative dei comunisti francesi siano state decise insieme [a Mosca]. Ma voi sapete che non è vero e che le vostre mosse sono state una totale sorpresa per noi». Il Cominform, quindi, in realtà fu istituito per porre fine alla relativa anarchia strategica che si era insinuata nel campo comunista durante e dopo la guerra. A questo scopo fu un vero trionfo. Opportunamente mortificati, d’allora in poi persino gli italiani rimasero diligentemente fedeli alla linea dettata da Mosca, a costo di sacrificare parte della loro credibilità politica a livello nazionale. Nell’aprile del 1963, molto tempo dopo lo scioglimento del Cominform e poco prima della sua morte, Palmiro Togliatti, leader storico del Partito comunista italiano (Pci), ancora scriveva ad Antonín Novotný, segretario generale del Partito comunista cecoslovacco predecessore di Dubček, per chiedergli di posticipare l’imminente «riabilitazione» pubblica di Rudolf Slánský e delle altre vittime del processo di Praga del dicembre 1952. Tale annuncio, scriveva (riconoscendo implicitamente la complicità del Pci nella giustificazione dei processi farsa dei primi anni Cinquanta), avrebbe dato luogo a una campagna forsennata contro i comunisti italiani. Tutti «i temi più stupidi e provocatori dell’anticomunismo verrebbero al centro dell’attenzione pubblica e questo ci nuocerebbe» alle prossime elezioni8.

In terzo luogo, e in contrasto con le interpretazioni basate sui ricordi dei partecipanti che non avevano conoscenza diretta delle intenzioni sovietiche, ora sappiamo che il Cominform non fu creato per cercare di mettere in riga gli iugoslavi, anche se al momento opportuno assunse tale funzione. Certo, Tito era un problema fastidioso per Stalin e lo era sin dal 1945. I tentativi di annettere alla Iugoslavia parte della Carinzia austriaca e la città istriana di Trieste erano fonte di imbarazzo nei rapporti fra Stalin e gli alleati occidentali e, soprattutto, un ostacolo al progresso dei comunisti italiani in patria. Altrettanto imbarazzante era l’iniziale appoggio accordato da Tito ai comunisti greci, dato che la Grecia ricadeva inequivocabilmente nella «sfera» occidentale. L’ambizione iugoslava di creare e guidare una federazione balcanica comprendente l’Albania e la Bulgaria entrava in conflitto con la preferenza di Stalin per il mantenimento del controllo diretto su ciascun paese nella sua sfera d’influenza. E le politiche interne rivoluzionarie e incontrastate del Partito iugoslavo – che esercitava il potere senza essere vincolato da alleanze con partiti «amici» ed era quindi molto più radicale e inflessibile di altri comunisti dell’Europa dell’Est – rischiavano di mettere in ombra il modello sovietico. In materia di rivoluzione, Tito stava diventando più papista del papa sovietico.

Ciononostante, il Cominform non fu istituito come strumento per richiamare all’ordine gli iugoslavi. L’attacco contro i francesi e gli italiani alla riunione di Szklarska Poręba nel 1947 fu condotto dai delegati iugoslavi con fervore farisaico e non poca arroganza, il che contribuisce a spiegare l’entusiasmo con cui quegli stessi comunisti francesi e italiani salutarono la successiva caduta in disgrazia degli iugoslavi e l’ardore antitoista ostentato dai dirigenti comunisti in Francia e in Italia negli anni successivi9. Ma gli iugoslavi non si erano limitati a eseguire gli ordini sovietici secondo un disegno ambiguo e machiavellico, come alcuni commentatori supposero in seguito. La minuta della critica ai comunisti occidentali dello stesso Ždanov non era meno ostile di quella dei suoi compagni balcanici e gli iugoslavi, da parte loro, erano certamente convinti di quanto affermavano. Senza dubbio faceva parte della tecnica di Stalin mobilitare una frangia deviazionista contro un’altra, per poi fare i conti con il primo gruppo in un momento successivo, un metodo che aveva perfezionato nelle lotte interne al partito durante gli anni Venti. L’eresia «sinistroide» del titoismo fu infatti puntualmente condannata l’anno seguente, ma non sembrano esistere conferme del fatto che la mossa fosse stata pianificata nel 1947.

