Capitolo 21
Lo splendore delle ferrovie*

Più di qualsiasi altro progetto tecnico o istituzione sociale, la ferrovia è simbolo di modernità. Nessuna forma di trasporto concorrente, nessuna innovazione tecnologica successiva, nessun’altra industria ha prodotto o agevolato il cambiamento in maniera altrettanto incisiva dell’invenzione e dell’adozione del sistema di trasporto ferroviario. Peter Laslett una volta parlò del «mondo che abbiamo perduto»: la differenza inimmaginabile delle cose come erano un tempo. Proviamo a pensare al mondo prima della ferrovia, al significato che poteva avere la distanza e all’ostacolo che rappresentava quando il tempo necessario per coprire il tragitto, per esempio, da Parigi a Roma (e i mezzi adoperati per farlo) era variato ben poco nel corso di due millenni. Pensiamo ai limiti imposti all’attività economica e alle opportunità di vita dall’impossibilità di spostare generi alimentari, merci e persone in gran numero o a una velocità superiore a quindici chilometri l’ora; alla persistente natura locale di tutto il sapere, che fosse culturale, sociale o politico, e alle conseguenze di questa compartimentazione.

Soprattutto, pensiamo a quanto il mondo apparisse diverso agli occhi di uomini e donne prima dell’avvento della ferrovia. La causa era in parte dovuta alle cognizioni limitate. Fino al 1830 poche persone sapevano che aspetto avessero paesaggi sconosciuti, città distanti o terre straniere, perché non avevano occasione né motivo di visitarle. Ma, in parte, il mondo prima della ferrovia appariva tanto diverso da ciò che venne dopo e da ciò che conosciamo oggi anche perché la ferrovia non si è limitata a facilitare gli spostamenti e quindi a modificare il modo in cui il mondo era visto e descritto. Ha trasformato il paesaggio stesso.

La ferrovia è figlia della rivoluzione industriale: il motore a vapore aveva già compiuto sessant’anni quando, nel 1825, fu dotato di ruote e non avrebbe mai potuto funzionare senza il carbone che veniva estratto anche grazie ad esso. Ma fu proprio la rete ferroviaria a dare vita e slancio alla rivoluzione industriale: era il principale consumatore di quelle stesse merci il cui trasporto agevolava. Inoltre, molte sfide tecniche poste dalla modernità industriale – le comunicazioni telegrafiche a lunga distanza, le reti di distribuzione di acqua, gas ed energia elettrica per uso domestico e industriale, i sistemi fognari urbani e rurali, la costruzione di grandi edifici, l’assembramento e la circolazione di un gran numero di esseri umani – furono affrontate e superate innanzitutto dalle compagnie ferroviarie.

I treni – o, per meglio dire, i binari sui quali correvano – rappresentavano la conquista dello spazio. Strade e canali potevano anche rappresentare grandi conquiste tecniche, ma quasi sempre erano stati un’estensione, tramite sforzi fisici o miglioramenti tecnici, di una risorsa antica o presente in natura: un fiume, una valle, un sentiero o un valico. Persino Telford e MacAdam fecero poco più che lastricare strade esistenti. Le rotaie ridisegnarono il paesaggio. Penetravano nelle colline, scomparivano sotto strade e canali, attraversavano valli, città, estuari. L’armamento poteva essere posato su longherine di ferro, traverse di legno, ponti di mattoni, massicciate di pietrisco o terra compattata; l’introduzione o l’estrazione di questi materiali poteva trasformare completamente tanto la città quanto la campagna. Con l’aumentare del peso dei treni, anche queste fondamenta diventavano sempre più invadenti: più massicce, più robuste, più profonde.

I binari ferroviari erano costruiti ad hoc: nient’altro poteva correrci sopra, e i treni non potevano correre su altro. Dato che poteva essere tracciata e costruita solo su determinate pendenze, con raggi di curva limitati e libera dall’interferenza di ostacoli come boschi, massi, campi seminati e vacche, la ferrovia esigeva – e ovunque otteneva – potere e autorità tanto sugli uomini quanto sulla natura: diritti di passaggio, di proprietà, di possesso e di demolizione assolutamente inediti in tempo di pace, allora come oggi. Le comunità che si adattavano alla presenza della ferrovia di solito prosperavano. Le cittadine e i paesi che opponevano resistenza o perdevano la battaglia o, se riuscivano a impedire o rinviare la costruzione di una linea, di un ponte o di una stazione in pieno centro, venivano tagliati fuori: spese, viaggiatori, merci e mercati li aggiravano e prendevano altre direzioni.

