Capitolo
1
Un declino inesorabile*
Fra gli storici del mondo anglofono spicca la «generazione di Hobsbawm». È composta di uomini e donne che cominciarono a studiare il passato a un certo punto dei «lunghi anni Sessanta», diciamo tra il 1959 e il 1975, e che modellarono immutabilmente il loro interesse per la storia recente sugli scritti di Eric Hobsbawm, per quanto ora dissentano da molte sue conclusioni. In quegli anni Hobsbawm pubblicò una serie davvero stupefacente di opere influenti: Primitive Rebels [I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale], che uscì nel 1959, presentava ai giovani studenti urbani un mondo di proteste rurali in Europa e oltreoceano con il quale ora abbiamo tutti molta più familiarità, in gran parte grazie al lavoro svolto da studiosi ispirati anzitutto dal libretto di Hobsbawm. Labouring Men [Studi di storia del movimento operaio], Industry and Empire [La rivoluzione industriale e l’impero] e Captain Swing [Rivoluzione industriale e rivolta nelle campagne] (con George Rudé) in sostanza riscrivono la storia economica della Gran Bretagna e la storia del movimento operaio britannico. Questi saggi riportarono all’attenzione degli accademici una tradizione mezzo sepolta di storiografia radicale britannica, dando nuovo vigore allo studio delle condizioni e delle esperienze degli artigiani e degli operai, ma apportando a questa ricerca impegnata un livello inedito di sofisticatezza tecnica e un sapere di raro respiro.
Se le interpretazioni e le conclusioni proposte in questi volumi oggi sembrano banali è solo perché adesso è difficile ricordare com’era la materia, prima che Hobsbawm la facesse propria. Nessun tipo di stroncatura revisionista o rettifica in voga può sminuire l’impatto duraturo di queste opere.
Ma l’impronta più profonda di Hobsbawm sulla nostra coscienza storica è stata impressa dalla poderosa trilogia dedicata al «lungo diciannovesimo secolo», dal 1789 al 1914, il cui primo volume, The Age of Revolution, 1789-1848 [Le rivoluzioni borghesi, 1789-1848], uscì nel 1962. È difficile valutare con precisione l’influenza esercitata da questo libro, perché è ormai parte indelebile della nostra percezione del periodo e tutte le opere successive tendono ad assimilarlo automaticamente oppure a confutarlo. L’impianto generale dell’opera, che interpreta l’epoca come un periodo di sconvolgimenti sociali dominati dall’entrata in scena e dall’affermazione della borghesia come classe dominante in Europa nordoccidentale, alla fine è diventato l’interpretazione «convenzionale», ora esposta a continue critiche e revisioni. A questo volume fece seguito, nel 1975, The Age of Capital, 1848-1875 [Il trionfo della borghesia, 1848-1875], uno studio magistrale degli anni centrali dell’Ottocento che attinge a una grande varietà di materiali ed evidenzia una profonda comprensione degli avvenimenti. Questo libro rimane, a mio parere, il libro più bello di Hobsbawm, che ricompagina le numerose trasformazioni intervenute nel mondo alla metà dell’era vittoriana e le incornicia in una narrazione storica organica tuttora convincente. The Age of Empire, 1875-1914 [L’età degli imperi, 1875-1914], pubblicato dodici anni dopo, è permeato di un’inconfondibile aria elegiaca, come se lo storico più influente del secolo scorso fosse in qualche modo dispiaciuto di vederlo giungere a termine per mano propria. L’impressione generale è quella di un’epoca di mutamenti proteiformi, durante la quale si è pagato un caro prezzo per il rapido accumulo di ricchezza e di conoscenze ma, ciononostante, un’epoca carica di promesse e di visioni ottimistiche di futuri radiosi in continuo miglioramento. Il diciannovesimo secolo, ci ricorda Hobsbawm nel suo ultimo libro, è il periodo «di cui mi sono occupato»: come Marx, dà il meglio di sé quando ne disseziona i paradigmi nascosti, e non lascia molti dubbi in merito al rispetto e all’ammirazione che prova per le straordinarie conquiste dell’epoca.
Sorprende dunque che Eric Hobsbawm abbia deciso di aggiungere alla trilogia un quarto volume dedicato al «breve ventesimo secolo». Come ammette nella prefazione, «ho evitato quasi sempre nella mia carriera di storico di trattare professionalmente dell’epoca che si sviluppa dopo il 1914». Giustifica la sua avversione adducendo motivi convenzionali: gli avvenimenti sono troppo vicini per poterli trattare con imparzialità (Hobsbawm, nato nel 1917, li ha vissuti quasi tutti personalmente), non è ancora disponibile un apparato completo di materiali interpretativi ed è troppo presto per poterne cogliere l’intero significato.
Ma è chiaro che esiste un altro motivo, un motivo che lo stesso Hobsbawm di certo non disconoscerebbe: il Novecento si è concluso con il crollo delle istituzioni e degli ideali politici e sociali ai quali è stato devoto per la maggior parte della sua vita. È difficile non scorgervi una storia triste e deprimente di errori e di catastrofi. Come altri appartenenti a una generazione eccezionale di storici britannici comunisti o ex comunisti (Christopher Hill, Rodney Hilton, Edward Thompson), Hobsbawm rivolse la sua attenzione professionale verso il passato rivoluzionario e radicale, e non solo perché la linea del partito rendeva di fatto impossibile scrivere apertamente della contemporaneità. Per un comunista da una vita che sia anche un serio studioso, la storia del nostro secolo presenta una serie di ostacoli interpretativi quasi insuperabili, come il suo ultimo lavoro involontariamente dimostra.