Le nuove fonti della storia del Cominform alle quali si è attinto di recente non cambieranno dunque in modo radicale il quadro complessivo. Ma ci permettono di correggere la nostra comprensione di vicende minori e l’insieme di queste correzioni ci consente di costruire un quadro più preciso e articolato. Come si presenta ora la storia generale? Per cominciare, la guerra fredda è sempre esistita nella testa di Stalin e in una versione dell’immagine sovietica del mondo. Qualunque cosa avessero fatto od omesso di fare gli uomini di Stato occidentali, ciò non sarebbe cambiato. Ma al di là della ferma volontà di controllare una parte considerevole dell’Europa, Stalin non aveva un piano generale ambizioso; anzi, era decisamente avverso al rischio. Per citare Molotov: «La nostra ideologia comporta operazioni offensive quando è possibile; altrimenti, aspettiamo»10. Da questo è verosimile dedurre che la politica di «contenimento» adottata nel 1947 avrebbe potuto funzionare anche prima, se fosse stata tentata. Ma in qualsiasi momento sia stata attuata, non ha «dato inizio» alla guerra fredda.

Un motivo è che la «sovietizzazione» dell’Europa dell’Est e della zona orientale della Germania, pur non facendo parte di un calcolo preciso, probabilmente era inevitabile, date le circostanze. Come osserva con oculatezza Norman Naimark, «i funzionari sovietici bolscevizzarono l’area non perché avevano pianificato di farlo, ma perché era l’unico modo che conoscevano di organizzare la società»11. Lo stesso vale, in sostanza, per il trattamento riservato ad altri paesi dell’Europa orientale. Soltanto l’espulsione dei soldati dell’Armata rossa avrebbe potuto scongiurare tale esito, e nessun leader occidentale prese veramente in considerazione il tentativo di cacciarli. Una volta instaurato il rigido controllo sovietico, ai politici occidentali non rimase altra scelta se non supporre che sarebbe stato esteso anche più a Ovest, qualora se ne fosse presentata l’occasione, e si organizzarono di conseguenza. Sembra ora improbabile che Stalin contemplasse seriamente l’idea di avanzare verso Ovest, ma, come scrive Gaddis, «sarebbe il colmo dell’arroganza per gli storici condannare coloro che fecero la storia per non essersi serviti di storie ancora da scrivere. Gli incubi sembrano sempre reali al momento; anche se, alla chiara luce del mattino, un po’ ridicoli».

Una volta disegnati i campi dello scontro, almeno in Europa, sembra vi siano state pochissime «occasioni mancate» per cancellarli. La più famosa di queste, la proposta di Stalin del marzo 1952 relativa a un accordo per il ritiro dalla Germania, oggi può essere vista come la intesero coloro che vi si opposero all’epoca: la disponibilità a sacrificare la Germania Est, certo, ma solo in cambio di una Germania unita e «neutrale» sotto effettivo controllo sovietico. La centralità del futuro di una Germania divisa, e più in generale dell’Europa, nell’evoluzione della guerra fredda è altrettanto chiara. I conflitti in Corea, Malesia, Cuba, Vietnam o Angola, per quanto sanguinosi, rimasero periferici rispetto alla contesa principale in Europa, almeno finché non fu posta fine alla successione di crisi e scontri su Berlino (1948-1949, 1953, 1958-1961) con la costruzione del Muro nel 1961, quando le due grandi potenze, indipendentemente da quanto affermavano in pubblico, tirarono entrambe un sospiro di sollievo in privato.

Può sembrare strano, a uno sguardo retrospettivo, che gli alleati del tempo di guerra si siano presi tanto disturbo e siano quasi passati alle vie di fatto per proteggere gli interessi di Stati satellite nel territorio del loro ex nemico. Ma è una caratteristica delle guerre fredde (la nostra non è stata la prima) che la contesa si concentri sugli aspetti simbolici, e la situazione irrisolta della Germania era il simbolo dell’accordo incompleto del dopoguerra. Per questo motivo, i governanti della Germania Ovest e della Germania Est per molti anni sono stati in grado di esercitare un’influenza sulle scelte politiche delle grandi potenze del tutto sproporzionata rispetto alla loro stessa forza o importanza.

II

Non c’era spazio di manovra in Europa; ciascuna parte dipendeva da un arsenale (i sovietici dalle forze di terra convenzionali, la Nato dalle armi atomiche aviotrasportate), nel quale era di gran lunga superiore al rivale. Data la situazione di stallo, le iniziative e i malintesi tendevano ad avvenire altrove. I documenti resi disponibili di recente dimostrano che Harry Truman e altri leader occidentali sbagliavano a supporre che Stalin intendesse sfruttare l’attacco nordcoreano alla Corea del Sud per sviare l’attenzione e le forze militari delle potenze occidentali o come preludio a un attacco in Europa; ma questo è ciò che effettivamente credevano e la loro reazione, cioè rafforzare la Nato e proporre il riarmo della Germania Ovest, fu razionale e prudente in tali circostanze.