La conquista dello spazio determinò un’inevitabile riorganizzazione del tempo. Anche la modesta velocità dei primi treni (fra trenta e cinquanta chilometri l’ora) era superiore all’immaginabile, per tutti tranne una manciata di ingegneri. Molti viaggiatori e osservatori ragionevoli ritenevano non solo che la ferrovia avesse rivoluzionato il rapporto con lo spazio e le possibilità di comunicazione, ma anche che i treni, muovendosi a una velocità inaudita e senza intralci nella loro avanzata, fossero straordinariamente pericolosi. E infatti lo erano. I sistemi di segnalazione, comunicazione e frenatura erano sempre un passo indietro rispetto al continuo aumento della velocità e della potenza dei motori: fino agli ultimi decenni del Novecento, i treni erano predisposti al moto, più che all’arresto. Data la situazione, era indispensabile tenerli a distanza di sicurezza l’uno dall’altro e sapere sempre dove si trovavano. Fu così che, per considerazioni tecniche e motivi di sicurezza, da un lato, e per gli scambi commerciali, la comodità o la pubblicità, dall’altro, nacque l’orario ferroviario.

Oggi è difficile farsi un’idea dell’importanza e delle implicazioni delle tabelle orarie, introdotte nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, per l’organizzazione del sistema ferroviario stesso, naturalmente, ma anche per la vita quotidiana di ogni persona. Il mondo premoderno era vincolato dallo spazio, quello moderno dal tempo. La transizione fu molto rapida ed ebbe luogo nei decenni centrali del diciannovesimo secolo, accompagnata dall’orologio, presente ovunque: bene in vista, in cima a torri appositamente costruite in tutte le grandi stazioni, all’interno delle biglietterie, lungo i binari e (in formato tascabile) in dotazione ai ferrovieri. Tutto ciò che venne dopo – l’istituzione dei fusi orari stabiliti a livello nazionale e internazionale, l’orologio all’interno delle fabbriche, l’onnipresente orologio da polso, gli orari degli autobus, dei traghetti e degli aeroplani, dei programmi radiofonici e televisivi, gli orari scolastici e tanto altro – si limitò a mutuarne l’idea. Le compagnie ferroviarie erano fiere dell’indomito ruolo dei treni nell’organizzazione e nel dominio del tempo: basta osservare il soffitto dipinto da Gabriel Ferrer (1899) nel ristorante della Gare (ora Musée) d’Orsay: un’«Allegoria del tempo» per rammentare ai clienti che il loro treno non aspetterà il dessert.

Prima dell’inaugurazione della linea ferroviaria Liverpool-Manchester, nel 1830, la gente non si spostava in gruppi numerosi. Una tipica diligenza ospitava quattro persone al suo interno e dieci all’esterno. Ma non era molto adoperata, e di sicuro non da chi poteva scegliere un altro mezzo di trasporto. I ricchi e gli avventurosi viaggiavano soli o en famille – a cavallo, in calesse o su una carrozza privata – e nessun altro faceva viaggi lunghi o frequenti. Ma il treno fu un mezzo di trasporto di massa sin dal principio – anche i primissimi treni trasportavano centinaia di persone – ed era quindi importante stabilire e proporre differenziazioni: di prezzo, di comodità, di servizio e soprattutto di persone che un passeggero tendeva a frequentare. Altrimenti, i viaggiatori dei ceti più elevati non si sarebbero avvicinati e i più poveri non avrebbero potuto permettersi il prezzo del biglietto.

La ferrovia istituì dunque le «classi» di viaggio: tipicamente tre, ma fino a cinque nell’Impero russo e in India. Queste classi, che diedero origine all’uso moderno delle espressioni «prima classe», «seconda classe» eccetera, a fini sia pratici sia metaforici, erano riprodotte non solo nelle carrozze ferroviarie e nei rispettivi arredi, ma anche nelle sale d’attesa, nei bagni pubblici, nelle biglietterie, nei ristoranti e in tutti i numerosi servizi offerti presso le stazioni. A tempo debito, i particolari servizi messi a disposizione dei viaggiatori di prima classe – carrozze ristorante, carrozze club, carrozze per fumatori, carrozze letto, carrozze di lusso – riproducevano e definivano (nella letteratura, nell’arte e nel design) la solidità della vita borghese rispettabile e prospera. Nella loro forma più sfarzosa – di solito i treni a lunga percorrenza o internazionali, il 20th Century Limited, il Golden Arrow o l’Orient Express – questi servizi esclusivi qualificavano il viaggio moderno come forma particolarmente invidiabile di ostentazione culturale, di stile raffinato di una minoranza privilegiata.