Ciononostante Hobsbawm ha scritto un libro per molti versi straordinario. Il ragionamento è esplicito e si riflette direttamente nella struttura tripartita del volume. La prima parte, L’età della catastrofe, copre l’arco che va dallo scoppio della prima guerra mondiale alla sconfitta di Hitler; la seconda, L’età dell’oro, descrive il formidabile periodo di crescita economica e di trasformazioni sociali senza precedenti che ebbe inizio intorno al 1950 e terminò alla metà degli anni Settanta, provocando La frana, titolo attribuito da Hobsbawm alla terza e ultima parte del libro, che tratta la storia degli ultimi due decenni. Ogni parte è imperniata su un tema dominante, rispetto al quale sono descritti gli avvenimenti specifici. Per quanto riguarda i decenni successivi all’assassinio di Sarajevo, l’autore descrive un mondo che per quarant’anni carambolò «da una calamità all’altra», un’epoca di miseria e di orrori, un periodo durante il quale milioni di profughi vagarono inermi attraverso il subcontinente europeo e le leggi della guerra, faticosamente congegnate nel corso dei secoli precedenti, furono abbandonate in blocco. (Dei 5,5 milioni di prigionieri di guerra russi durante la seconda guerra mondiale, circa 3,3 milioni morirono, una statistica fra le tante che sarebbe stata assolutamente inconcepibile per una generazione precedente.)
Riguardo all’«età dell’oro» successiva alla seconda guerra mondiale, Hobsbawm osserva che fu il momento in cui l’ottanta per cento dell’umanità uscì definitivamente dal Medioevo, un periodo di drastiche trasformazioni sociali e sconvolgimenti tanto in Europa quanto nel mondo coloniale, sul quale le potenze europee a quel punto rinunciavano a esercitare il controllo. Ma il successo esplosivo del capitalismo occidentale nel dopoguerra, che generava crescita economica a un ritmo senza precedenti e al tempo stesso ne distribuiva i benefici a un insieme sempre più vasto di persone, portava in sé i germi della sua stessa decadenza e dissoluzione. Non per niente Eric Hobsbawm ha acquistato notorietà per le sottili e sofisticate interpretazioni marxiste delle sue opere.
Le aspettative e le istituzioni innescate dall’esperienza di un’espansione e un’innovazione accelerate ci hanno lasciato in eredità un mondo con pochi punti di riferimento o pratiche riconoscibili, privo di continuità e solidarietà tra generazioni o tra le varie professioni. Per citare un solo esempio, la democratizzazione delle conoscenze e delle risorse (comprese le armi) e la loro concentrazione in mani private incontrollate minacciano di compromettere proprio le istituzioni del mondo capitalista che le ha generate. Senza pratiche condivise, culture comuni, aspirazioni collettive, il nostro è un mondo «che ha perso i suoi punti di riferimento e che è scivolato nell’instabilità e nella crisi».
In breve, la storia del ventesimo secolo di Eric Hobsbawm è la storia del declino di una civiltà, la storia di un mondo che ha portato alla piena fioritura il potenziale materiale e culturale del diciannovesimo secolo e ne ha tradito le promesse. In guerra alcuni Stati hanno ripreso a usare le armi chimiche contro civili disarmati (compresi i propri cittadini, nel caso dell’Iraq); le disparità sociali e ambientali prodotte dalle forze di mercato incontrollate sono in aumento, mentre qualsiasi idea collettiva di interessi e tradizioni comuni si va rapidamente affievolendo. In politica, il «declino dei partiti di massa organizzati, con una base di classe o con una ideologia, ha eliminato il più importante motore sociale che poteva spingere uomini e donne a diventare cittadini politicamente attivi». In ambito culturale ora tutto è «post-» qualcosa:
post-industriale, post-imperiale, post-moderno, post-strutturalista, post-marxista, post-Gutenberg e affini. Come i funerali, questi prefissi [prendono] atto ufficialmente della morte senza implicare alcun giudizio unanime e ancora meno alcuna certezza circa la natura della vita dopo la morte.
C’è un’aria di catastrofe imminente, che ricorda la disperazione di Geremia, in buona parte del racconto di Hobsbawm.
Ciò non basta tuttavia a sminuirne i pregi. Come ogni altro suo scritto, «l’era dei grandi cataclismi» è descritta e analizzata in una prosa chiara e pulita, del tutto priva di tecnicismi, ampollosità e presunzione. Conclusioni importanti sono espresse in frasi concise, d’effetto, spesso argute: l’impatto politico della prima guerra mondiale è colto nell’osservazione che «nessun vecchio governo rimase in piedi nell’area che va dalle frontiere francesi fino al Mar del Giappone»; la scarsa considerazione di Hitler per le democrazie ci viene rammentata così: «[l]a sola democrazia che prendeva sul serio era la Gran Bretagna, che a ragione considerava un paese non pienamente democratico». L’opinione poco lusinghiera dello stesso Hobsbawm nei riguardi della Nuova sinistra degli anni Sessanta è resa esplicita:
Proprio nel momento in cui giovani di sinistra, pieni di belle speranze, si richiamavano alla strategia di Mao Tse-tung, secondo la quale per far trionfare la rivoluzione bisognava mobilitare le sterminate masse rurali per assediare le roccheforti urbane della conservazione, milioni di contadini stavano abbandonando i villaggi per trasferirsi proprio nelle città1.