Purtroppo la propensione a trattare gli avvenimenti altrove come indicatori o fotocopie della situazione in Europa, invece che come processi in atto nel mondo extraeuropeo, caratterizzarono gran parte della politica statunitense nei decenni a venire, dai «pasticci» di John Foster Dulles in Medio Oriente, come li ha definiti Gaddis, alla catastrofe del Vietnam. Ma questa tendenza derivava dall’idea che, qualsiasi cosa succedesse altrove nel mondo, la guerra fredda riguardava l’Europa; era in Europa che bisognava evitare che divampasse e soltanto in Europa vi si poteva porre fine. Come ora sappiamo, la situazione era vista pressoché allo stesso modo anche dal Cremlino. Stalin appoggiò con riluttanza l’azione offensiva di Kim Il Sung e sia Stalin sia i suoi successori espressero serie riserve riguardo all’impetuosità di Mao Tse-tung. Ma alla fine tollerarono rischi in Corea, Vietnam e altrove che non avrebbero mai avallato in Germania o nei Balcani.

L’accesso agli archivi chiude definitivamente alcuni filoni interpretativi rimasti ostinatamente aperti anche dopo il crollo dell’Unione sovietica. Il «revisionismo», la ricerca smaniosa di prove che attribuissero agli Stati Uniti la responsabilità primaria delle origini e del proseguimento della guerra fredda, è ormai cosa morta. Di certo l’Occidente, soprattutto l’Europa occidentale, ha tratto grandi vantaggi dalla divisione dell’Europa e del mondo in sfere d’influenza, ma questo non era affatto chiaro nel 1947. In ogni caso non furono gli americani, ma i britannici, in particolare il ministro degli Esteri Ernest Bevin, a giungere per primi alla conclusione che forse era un bene se le iniziative postbelliche tese a risolvere la questione tedesca fossero state congelate. I negoziatori americani, nel solco della tradizione rooseveltiana, impiegarono più tempo a disimpegnarsi dalla ricerca di un accordo con i russi. Una strategia revisionista alternativa consisteva nel sostenere che la guerra fredda, e i conflitti roventi ad essa collegati, fossero frutto di processi sociali e politici messi in moto molto tempo prima. Si poteva pensare che qualcuno fosse responsabile di avere cominciato qualcosa, ma in pratica era impossibile attribuire la colpa a una parte o all’altra. Come scrisse Bruce Cumings: «Chi iniziò la guerra di Corea? Questa domanda non si dovrebbe fare»12. Ma questa posizione non è più sostenibile, se non nel senso banale che tutte le cause immediate hanno fattori determinanti di lungo periodo. Con l’ausilio di informazioni un po’ più accurate, possiamo ora attribuire perlopiù all’Urss la responsabilità, fra l’altro, della rottura dei negoziati sulla questione tedesca nel 1947, dello scoppio della guerra in Corea e di vari scontri riguardo a Berlino.

La ricerca revisionista di prove della colpevolezza occidentale era talvolta associata, nei circoli accademici, a una dotta antipatia per la nozione che i «servizi segreti» incidessero sull’evoluzione della storia, che le spie influenzassero profondamente il corso degli eventi. Alla luce del misero stato di servizio delle agenzie di spionaggio (di entrambe le parti) in materia di previsione dei risultati, è un pregiudizio comprensibile, ma si dimostra errato. Le spie ebbero un ruolo assai importante nella guerra fredda, soprattutto nel corso dei primi anni, e non solo per quanto riguarda il celebre furto di segreti atomici. Il ministro degli Esteri francese, come la classe dirigente britannica, fece trapelare notizie a profusione per anni e fornì all’ambasciata di Mosca a Parigi, nonché agli agenti sovietici a Berlino, un flusso continuo di informazioni riservate. La rete di intelligence sovietica era nettamente superiore a quella dell’Occidente, e poteva anche esserlo, dato che in alcuni paesi esisteva dalla fine degli anni Venti. Il suo punto debole era l’incapacità dei dirigenti moscoviti di ascoltare, o di capire, le informazioni che gli agenti cercavano di trasmettere: un problema di antica data in Urss, che nel caso più inglorioso indusse Stalin, nella primavera del 1941, a disdegnare tutte le avvisaglie dell’imminente attacco di Hitler. Come osservò Dean Acheson in un altro contesto, «abbiamo avuto fortuna, quanto all’avversario»13.