Con il passare del tempo le ferrovie semplificarono la stratificazione sociale in due sole classi. Sotto questo aspetto, rispecchiavano i cambiamenti intervenuti in buona parte dell’Occidente dopo la prima guerra mondiale, anche se non sempre altrove. In parte era anche una risposta alla concorrenza. A partire dagli anni Trenta, l’automobile cominciò a rivaleggiare con il treno come mezzo di trasporto preferito per i viaggi brevi e persino a media distanza. Dal momento che l’automobile – come i suoi defunti predecessori trainati da cavalli, il calesse e la carrozza – era per eccellenza un veicolo privato, essa non rappresentava una minaccia soltanto per il viaggio ferroviario, ma anche per l’idea stessa di trasporto pubblico come sistema rispettabile e desiderabile per spostarsi. Come prima del 1830, così dopo il 1950: chi poteva permetterselo, sceglieva con crescente frequenza la privacy. Non c’era più né la necessità né il desiderio di disciplinare il trasporto pubblico prestando così tanta attenzione alle categorie tarate sulla classe sociale.

I treni permettono alle persone di spostarsi, ma la loro incarnazione più visibile, il loro monumento pubblico più maestoso – la stazione ferroviaria – è immobile. Le stazioni ferroviarie, specialmente le grandi stazioni di testa, sono oggetto di studio per la loro rilevanza e per i loro usi pratici: come punti di riferimento per l’organizzazione dello spazio, come sistemi innovativi per radunare e instradare una quantità di persone senza precedenti. Le nuove, enormi stazioni metropolitane di Londra, Parigi, Berlino, New York, Mosca, Bombay e altre città hanno infatti provocato una rivoluzione nell’organizzazione sociale dello spazio pubblico. Ma hanno anche avuto straordinaria importanza nella storia dell’architettura e dell’urbanistica, del design urbano e della vita pubblica.

Portare una linea ferroviaria in una città o una cittadina era un’impresa colossale. Oltre ai problemi tecnici e sociali – lo sgombero o la demolizione di interi quartieri (in genere quelli più poveri: più di duecento negozi, officine e chiese, insieme con migliaia di appartamenti in affitto, furono rasi al suolo per fare spazio alla Grand Central Station di New York), la costruzione di ponti e tunnel per superare gli ostacoli urbani e naturali – c’erano le conseguenze comportate dal situare al centro di una vecchia città una nuova tecnologia, un edificio imponente e flussi e riflussi costanti, quotidiani, di decine di migliaia di persone. Dove bisognava costruire le stazioni? Come si dovevano integrare nel tessuto urbano esistente? Che aspetto dovevano avere?

Le soluzioni a questi interrogativi diedero origine alla vita urbana moderna. Dagli anni Cinquanta dell’Ottocento (con la costruzione della Gare de l’Est a Parigi) agli anni Trenta del Novecento (con il completamento della gigantesca Stazione Centrale di Milano), le stazioni di testa da Budapest a St. Louis furono il punto di riferimento della città contemporanea. Il loro design variava dal gotico al Tudorbethan, dal revival greco al barocco, dal Beaux Arts al neoclassico. Alcune, specialmente in America all’inizio del Novecento, seguivano accuratamente lo stile architettonico dell’antica Roma: le dimensioni della Penn Station a New York erano tarate su quelle delle Terme di Caracalla (217 d.C.), mentre il soffitto a botte della Union Station di Washington prendeva direttamente a prestito le volte a crociera delle Terme di Diocleziano (306 d.C.).

Questi edifici imponenti, che in alcuni casi lasciavano intravedere la loro funzione originaria, mentre negli anni successivi tendevano a mimetizzarla rivolgendosi alle altre strutture urbane, invece che ai depositi ferroviari alle loro spalle, erano fonte di sommo orgoglio per la città e spesso rappresentavano un’occasione per ridisegnare, nei fatti se non nel nome, gran parte della topografia urbana. Le grandi città europee – Berlino, Bruxelles, Parigi, Londra – furono riconfigurate intorno alle loro stazioni ferroviarie, creando ampi viali di accesso, progettando la metropolitana e le reti tramviarie in modo da collegare le linee ferroviarie in arrivo (di solito, come a Londra, un tracciato vagamente circolare con diramazioni a raggiera) e accordando i progetti di modernizzazione urbana alla probabile crescita della domanda di alloggi generata dalle ferrovie.