Il riferimento ai milioni di contadini serve a ricordarci che, pur essendo sfacciatamente eurocentrico, Eric Hobsbawm ha un peculiare ventaglio di interessi2. La conoscenza empatica e diretta dell’America latina, in particolare, arricchisce la sua descrizione delle ricadute della Depressione a livello mondiale e il raffronto tra Solidarność in Polonia e il Partito dei lavoratori in Brasile, entrambi movimenti operai di livello nazionale sviluppatisi durante gli anni Ottanta in opposizione alla politica di un regime repressivo, è altrettanto originale e suggestivo. Di sicuro, la sua cultura onnivora è rivolta verso il Sud, piuttosto che l’Est, con i risultati infelici che vedremo; ma a quanto pare continua ad avere grande familiarità con la letteratura sui radicali peruviani e sui banditi napoletani (e con gli uomini stessi), che usa con efficacia espressiva nell’analisi delle trasformazioni economiche e sociali nelle società arretrate. Con altrettanta disinvoltura può citare la Food and Food Production Encyclopedia del 1982 (un articolo sotto la voce «carni», intitolato Formed, Fabricated and Restructured Meat Products) a sostegno di una considerazione sul consumismo.
Questo libro ci ricorda anche che, per formazione e propensione, Eric Hobsbawm è uno storico economico, oltretutto analitico. Dà il meglio di sé quando tratta la Depressione, o la natura e le conseguenze del «boom» del dopoguerra, e perlopiù si astiene dalla storia militare o politica. La sua descrizione delle assurdità economiche del mondo sovietico («una colonia che produceva energia per le economie industriali più avanzate, cioè in pratica soprattutto i suoi satelliti occidentali») o dell’economia socialista come un «sistema industriale piuttosto arcaico, basato sul carbone e sull’acciaio» è nettamente superiore alle sue analisi politiche di quelle stesse società.
In modo analogo, è più a suo agio quando esamina il fascismo come prodotto della crisi economica mondiale che nell’analisi piuttosto sbrigativa delle sue origini politiche. Nel descrivere il drammatico crollo dei regimi comunisti nel 1989, rasenta il determinismo economico. Non intendo negare che le crisi del debito e la cattiva gestione economica siano stati fattori importanti nella caduta del comunismo, anzi; ma esaminandoli Hobsbawm si muove senza dubbio su un terreno familiare, dove preferisce restare. Tuttavia questo approccio conferisce notevole solidità alla sua descrizione degli sviluppi in Occidente in seguito al punto di svolta del 1974 e l’analisi degli annosi dilemmi dell’economia internazionale è limpida e convincente. Altrettanto lucida è la sua descrizione della crisi dell’economia fondata sul sistema assistenziale, emersa quando i leader nazionali cercarono di evitare i costi politici della recessione economica gravando di imposte una popolazione lavorativa in calo per sussidiare le vittime delle loro politiche.
Nonostante l’enfasi data alle tendenze economiche e alle dinamiche generali di lunga durata (aspetto che caratterizza tutti gli scritti di Hobsbawm), Il secolo breve è anche il suo libro più personale; il tono oscilla infatti tra una prospettiva interpretativa distaccata e il commentario intimo, quasi confidenziale. Afferma di avere studiato il ventesimo secolo «ascoltando e guardando», e noi gli crediamo3. L’inflazione dopo la prima guerra mondiale è colta nel ritratto del suo nonno austriaco che riscuote la polizza assicurativa giunta a maturazione e si ritrova con una somma appena sufficiente per una bevanda nel suo caffè preferito, mentre il disgusto estetico dello stesso Hobsbawm per il degrado urbano degli anni Sessanta è contrapposto al ricordo dei «grandi monumenti architettonici della borghesia liberale» di Vienna tra i quali era cresciuto. Quando esprime il parere che nel 1939 la fine degli imperi coloniali non sembrava imminente, si basa su ricordi personali: all’epoca né lui né altri studenti di un seminario per giovani comunisti provenienti dalla Gran Bretagna e dalle colonie se l’aspettavano.
Per dar prova dei cambiamenti sociali in atto a Palermo, della disoccupazione diffusa a San Paolo del Brasile o dei rischi comportati dall’introduzione del capitalismo in Cina può attingere alle conversazioni intrattenute con banditi siciliani, sindacalisti brasiliani e burocrati comunisti cinesi (non per niente nel profilo dedicatogli nel Who’s Who indica come passatempo preferito i «viaggi»). In qualità di membro del King’s College di Cambridge, conosceva Alan Turing, lo sfortunato inventore del computer, mentre i suoi contatti con i comunisti gli permettono di citare la testimonianza personale del sindaco (comunista) di Bologna riguardo alle condizioni favorevoli a un’economia agroindustriale emergente in Emilia-Romagna4.