D’altro canto, molti analisti occidentali della guerra fredda che comprendevano il ruolo dei servizi segreti, e più in generale della Realpolitik, negli affari internazionali dell’epoca non sempre si rendevano conto che, se l’Unione sovietica perseguiva i propri interessi comportandosi come una grande potenza, essa non era comunque un impero qualsiasi: era un impero comunista. Una delle rivelazioni più interessanti delle nuove fonti documentarie, e Gaddis le presta la dovuta attenzione, è il ruolo dell’ideologia nei propositi dei dirigenti sovietici. Su questo tema sono esistite per molto tempo tre scuole di pensiero concorrenti. La prima riteneva che i politici sovietici si comportassero e pensassero più o meno allo stesso modo dei politici americani: mettevano in contrapposizione i gruppi di interesse interni, calcolavano i vantaggi economici o militari e perseguivano obiettivi convergenti, ancorché in competizione, con quelli dei rivali occidentali. Il linguaggio pubblico che adoperavano quando perseguivano tali obiettivi era irrilevante.

La seconda scuola di pensiero sosteneva che i politici sovietici erano gli eredi degli zar: la loro preoccupazione primaria erano gli interessi geopolitici della Russia. Il linguaggio ideologico che adoperavano andava considerato un elemento casuale e secondario e non era necessario attribuirgli un gran peso nei rapporti con loro. Il terzo gruppo affermava che l’Unione sovietica era uno Stato comunista e che i termini usati dai suoi dirigenti per descrivere il mondo erano anche i termini in cui lo concepivano; pertanto i loro presupposti ideologici erano la cosa più importante da sapere su di loro.

La prima scuola dominò la «sovietologia» statunitense per molti anni, ma è ormai defunta, insieme con il sistema politico che fu penosamente incapace di comprendere. La seconda scuola, della quale il più sofisticato esponente era George Kennan, aveva senza dubbio validi argomenti. Anche se sapevamo poco del comunismo, potevamo comunque formarci un parere ragionevole sulla politica estera sovietica negli anni fra il 1939 e il 1990 basandoci sui soli criteri diplomatici «tradizionali», alla luce di una conoscenza della storia russa fondata sui fatti concreti. Inoltre, chiunque avesse avuto a che fare con l’ultima generazione di apparatčiki comunisti in Europa orientale non avrebbe mai pensato che fossero uomini motivati da ideali superiori o che aspirassero alla coerenza dottrinaria di per sé. Ciononostante, sembra ormai chiaro che l’ideologia ebbe un ruolo effettivo nel pensiero dei dirigenti sovietici nell’era della guerra fredda, da Stalin a Gorbačëv. Come nel caso di Truman, Eisenhower o Kennedy, la loro concezione del mondo era influenzata dai presupposti di partenza. Per i sovietici, tali presupposti erano sostanzialmente marxisti, il che all’epoca della morte di Stalin significava quasi esclusivamente un rozzo determinismo economico condito con la prospettiva della vittoria finale sul terreno internazionale della lotta di classe.

In pratica ciò fece sì che, per esempio, quando Andrej Ždanov venne a conoscenza della dottrina Truman, la citò nella sua relazione alla prima riunione del Cominform come prova sempre più evidente della frattura che si era aperta nel campo angloamericano a causa dell’«estromissione della Gran Bretagna dalla sfera d’influenza [statunitense] nel Mediterraneo e nel Medio Oriente». In una nota interna del Cremlino del 1946 Truman stesso è definito unicamente in termini di presunti interessi economici («circoli del capitale monopolistico americano») che rappresentava. I funzionari dei servizi segreti di stanza a Berlino analizzavano sistematicamente il comportamento e le discussioni dei leader occidentali (riguardo ai quali erano peraltro bene informati) come dovuti alle «tensioni economiche» presenti fra loro, e via di questo passo.

Il comportamento dell’Occidente era dunque quasi sempre ridotto a ipotetici motivi e interessi di carattere esclusivamente economico. In fin dei conti, poco importa se tutti, da Molotov al più oscuro funzionario di partito o agente dei servizi segreti, credessero «veramente» a ciò che dicevano; il punto è che tutto ciò che dicevano, sia l’uno all’altro sia al mondo esterno, era formulato in questo linguaggio stereotipato e crepuscolare. Persino Gorbačëv – o forse soprattutto Gorbačëv, che era il prodotto di tre generazioni di pedagogia politica «marxista» – pensava e spesso si esprimeva in quei termini, motivo per cui fu realmente colto alla sprovvista dal risultato delle sue stesse azioni.