La stazione ferroviaria diventò un nuovo spazio civico che primeggiava su tutti gli altri: una grande stazione di testa impiegava direttamente ben più di mille persone; al culmine del suo sviluppo, la Penn Station a New York dava lavoro a tremila persone, tra cui 355 facchini, o redcaps. L’albergo costruito sopra o accanto alla stazione, di proprietà della compagnia ferroviaria, ne impiegava altre centinaia. Nelle sale e sotto le arcate che sostenevano i binari, la ferrovia metteva a disposizione altro abbondante spazio per le attività commerciali. Dagli anni Sessanta dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento, la maggior parte delle persone entrava e usciva dalle città attraverso le stazioni ferroviarie, le cui dimensioni e il cui splendore – viste dappresso o dall’estremità opposta di un nuovo viale costruito per esaltarne la maestosità (per esempio il nuovo Boulevard de Strasbourg antistante la Gare de l’Est a Parigi) – rispondevano direttamente e volutamente alle ambizioni commerciali e all’immagine civica che la metropoli moderna aveva di sé.

Come era facile intuire dall’architettura della stazione, le ferrovie non si limitavano a essere puramente funzionali. Il viaggio era visto come un piacere, come un’avventura, come la quintessenza dell’esperienza moderna. Non ci si aspettava che i viaggiatori abituali e gli altri clienti si limitassero ad acquistare un biglietto e partire: l’idea era che si soffermassero a fantasticare e sognare (anche per questo, fra l’altro, furono introdotti i «biglietti di ingresso», che ebbero grande successo). Per questa ragione, le stazioni erano progettate, in molti casi intenzionalmente, sul modello delle cattedrali, con i vari locali e impianti suddivisi in navate, absidi, cappelle laterali, uffici e rituali accessori. Come locus classicus di questo genere di ammiccamenti e strizzatine d’occhio allo stile monumentale neo-ecclesiastico, spicca la stazione di St. Pancras (1868) a Londra. Le stazioni ospitavano ristoranti, negozi e svariati servizi. Per molti decenni furono la sede centrale preferita degli uffici di poste e telegrafi della città. E, soprattutto, erano il luogo ideale in cui avere visibilità.

Il manifesto ferroviario, la pubblicità ferroviaria, l’opuscolo (per reclamizzare itinerari, gite, escursioni, mete esotiche e altre amenità) vennero in uso molto presto nella storia del viaggio in treno. Già la prima generazione di gestori ferroviari aveva capito perfettamente che i treni avrebbero creato bisogni che essi erano i soli in grado di soddisfare, e che più bisogni riuscivano a generare, più la loro attività si sarebbe ampliata. Entro certi limiti, le compagnie ferroviarie si occupavano direttamente di reclamizzare i loro prodotti – nei casi più celebri, con i superbi manifesti espressionisti e in stile déco che dominarono i muri delle stazioni e le comunicazioni pubblicitarie sui giornali più o meno tra il 1910 e il 1940. Ma anche se in molti casi possedevano alberghi e persino navi a vapore, le compagnie ferroviarie non erano attrezzate per gestire l’intera gamma di servizi verticali ai quali avevano spalancato le porte, e queste attività finirono nelle mani di una nuova dinastia, quella degli agenti di viaggio, fra i quali la famiglia di Thomas Cook del Derbyshire è stata di gran lunga il più influente.

Cook (1808-1892) è l’effigie sia del dinamismo commerciale sprigionato dalle possibilità offerte dal viaggio in treno sia della gamma di esperienze alle quali davano accesso. In principio una piccola impresa familiare che organizzava gite domenicali in treno per i soci delle leghe della temperanza locali, Cook immagazzinò una grande quantità di informazioni su treni, autobus e navi, oltre a stringere contatti presso alberghi e luoghi di interesse: prima in Gran Bretagna, poi nell’Europa continentale e infine nelle Americhe. Cook e i suoi successori e imitatori organizzavano l’intero viaggio; anzi, con la collaborazione delle ferrovie, inventarono i resort, mete verso le quali era ora possibile viaggiare: Cook prenotava e il treno provvedeva al trasporto, che fossero situati in montagna, al mare o in «angoli incantevoli» appena individuati a questo scopo.