Hobsbawm racconta la sua esperienza personale del secolo con una franchezza e un’onestà disarmanti5. Si considera parte delle «moltitudini attente e consenzienti» che ascoltavano Castro sproloquiare ore e ore di fila, ci rammenta che la «tradizione di sinistra» ha preferito non riconoscere che il fascismo, una volta al potere, poté contare sul sostegno di ex operai socialisti e comunisti; e fotografa l’innocente stupore di un sindacalista comunista inglese (di Londra) davanti alla scoperta del relativo benessere degli operai di Coventry: «Ti rendi conto [...] che lassù i compagni hanno la macchina?».
Egli stesso a volte si sbagliava e lo riconosce, e in più di un’occasione esprime ammirazione per i giornalisti professionisti che vedevano cose che lui, lo studioso marxista, non scorgeva. La profezia fatta quarant’anni prima da un corrispondente del «Times» londinese dalla Cina, secondo cui il comunismo sarebbe scomparso ovunque entro il ventunesimo secolo tranne nella Repubblica popolare, dove si sarebbe trasformato nell’ideologia nazionale, all’epoca sconvolse Hobsbawm, ed egli lo ammette; oggi però sembra decisamente plausibile. Verso la fine del volume, riflettendo sui dilemmi della nostra epoca, riconosce che anche Marx si sbagliava: l’umanità non sempre «si propone soltanto quei problemi che può risolvere».
Se i pregi del libro derivano dal suo carattere impegnato e soggettivo, lo stesso vale per i suoi difetti o, meglio, il suo difetto, perché in realtà ne ha uno solo, anche se assume molteplici forme. Poiché è una storia che si svolge nell’arco della vita di Hobsbawm – una vita dedicata fin dalla gioventù, come ci ha ricordato di recente in un’intervista radiofonica alla Bbc, a un’unica causa – egli è comprensibilmente incline a vedere i principali assetti e conflitti dell’epoca pressoché come li vedeva quando si andavano dispiegando. In particolare, le categorie destra e sinistra, fascista e comunista, progressista e reazionario sembrano essere cristallizzate, assai simili a come gli apparvero per la prima volta negli anni Trenta. Hobsbawm è quindi pronto a riconoscere i tragici errori della strategia comunista, le preferenze curiosamente simili dei dirigenti fascisti e comunisti nell’estetica pubblica e persino la pura e semplice atrocità del comunismo come sistema. Ma nemmeno per un attimo gli balugina l’idea di riconsiderare le polarità convenzionali dell’epoca e di trattare il fascismo e il comunismo non solo come fortuiti e paradossali alleati.
Mi pare un’occasione mancata. Per Hobsbawm, la guerra civile spagnola e le alleanze e le fedeltà che contribuì a plasmare restano «la sola causa politica che, anche a considerarla retrospettivamente, mantiene la purezza e la cogenza ideale che ebbe nel 1936». Ma è proprio per questo motivo che la guerra civile spagnola e, più in generale, le divisioni circostanziali degli anni Trenta oggi costituiscono un ostacolo a un radicale ripensamento delle illusioni alle quali diedero origine.
Hobsbawm, pertanto, non solo non discute il modo in cui Stalin sfruttò il conflitto in Spagna per regolare i conti a livello locale e internazionale dietro il pretesto di sostenere una guerra antifascista; tralascia anche di esaminare come l’intera esperienza dell’«unità antifascista» contribuì a foggiare una nuova immagine del comunismo internazionale in seguito alle catastrofi militari, economiche e strategiche dei suoi primi due decenni di vita. Per poter comprendere il ventesimo secolo, bisogna prendere atto di questa radicale rielaborazione del comunismo (ripetuta in chiave minore dopo il 1943). L’evoluzione del pensiero comunista e della sua pratica è invece descritta pressoché come veniva intesa e presentata allora, finanche nel linguaggio e nelle categorie adoperate, di modo che al fenomeno del bolscevismo non è prestata alcuna attenzione critica e analitica, se non nei suoi propri termini limitati.
Hobsbawm è dunque molto schietto nel trattare la rivoluzione bolscevica e il successivo regime comunista come «un programma per trasformare nazioni arretrate in nazioni avanzate», un’argomentazione a suo tempo diffusa tra i «revisionisti» e altri critici simpatizzanti di Sinistra che tentavano di spiegare come la rivoluzione di Lenin si fosse trasformata nell’autocrazia di Stalin. Ma non si chiede se non sia stato anche e soprattutto il primo e più eclatante tra i colpi di Stato del «Terzo mondo», che descrive con grande perizia altrove, con cui i modernizzatori rivoluzionari conquistano la capitale e si impadroniscono del potere con la forza in una società arcaica. La distinzione può sembrare insignificante, ma è fondamentale. Escludendo la rivoluzione bolscevica dalla categoria dei semplici «golpe» e sostenendo dal principio alla fine che fu una rivoluzione resa possibile dalle «masse», Hobsbawm difende il carattere sui generis dell’esperienza comunista e rimane così fedele a un’interpretazione del nostro secolo che appare sempre più inadeguata ora che tale esperienza è alle nostre spalle.