John Gaddis critica, a ragione, i «realisti» occidentali per la loro incapacità di comprendere che gli uomini sono motivati da ciò che pensano e credono, non solo da interessi oggettivi e misurabili. Ma si spinge un po’ oltre: il trasferimento della guerra fredda dal suo luogo di nascita europeo in Asia e poi nei posti più improbabili – Mozambico, Etiopia, Somalia, Angola e specialmente Cuba – fu dovuto a ciò che Gaddis definisce, riferendosi a Chruščëv e Brežnev, «una specie di iper-attivismo geriatrico». In età avanzata, secondo lo storico, questi uomini riscoprivano in località esotiche la passione rivoluzionaria della loro gioventù russa: non più apparatčiki comunisti senescenti, tornavano a essere rivoluzionari bolscevichi, sebbene agissero per interposta persona. Forse sembra un po’ troppo fantasioso, e in ogni caso superfluo. Perché non riusciamo ad ammettere che la storia dell’Unione sovietica (e quindi della guerra fredda) non ha senso, se non prendiamo sul serio la prospettiva ideologica dei suoi leader, riconoscendo al tempo stesso con Molotov che miravano a promuovere gli interessi politici sovietici in ogni luogo e in ogni momento in cui se ne presentasse l’occasione? Certo che chiamavano in causa la rivoluzione quando giustificavano gli interventi all’estero e, nel caso di Chruščëv, la commozione e l’entusiasmo per i cubani erano sinceri, come abbiamo appreso leggendo le sue memorie. Ma gli interessi, le convinzioni e le emozioni non sono cause intrinsecamente incompatibili del comportamento umano.

L’enfasi sui deliri «geriatrici» dei dirigenti sovietici ci riporta al punto da cui sono partito. In una prospettiva statunitense (e fino a tempi recenti quasi tutti i testi sulla storia della guerra fredda sono stati scritti giocoforza dal punto di vista degli Stati Uniti, in particolare), la guerra fredda ebbe inizio nel 1947, con il crollo della coalizione alleata dei tempi di guerra. Come ha osservato John Lukacs, nell’arco di circa diciotto mesi, tra il 1946 e il 1947, a Washington si verificò un mutamento politico radicale e senza precedenti e in seguito la politica interna e l’opinione pubblica americana non sono mai più state le stesse14. Gaddis, tuttavia, vuole spiegarci la guerra fredda in una prospettiva diversa, come un’escrescenza organica della seconda guerra mondiale – in particolare del desiderio di Stalin di assorbire i nuovi territori occupati dalle sue armate – invece che una specie di infelice incidente di percorso internazionale che capitò al mondo subito dopo la guerra. Ma perché non spingersi un po’ più in là? Per gli uomini e le donne dell’epoca, in fondo, l’Europa nel 1945 non era soltanto il preludio di un futuro ignoto: era anche l’erede di un passato reale e vivo nel ricordo.

Dal punto di vista di un uomo di Stato europeo che esaminasse il periodo compreso tra il 1900 e il 1945 (e la maggior parte dei leader più anziani era in grado di farlo in base ai ricordi e all’esperienza personale), l’Europa (e quindi il mondo) doveva affrontare quattro dilemmi correlati: come ristabilire l’equilibrio internazionale turbato a partire dal 1871 con l’ascesa di una Germania dominata dalla Prussia; come riportare la Russia nel concerto delle nazioni in maniera stabile, dopo le distorsioni provocate dalla rivoluzione russa e i suoi strascichi internazionali; come risollevare l’economia mondiale dal disastroso crollo degli anni fra le due guerre e recuperare in qualche modo la crescita e la stabilità dell’epoca precedente il 1914; e come compensare il previsto declino della Gran Bretagna quale fattore economico e politico negli affari internazionali.

Fra il 1944 e il 1947 furono discusse varie possibili soluzioni a questi problemi e tutte prevedevano un certo grado di continuità con il passato. Ai francesi sarebbe tornato molto utile stringere un’alleanza con i russi, sul modello di quella del 1894, ma la Francia non aveva più niente da offrire in cambio alla Russia15. Molti tedeschi occidentali, in particolare Adenauer, non erano affatto contrari ad abbandonare l’Est prussiano – nei confronti del quale, da renani cattolici, nutrivano comunque una cordiale antipatia e un certo timore – in cambio di legami più stretti con i territori a Ovest, storicamente più affini. Il leader socialista francese Léon Blum (nato nel 1872) condivideva l’entusiasmo progressista di Winston Churchill per una comunità dell’Europa occidentale che compensasse la condizione drasticamente indebolita degli Stati nazionali divisi della regione. E Stalin, rifacendosi agli imperativi della lunga storia della Grande Russia e alle lezioni del recente passato, vedeva la possibilità di profittare della debolezza tedesca (così come i suoi predecessori avevano sfruttato quella della Polonia nel diciottesimo secolo) per assicurare all’Unione sovietica un hinterland imperiale in Occidente.