Ma, soprattutto, gli organizzatori di vacanze fornivano informazioni sul viaggio. Permettevano ai viaggiatori di immaginare e prevedere (e pagare) il loro itinerario prima di partire, stuzzicando l’attesa e riducendo al minimo il rischio. Gli opuscoli, i libretti e le guide di Cook – che fornivano consigli ai viaggiatori su cosa visitare, cosa aspettarsi, cosa indossare, cosa dire e come dirlo – erano smerciati soprattutto nei nuovi punti vendita aperti da edicolanti e librai nelle stazioni ferroviarie. Nel 1914 Cook aveva ormai compiuto il passo logico successivo e cominciato ad aprire filiali all’interno o nei pressi delle stazioni ferroviarie e degli alberghi, a pubblicare orari ferroviari e persino a sostenere carrozze ferroviarie e i servizi offerti durante il viaggio.

Le illustrazioni sui tabelloni ferroviari, o nella variopinta letteratura distribuita dagli agenti di viaggio e dalle guide turistiche, colgono un altro aspetto delle ferrovie: il loro ruolo nell’arte moderna, la versatilità con cui si prestavano a diventare l’icona del nuovo e del contemporaneo. Gli artisti, da parte loro, non ebbero mai dubbi in proposito. Da Rain, Steam and Speed di Turner (1844), attraverso Gare Saint-Lazare di Monet (1877), Station di Edward Hopper (1908), Grand Central Station di Campbell Cooper (1909), fino ai tipici manifesti della metropolitana di Londra negli anni interbellici (non ultima la classica mappa ideata da Harry Beck nel 1932, imitata se non emulata da ogni successiva mappa delle ferrovie e delle metropolitane in tutto il mondo), i treni e le stazioni ferroviarie costituirono il tema o lo sfondo di quattro generazioni di arte pittorica moderna.

Ma è nella più moderna di tutte le arti moderne che la ferrovia è stata apprezzata e valorizzata con maggiore efficacia. Il cinema e le ferrovie hanno raggiunto la massima espressione insieme – dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta del Novecento – e sono storicamente inseparabili. Uno dei primi cortometraggi mai girati riguardava un treno: L’Arrivée d’un train à la Ciotat [L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat] dei fratelli Lumière (1895). I treni sono un’esperienza sensoriale: visiva e (soprattutto all’epoca del vapore) acustica. Avevano quindi un «talento» naturale per i registi cinematografici. Le stazioni sono anonime, piene di ombre, movimento e spazi vuoti. L’attrazione che esercitano sui cineasti non è misteriosa. Ma l’enorme varietà di pellicole che sfruttano le stazioni, i treni e la prospettiva o il ricordo di un viaggio in treno è comunque stupefacente. Nessun altro tipo di viaggio si è rivelato un soggetto altrettanto adatto nel cinema internazionale: il cavallo e l’automobile non hanno la stessa versatilità del treno. I film western e i road movie invecchiano rapidamente e, pur avendo un mercato internazionale, sono stati prodotti soltanto negli Stati Uniti.

Sarebbe ozioso enumerare i film che riguardano o sfruttano le ferrovie, da The General [Come vinsi la guerra] (1927) ad Assassinio sull’Orient Express (1974). Ma merita riflettere su quello che è forse il più famoso di tutti, Brief Encounter [Breve incontro] di David Lean (1945), un film in cui la stazione, il treno e le sue destinazioni non si limitano a fare da materiale scenico, suscitare emozioni e offrire opportunità. La peculiarità dei dettagli (il potere trascendentale dell’orario, la struttura della stazione e la sua collocazione nella città e nella comunità, l’esperienza fisica e l’incidenza del vapore e del carbone sulla trama) ne fa molto più di un’ambientazione. Le scene alla Carnforth Station, giustapposte alla vita familiare della quale minacciano la tranquillità, rappresentano il rischio, l’opportunità, l’incertezza, la novità e il cambiamento: la vita stessa.

 

* Questo scritto è la prima parte di un saggio scritto da Tony Judt nel 2007 come studio per un libro che si sarebbe dovuto intitolare Locomotion. A causa della sua malattia e della sua morte prematura, il libro non è mai stato scritto. Questo articolo è stato pubblicato postumo nel dicembre 2010 sulla «New York Review of Books».