Analogamente, nel trattare il fascismo Hobsbawm perde l’occasione di riflettere sulla misura in cui la guerra di Hitler sia equiparabile, di fatto, a una grande rivoluzione europea, che trasformò l’Europa centrale e orientale e spianò il terreno per i regimi «socialisti» del dopoguerra, fondati sulla trasformazione radicale provocata da Hitler, in particolare l’annientamento dell’intelligencija e della classe media urbana nella regione, prima con lo sterminio degli ebrei e poi in seguito all’espulsione postbellica dei tedeschi dai territori slavi liberati. Preoccupato di minimizzare qualsiasi aspetto «rivoluzionario» del fascismo, Hobsbawm tratta la seconda guerra mondiale in maniera insolitamente tradizionale e sorvola l’ironia insita nel processo attraverso il quale Hitler spianò la strada a Stalin. Anche questo mi pare dovuto al fatto che continua a vedere il mondo come appariva allora, quando il fascismo e il comunismo erano in aperto conflitto sul piano ideologico e militare e Stalin rappresentava l’«ala sinistra» delle forze vittoriose dell’Illuminismo.
I risultati di questo approccio sono tuttavia più evidenti nel modo in cui Hobsbawm tratta l’Europa orientale – o anzi non la tratta: il «socialismo reale» nei territori situati tra la Germania e la Russia merita appena sei pagine in un libro che ne conta quasi seicento, con i tristemente famosi processi farsa degli anni Cinquanta liquidati in meno di un paragrafo. Nella sua descrizione blandamente revisionista delle origini della guerra fredda, Hobsbawm lascia intendere che soltanto dopo che gli americani avevano esercitato pressioni affinché i comunisti fossero esclusi dal governo in Francia e in Italia (nel maggio 1947) e minacciato un intervento se le elezioni del 1948 in Italia avessero preso la piega «sbagliata», «l’URSS fece altrettanto, eliminando i non comunisti dalle ‘democrazie popolari’ multipartitiche che da allora in poi furono ribattezzate come ‘dittature del proletariato’». Fino a quel momento, per citare le sue parole, «dove Mosca controllava regimi satelliti e movimenti comunisti, questi erano specificamente tenuti a non edificare Stati sul modello dell’URSS, bensì Stati con un’economia mista in regime di democrazia parlamentare multipartitica [...]».
La precisa attribuzione della responsabilità della guerra fredda può essere materia di dibattito, ma la tempistica e la finalità della strategia comunista all’interno dell’Europa orientale di sicuro non danno adito a equivoci. Qualunque cosa Stalin e i suoi seguaci avessero in mente nel 1945 per i regimi «amici» della regione, certamente non era una «democrazia multipartitica» in ogni senso intelligibile dei termini. La creazione di «regimi fotocopia geograficamente contigui» (per usare le parole del politologo Kenneth Jowitt) era in atto ben prima delle elezioni italiane dell’aprile 1948. Gli esempi più ovvi sono la Romania (dove nel febbraio 1945 arrivò Andrej Vyšinskij a indicare chi poteva e chi non poteva entrare nel governo di «coalizione») e la Bulgaria (dove Nikola Petkov, leader del Partito agrario, fu arrestato nel giugno del 1947 e giustiziato tre mesi dopo in seguito a un vergognoso processo farsa).
In Cecoslovacchia e in Ungheria la situazione era più confusa, almeno fino al 1947, sebbene nel caso ungherese le intimidazioni dei comunisti nei confronti del Partito dei piccoli proprietari, che riscuoteva la simpatia popolare, costrinsero i suoi esponenti a ritirarsi dal parlamento nel 1946. Anche in Cecoslovacchia, dove i comunisti locali godevano di grande popolarità e avevano ottenuto il 38 per cento dei voti alle elezioni del 1946, il sostegno elettorale si indebolì drasticamente nel corso del 1947. Per tutta risposta i comunisti sfruttarono l’influenza esercitata sulle forze di polizia e sul ministero dell’Interno per diffamare e screditare gli avversari (in particolare il Partito democratico slovacco e il Partito socialista nazionale ceco) e nel febbraio 1948 – due mesi prima delle elezioni italiane di quell’anno – presero il potere con un colpo di Stato politico6.
In Polonia nessuno si fece illusioni in merito a una «democrazia multipartitica». Nel governo postbellico del 1945 quattordici dei ventidue ministri erano stati membri del Comitato polacco di liberazione nazionale (il «comitato di Lublino»), che nel 1944 era stato incaricato dalle forze sovietiche di amministrare la Polonia liberata. I risultati di un referendum svoltosi nel luglio del 1946 in seguito a una violenta campagna durante la quale il governo intimidì e perseguitò i militanti non comunisti furono cinicamente truccati, così come le elezioni generali del gennaio 1947: gli esponenti del Partito dei contadini non ebbero accesso alla radio e i loro sostenitori furono arrestati a migliaia, le loro liste elettorali vennero escluse e in seno al parlamento e in altre sedi furono formulate accuse di spionaggio per screditarne i dirigenti. Ciononostante fu necessario riempire le urne elettorali di schede fasulle per scongiurare una sconfitta dei comunisti. Il risultato provocò proteste a livello internazionale, ma tutto fu vano. Nell’ottobre del 1947 Stanisław Mikołajczyk, il leader del Partito dei contadini, fuggì all’estero temendo per la propria vita. Qui come altrove all’inizio del 1949 queste tattiche avevano condotto a uno Stato monopartitico a tutti gli effetti, con i gruppi politici non comunisti abilitati solo in qualità di alleati o vassalli ubbidienti e i rispettivi leader in esilio, in carcere o morti. Sostenere che questo processo fu messo in moto soltanto come conseguenza diretta dell’intervento americano negli affari interni dei partner occidentali, e non prima di allora, è semplicemente scorretto.