Ciò che rendeva difficile perseguire queste strategie abituali nelle circostanze predominanti nel 1945 era innanzitutto l’esistenza di Stati indipendenti nello spazio che separava la Russia dalla Germania; in secondo luogo, il carattere peculiare del regime russo-sovietico in sé e, in terzo luogo, l’assenza di sufficiente contropotere a Ovest della Germania. Prima della Grande guerra, nessuno di questi impedimenti esisteva. Nel 1914 gli Stati del Baltico, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Iugoslavia e buona parte della Romania si trovavano all’interno dei confini degli imperi tedesco, austriaco, ottomano o russo. L’indipendenza di questi paesi, stabilita a Versailles nel 1919, non poteva essere preservata – come Hitler aveva dimostrato e Stalin ora confermava – senza quel tipo di volontà e di potere che gli europei occidentali non furono in grado di esercitare nel 1938 e che non possedevano nel 1945. Ma il fatto che avessero già conosciuto l’indipendenza rendeva particolarmente ripugnante l’occupazione russa. Al tempo stesso, la natura del regime comunista faceva sì che le sue ambizioni imperiali fossero molto più minacciose per un’Europa occidentale indebolita dalla guerra, rispetto alle mire zariste sull’Europa centrale o sudorientale in passato. E la prostrazione economica della Gran Bretagna, associata alla scomparsa della Francia quale elemento determinante sulla scena politica internazionale, non lasciò ai leader di questi paesi altra scelta se non quella di persuadere gli Stati Uniti a prendere il loro posto.

In queste circostanze la guerra fredda non rappresentava un problema, bensì una soluzione, e questo è uno dei motivi per cui è durata così a lungo. Portando l’America in Europa a garantire la sicurezza contro ulteriori cambiamenti, gli europei occidentali si assicurarono la stabilità e la protezione necessarie per ricostruire la loro metà del continente. Per ironia della sorte, gli Stati Uniti assunsero così un ruolo molto simile a quello svolto dalla Russia zarista nei due decenni successivi alla sconfitta di Napoleone nel 1815, cioè agirono come una specie di gendarme continentale la cui presenza preveniva ulteriori perturbazioni dello statu quo da parte di una potenza rivoluzionaria riottosa. L’Unione sovietica nel frattempo fu lasciata libera di procedere nel governo dispotico della sua metà del continente, con la promessa di non interferenza in cambio dell’astensione da nuove avventure, un patto che in realtà si rivelò molto soddisfacente per Stalin e i suoi eredi16. Certo non fu un esito calcolato per compiacere i milioni di polacchi e cittadini di altre nazioni che rimasero così segregati sotto il governo «socialista»; ma poiché la maggior parte dei politici alleati non li aveva mai considerati parte del problema, non stupisce affatto che non abbiano avuto un ruolo di primo piano nella soluzione.

Vista così, la guerra fredda può trovare la sua collocazione nella longue durée della storia europea e internazionale. Le complicazioni emersero per due ragioni. In primo luogo, gli allineamenti e le divisioni in Europa si intrecciarono con la politica dei movimenti di indipendenza nazionale e di decolonizzazione in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente, con conseguenze pericolosamente ingannevoli per tutte le parti coinvolte. Tra il 1956 e il 1974 prese piede un curioso commercio: l’Europa occidentale e gli Stati Uniti esportavano nel mondo in via di sviluppo le idee e le istituzioni liberali del diciannovesimo secolo, esibendo l’Occidente capitalista come modello da emulare ed esortando l’adozione dei suoi costumi e delle sue pratiche; in cambio ricevevano miti e prototipi rivoluzionari destinati a mettere in discussione la loro stessa blanda (e relativa) prosperità. L’Unione sovietica si dedicava a scambi analoghi. Anch’essa esportava un’ideologia del secolo precedente – il socialismo marxista – e riceveva in cambio la fedeltà un po’ dubbia dei nuovi sedicenti rivoluzionari, le cui attività circondavano l’evanescente eredità bolscevica di un effimero alone di credibilità retroattiva.

La seconda complicazione era dovuta all’esistenza delle armi nucleari, che per molto tempo generarono confusione, e quindi rischi, nell’arena politica. L’Unione sovietica era quasi sempre in notevole ritardo nella corsa agli armamenti (anche se le tecniche ormai rodate degli eredi del principe Potëmkin tennero il fatto nascosto agli Stati Uniti per molti anni), ma questa inferiorità non fece altro che indurre i suoi leader a compensare lo svantaggio assumendo pose aggressive. I politici statunitensi, dal canto loro, impiegarono molti anni (e spesero somme di denaro spropositate) a imparare ciò che Truman sembra aver capito d’istinto sin dall’inizio: che ai fini dell’azione di governo le armi nucleari erano strumenti clamorosamente inutili. A differenza delle lance, era possibile sedercisi sopra, ma nient’altro. Tuttavia, come strumento di dissuasione un arsenale nucleare aveva la sua utilità, ma soltanto se si riusciva a convincere l’avversario che in casi estremi il suo impiego costituiva una possibilità reale. Per questo motivo la guerra fredda alimentò per molti anni un clima di terrore del tutto sproporzionato alle questioni in gioco, o alle intenzioni di quasi tutti i partecipanti.

A causa di questi due nuovi elementi, la guerra fredda sembrava cambiare natura e trasformarsi in qualcosa di radicalmente diverso da tutto ciò che era accaduto in passato. E quando finì, con il crollo di un avversario, vi fu dunque chi suppose che fossimo entrati in una nuova era della storia umana. Dal 1990 possiamo vedere che non era affatto vero. Il mondo ha senz’altro subìto un drastico cambiamento rispetto al 1950: i cavalli sono scomparsi così come il carbone, insieme con le tendenze sociali e le forme di lavoro che simboleggiavano. Sono spariti anche i grandi progetti di riforma, almeno per il momento. Ma ora che abbiamo vinto la guerra fredda siamo in grado di capire meglio di quanto riuscissimo a vedere prima che alcuni dilemmi che ha affrontato (o nascosto alla vista) sono tuttora irrisolti. La storia recente fa presagire che la soluzione sarà altrettanto introvabile.

 

* Questo saggio – una recensione di We Now Know: Rethinking Cold War History di John Lewis Gaddis, Oxford University Press, New York 1997 [trad. it. di Raffaele D’Agata, La guerra fredda: rivelazioni e riflessioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002] e di The Cominform: Minutes of the Three Conferences 1947/1948/1949, a cura di Giuliano Procacci, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1994 – è stato pubblicato per la prima volta nell’ottobre 1997 sulla «New York Review of Books».

1 The United States and the Origins of the Cold War, 1941-1947, Columbia University Press, New York 1972; The Long Peace: Inquiries into the History of the Cold War, Oxford University Press, New York 1987; Strategies of Containment: A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy, Oxford University Press, New York 1982; The United States and the End of the Cold War: Implications, Reconsiderations, Provocations, Oxford University Press, New York 1992.

2 Si veda la trattazione in Norman Naimark e Leonid Gibianskii (a cura di), The Establishment of Communist Regimes in Eastern Europe, 1944-1949, Westview, Boulder 1997, Introduction, pp. 1-17.

3 Si vedano, per esempio, le pubblicazioni di Thierry Wolton: Le Grand Recrutement, Grasset, Paris 1993, e La France sous influence, Grasset, Paris 1997. In un libro pubblicato di recente, Les Aveux des Archives: Prague-Paris-Prague 1948-1968, Seuil, Paris 1996, Karel Bartošek ha suscitato scalpore sostenendo che, secondo gli archivi, Artur London rimase al servizio delle autorità ceche ben dopo la scarcerazione e la pubblicazione del suo acclamato libro autobiografico sui processi farsa, L’Aveu [La confessione]. Bartošek ha fatto abbondante uso delle informazioni contenute in archivi finora segreti, ma le prove che ha raccolto sono allusive e indiziarie, più che conclusive.

4 Naimark e Gibianskii (a cura di), The Establishment of Communist Regimes in Eastern Europe, cit., Introduction, pp. 9-10. Si veda, per esempio, Hugh Seton-Watson, The East European Revolution, Methuen, London 1950; Adam B. Ulam, Titoism and the Cominform, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1952; e Vojtech Mastny, Russia’s Road to Cold War, Columbia University Press, New York 1979.

5 George Kennan, The View from Russia, in Thomas T. Hammond (a cura di), Witnesses to the Origins of the Cold War, University of Washington Press, Seattle 1982, p. 29.