Che uno storico meticoloso come Eric Hobsbawm commetta un errore così curioso non può, come direbbe egli stesso, essere casuale. La difficoltà sembra essere il fatto che, come Marx, prova scarso interesse per queste piccole nazioni. Descrivere gli anni tra il 1950 e il 1974 come un’«età dell’oro» può solo sembrare paradossale a una persona che sia vissuta a Praga, per esempio. E ci vuole una buona dose di insolita noncuranza per scrivere: «Quello che accadde a Varsavia nel 1944 fu infatti il prezzo pagato per una rivolta prematura: i rivoltosi avevano un solo colpo nel caricatore, anche se piuttosto grosso». Come proposizione sulla rivolta urbana, certo, è sostanzialmente vera, ma come descrizione di quanto avvenne in Polonia quando l’Armata rossa aspettò che i nazisti annientassero la resistenza polacca prima di attraversare la Vistola è storicamente disonesta, a dir poco.
Come un altro famoso storico britannico di sinistra, Hobsbawm sembra trovare qualcosa di vagamente fastidioso nelle «terre di mezzo»7. Non si spiega altrimenti la sua giustificazione del modello bolscevico quale unica alternativa, nel 1917, alla «disintegrazione, che era stata già il destino degli imperi arcaici usciti sconfitti dalla guerra, cioè dell’Impero austro-ungarico e di quello turco. La rivoluzione bolscevica garantì un esito diverso, preservando almeno per altri 74 anni l’unità territoriale della maggioranza delle regioni che facevano parte del vecchio impero zarista». Che non si tratti di un’osservazione casuale è chiarito più avanti nel libro, quando l’autore afferma che la disintegrazione dell’Unione sovietica lasciò un «vuoto internazionale fra Trieste e Vladivostok» per la prima volta dalla metà del diciottesimo secolo.
Le persone residenti in quel «vuoto» vedono la storia del Novecento in maniera molto diversa. Ma sono necessariamente «nazionaliste» e il nazionalismo (come la religione) è un argomento parecchio trascurato in questo libro. Anche da un punto di vista puramente analitico sembrerebbe un errore: qualunque opinione si abbia del sentimento nazionale (e Hobsbawm gli riserva pochissima simpatia, in questa come in altre opere), il suo ruolo nella storia della nostra epoca merita sicuramente più di qualche osservazione sprezzante sull’«egoismo collettivo» di sloveni, croati, cechi e loro pari. L’autodeterminazione nazionale può essere una reazione stupida ed «emotiva» a problemi che essa non è in grado di affrontare, come dice Hobsbawm, ma affermarlo significa rischiare di non cogliere un aspetto fondamentale della nostra epoca. Senza una conoscenza più approfondita delle fedi di ogni tipo – laiche e religiose – lo storico del ventesimo secolo si ritrova in una condizione di grave svantaggio volontario8.
Il problema della fede ci riporta agli anni Trenta e al rapporto dello stesso Hobsbawm con la sua materia. Anche se non si fa illusioni in merito all’ex Unione sovietica, ha difficoltà ad ammettere che essa non ebbe caratteristiche positive (nemmeno quella di mantenere o imporre la stabilità sulla carta dell’Europa). Sostiene quindi che ha avuto almeno il pregio di trasmettere all’Occidente l’idea di pianificazione economica e, per ironia della sorte, ha così salvato il capitalismo minacciandone l’esistenza e dotandolo al tempo stesso dei mezzi per sopravvivere. Ma non fu il gosplan ad accendere l’entusiasmo per la pianificazione tra i giovani radicali degli anni Trenta, che raggiunse l’apice nelle economie miste dell’Europa occidentale del dopoguerra9. Ciò che Hobsbawm non si cura di rilevare è che molti pianificatori del dopoguerra trassero ispirazione non da Mosca, ma da Roma (o, nel caso francese, da Vichy): in molti casi fu la pianificazione fascista, non quella comunista, ad affascinare i tecnocrati che presero le redini negli anni Quaranta. L’ammirazione per i piani quinquennali sovietici, d’altra parte, era molto diffusa tra gli intellettuali: i fabiani, André Gide e altri, compresi gli studenti di sinistra della generazione di Hobsbawm. Anche in questo caso la storia del nostro tempo ubbidisce troppo facilmente ai ricordi personali.
Il desiderio di trovare almeno un po’ di senso residuo nell’intera esperienza comunista pare essere infine il motivo alla base della descrizione piuttosto fiacca del terrore stalinista fornita da Hobsbawm. Per riassumere la tesi a favore dell’industrializzazione accelerata, fa ricorso all’analogia con l’economia di guerra:
In una economia di guerra [...] gli obiettivi produttivi possono e anzi devono venire fissati senza considerare i costi, dal momento che la verifica delle scelte economiche dipende soltanto dalla possibilità di raggiungere quegli obiettivi e dal tempo necessario. Come in tutti gli sforzi estremi, il metodo più efficace di conseguire l’obiettivo e di tener fede alle scadenze è impartire ordini urgenti, che generano un impegno spasmodico.