6 Milovan Djilas, Rise and Fall, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1985 [trad. it. di Paolo Pepe, Se la memoria non m’inganna... Ricordi di un uomo scomodo, 1943-1962, Il Mulino, Bologna 1987]; Edvard Kardelj, Reminiscences: The Struggle for Recognition and Independence: The New Yugoslavia, 1944-1957, Blond and Briggs, London 1982 [trad. it. di D.B. Orazi, Memorie degli anni di ferro, Editori Riuniti, Roma 1980]; Eugenio Reale, Nascita del Cominform, Mondadori, Milano 1958, tradotto in francese con il titolo Avec Jacques Duclos au banc des accusés à la Réunion Constitutive du Kominform à Szklarska Poreba (22-27 septembre 1947), Plon, Paris 1958.

7 Norman Naimark, The Russians in Germany: A History of the Soviet Zone of Occupation, 1945-1949, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1995.

8 Si veda Bartošek, Les Aveux des Archives, cit., p. 372, appendice 28. Per la lettera di Ždanov a Thorez, si veda Vladislav Zubok e Constantine Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1996, p. 129.

9 Dopo essere stato costretto a prostrarsi a Szklarska Poręba e a scusarsi per l’incapacità dei comunisti francesi di imparare dall’eroico esempio iugoslavo, Jacques Duclos (che guidava la delegazione francese in entrambe le occasioni) si vendicò a Bucarest l’anno successivo. «È evidente», osservò, «che i dirigenti del partito comunista iugoslavo non tengono fede al principio del leninismo che prescrive la pratica della critica e dell’autocritica». Era perfettamente normale, sostenne, che l’Ufficio di informazione esaminasse la situazione nel partito in Iugoslavia: «I dirigenti del Partito dovrebbero essere i primi ad acconsentire, soprattutto perché, al precedente congresso dell’Ufficio di informazione, non hanno esitato a esercitare il loro diritto di criticare altri partiti». A questo punto, secondo il verbale, Andrej Ždanov interloquì: «Fino all’eccesso», offrendo un delizioso saggio di ipocrisia stalinista (si veda The Cominform: Minutes of the Three Conferences, cit., p. 557).

10 Vjačeslav Molotov, Molotov Remembers: Inside Kremlin Politics; Conversations with Felix Chuev, a cura di Albert Resis, Ivan R. Dee, Lanham (MD) 1993, p. 29, citato da Gaddis in La guerra fredda, p. 75.

11 Naimark, The Russians in Germany, cit., p. 467. Per la stessa tesi generale in un contesto diverso, si veda Jan T. Gross, Revolution from Abroad: The Soviet Conquest of Poland’s Western Ukraine and Western Belorussia, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1988.

12 Bruce Cumings, The Origins of the Korean War: The Roaring of the Cataract, 1947-1950, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1990, p. 621, citato in Gaddis, La guerra fredda, p. 147. Cumings si distingue per l’ampio uso di fonti primarie in lingua straniera. La maggior parte degli studiosi revisionisti era esperta in politica estera statunitense, usava pochissime se non nessuna fonte che non fosse statunitense e tendeva a proiettare sul resto del mondo i pregiudizi della politica interna americana (reali e accademici).

13 Dean Acheson, Present at the Creation: My Years in the State Department, Norton, New York 1969, p. 646. Acheson discuteva il modo in cui la prepotenza dei sovietici nei confronti di Adenauer nel 1952 contribuì ad assicurare il sostegno della Germania Ovest agli obiettivi americani.

14 George F. Kennan and the Origins of Containment, 1944-1946, University of Missouri Press, Columbia (MO) 1997, Introduzione di John Lukacs, p. 7.

15 In occasione della sua visita a Mosca nel dicembre del 1944 per tentare di concludere un’alleanza con i russi come garanzia contro un ritorno in auge della Germania, si dice che Charles de Gaulle abbia spiegato al suo entourage che l’ideologia non deve essere di ostacolo al perseguimento degli interessi immutabili dei francesi: «Tratto con Stalin come Francesco I trattò con Solimano; con questa differenza: nel sedicesimo secolo in Francia non c’era un partito musulmano». Si veda Wolton, La France sous influence, cit., p. 57.

16 Il rifiuto di Stalin, dopo il 1947, della «coesistenza pacifica» – espressione che riecheggiava una svolta politica identica avvenuta nel 1927 – può quindi essere interpretato non tanto come preludio a una campagna estera, quanto come segnale di repressione interna in arrivo. E tale infatti si rivelò.