Si potrebbe obiettare che non era in corso una guerra e in ogni caso gli «sforzi estremi» servivano a salvare il regime bolscevico annientando milioni di esseri umani. Riguardo a queste perdite di vite umane, Hobsbawm afferma giustamente che non possono essere «difese in alcun modo», ma si avverte la mancanza di una descrizione più esauriente dell’intera tragedia, più sensibile dal punto di vista storico e sul piano umano. Quello che segue, per contro, è il commento tagliente di Hobsbawm sulle giustificazioni ottocentesche, ottimistiche e benevole, della nuova legge sui poveri del 1834:
Può darsi che i riformatori della Poor Law credessero onestamente che la moralità dei poveri ci guadagnasse dalla separazione tra mariti e mogli negli ospizi di mendicità; [...] Per quanto riguarda le vittime di queste tesi, i risultati furono altrettanto gravi – e forse peggiori – che se fossero stati perseguiti con crudeltà deliberata: degradazione inumana, impersonale, incallita dello spirito di uomini e donne e distruzione della loro dignità. Forse ciò era storicamente inevitabile e magari necessario; ma le vittime soffrivano e la sofferenza non è un privilegio di coloro che sono istruiti: qualunque storico che non sia in grado di capirlo non merita che si leggano le sue opere10.
L’Unione sovietica dava l’impressione di rappresentare una buona causa, di fatto l’unica causa che valesse la pena sostenere, e questo ne attenuava i crimini agli occhi di molti appartenenti alla generazione di Hobsbawm. Altri potrebbero dire che ciò li rendeva solo più esecrabili11. In ogni caso, la fine del comunismo ha colmato di felicità milioni di persone, anche se l’euforia iniziale è stata smorzata dalle difficoltà successive, e ciò mette in dubbio la conclusione di Eric Hobsbawm secondo cui «[il] vecchio secolo non è finito bene». Alla fine, si è indotti a chiedersi: «per chi?». Il tono cupo, quasi apocalittico, della parte finale del volume lascia in ombra il fatto che gli anni Ottanta per molti furono anche un decennio di liberazione, e non solo nell’Europa dell’Est. È senz’altro vero, come Hobsbawm afferma in varie occasioni, che nessuno sembra più avere soluzioni da offrire per i problemi del mondo, che procediamo a tentoni nella nebbia globale, che viviamo in un mondo nel quale «il passato [...] ha perso il suo ruolo, in cui le vecchie mappe e carte che hanno guidato gli esseri umani [...] non raffigurano più il paesaggio nel quale ci muoviamo». Ma non è di per sé evidente che le soluzioni perentorie su vasta scala, come quelle che abbiamo perduto, siano mai state buone: tutto sommato, hanno fatto molto più male che bene.
Nel 1968 ero fra gli studenti che ascoltavano attenti e pieni di ammirazione una conferenza di Eric Hobsbawm sul tema, se ricordo bene, dei limiti del radicalismo studentesco. Ho ancora ben presente la sua conclusione, perché era in contrasto con la temperie dell’epoca. A volte, ci rammentò, l’importante non è cambiare il mondo, ma interpretarlo. Ma per interpretare il mondo è necessaria anche una certa immedesimazione con il modo in cui è cambiato. Il suo ultimo libro è una storia interessante, spesso brillante, sempre elegante e intelligente del mondo che abbiamo ereditato. Se non è all’altezza delle sue opere migliori, bisogna ricordare quanto sia alto lo standard di qualità cui ci ha abituato.
Ci sono tuttavia un paio di cambiamenti cruciali intervenuti nel mondo – la morte del comunismo, per esempio, o la perdita della fede nella storia e nelle funzioni terapeutiche dello Stato ad essa collegata – con i quali l’autore non sempre è a proprio agio. È un peccato, perché ciò informa e a volte deforma la sua trattazione in un modo che potrebbe sminuirne l’impatto proprio su chi ha più bisogno di leggerla e trarne insegnamento. E, nella sua versione del ventesimo secolo, mi è mancato l’implacabile sguardo indagatore che ha fatto di Eric Hobsbawm il nume indispensabile del diciannovesimo. In una straordinaria apologia pro vita sua, ci rammenta che gli storici «assolvono il compito professionale di ricordare ai loro concittadini ciò che questi desiderano dimenticare». È un incarico impegnativo e crudele.
* Questo saggio – una recensione del libro di Eric Hobsbawm, The Age of Extremes: A History of the World, 1917-1991, Pantheon, New York 1995 [trad. it. di Brunello Lotti, Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1996] – è stato pubblicato per la prima volta nel maggio 1995 sulla «New York Review of Books».
1 Pur essendo un eroe per molti studenti radicali negli anni Sessanta, Eric Hobsbawm non fece mai concessioni alle mode di sinistra dell’epoca. Per citare le sue parole: «Nessuno che avesse un’esperienza sia pur minima dei limiti della vita reale, ossia nessuno che fosse autenticamente un adulto, avrebbe potuto escogitare slogan fiduciosi ma palesemente assurdi come quelli scanditi nel maggio parigino del 1968 o nell’autunno caldo italiano del 1969». In questo ricorda un po’ Albert Soboul, il grande storico (comunista) francese dei sanculotti. Molti giovani gauchiste francesi, ammiratori della sua opera, prima di incontrarlo supponevano che il Professor Soboul dovesse condividere l’informalità sartoriale e lo stile sociale egualitario dei suoi oggetti di studio. Nessuno ripeté mai l’errore.
2 Qualsiasi storia del mondo nel nostro secolo è, giocoforza, perlopiù una storia delle cose che gli europei (e i nordamericani) hanno inflitto a se stessi e agli altri e del modo in cui i non europei hanno reagito e ne sono stati influenzati (di solito negativamente). Questo, in fondo, è quel che c’è di guasto nel ventesimo secolo, dal punto di vista del «Terzo mondo», e criticare Hobsbawm, come alcuni recensori hanno fatto, per averlo capito e per avere scritto tenendone conto, mi sembra incoerente.
3 Dati i vantaggi offerti da queste fonti dirette, e considerata la grande quantità di materiale disponibile, è davvero un peccato che Hobsbawm non abbia fatto maggiore ricorso alle memorie e alle esperienze narrate da altri viaggiatori nel corso del secolo.
4 Quando una delle più grandi imprese d’Europa gli chiese se Bologna avrebbe gradito essere scelta quale sede per un importante stabilimento, il sindaco declinò gentilmente l’offerta. Come spiegò a Hobsbawm, l’economia mista della regione funzionava egregiamente e non c’era alcun bisogno di introdurvi i problemi industriali di grandi città come Milano o Torino.
5 Anche se non fa cenno al suo percorso professionale, durante il quale pagò care le sue simpatie politiche, almeno nei primi anni.
6 Nella memorialistica degli ex comunisti ungheresi e cechi, così come dei loro oppositori, è chiaro che, dal momento in cui i tedeschi furono espulsi, i comunisti locali si prefissero di sconfiggere e screditare i nemici politici interni: falsando le elezioni, ricorrendo all’intimidazione politica e giudiziaria, sfruttando la protezione sovietica. Il fatto che potessero contare anche su una riserva reale, benché in rapido calo, di sostegno popolare non dovrebbe offuscare la realtà. Si veda, per esempio, Eugen Loebl, My Mind on Trial, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1976 [trad. it. di Rosanna Pelà, La mia mente sotto processo, Sperling & Kupfer, Milano 1979]; Béla Szász, Volunteers for the Gallows: Anatomy of a Show-Trial, Norton, New York 1971; Jo Langer, Une saison à Bratislava, Seuil, Paris 1979; Stephen Kertesz, Between Russia and the West: Hungary and the Illusions of Peacemaking 1945-1947, University of Notre Dame Press, South Bend (IN) 1986. I socialisti nazionali cechi non avevano alcuna parentela con la varietà tedesca, al di là della misura in cui potevano entrambi ricondurre indirettamente le loro origini alle divisioni etniche all’interno del movimento operaio in Boemia alla fine del diciannovesimo secolo.
7 Scrivendo nel 1941, G.D.H. Cole riteneva che gli Stati sovrani indifendibili dell’Europa orientale non avessero futuro e la prospettiva migliore fosse che un’Unione sovietica postbellica vittoriosa semplicemente inglobasse la Polonia, l’Ungheria e i Balcani. G.D.H. Cole, Europe, Russia and the Future, citato in Serban Voinea, Satéllisation et libération, «Revue socialiste» (marzo 1957), p. 226.
8 Tra le fedi laiche si dovrebbero includere i miti ideologici che hanno emozionato gli intellettuali nel nostro secolo, senza i quali molti fra i peggiori aspetti della «caduta nella barbarie» non possono trovare adeguata spiegazione. Hobsbawm ha curiosamente poco da dire in proposito.
9 Né queste erano globalmente «pianificate» come Hobsbawm a volte lascia intendere. Esistevano numerose varianti sul tema della pianificazione dopo il 1945, che andavano dalla nazionalizzazione senza pianificazione (Gran Bretagna) alla pianificazione selettiva con una parziale nazionalizzazione (Francia), alla strategia economica coordinata senza pianificazione formale né nazionalizzazione (Germania Ovest). Anche se riconosce a John Maynard Keynes il merito di aver demolito la plausibilità della teoria economica non interventista del laissez-faire, Hobsbawm non dedica molto spazio in questo libro all’analisi della relazione tra economia keynesiana, pianificazione sociale in tempo di guerra e prassi economica postbellica.
10 E.J. Hobsbawm, History and the «Dark Satanic Mills», in Labouring Men: Studies in the History of Labour, Basic Books, New York 1964, p. 118 [trad. it. di Luisella Passerini, La storia e le «diaboliche buie officine», in Studi di Storia del movimento operaio, Einaudi, Torino 1972, p. 141]. Hobsbawm mantiene lo stesso freddo distacco interpretativo anche nella trattazione del terrore fascista, e questo stona con il potente ritratto che fa del Novecento come secolo di criminalità e follia. Quel che sembra mancare è una descrizione di prima mano, che compensi l’effetto estraniante delle analisi di vasta portata.
11 Si confrontino le riflessioni dello scrittore polacco Aleksander Wat: «La schiavitù, la tirannia, la miseria, la fame sarebbero incomparabilmente più facili da sopportare se non ci fosse l’obbligo di chiamarle ‘libertà’, ‘giustizia’, ‘bene del popolo’». Aleksander Wat, My Century: The Odyssey of a Polish Intellectual, University of California Press, Berkeley 1990, p. 173 [Il mio secolo: Memorie e discorsi con Cesław Miłosz, a cura di Luigi Marinelli, Sellerio, Palermo 2013, p. 334].