Capitolo 2
Europa: la grande illusione*

I

La Comunità europea è stata fondata quasi quarant’anni fa con l’obiettivo dichiarato di promuovere l’unione «sempre più stretta» fra i popoli dell’Europa. È un’impresa straordinaria, sebbene i risultati siano un po’ meno lusinghieri di quanto affermino i suoi fautori. Pochi si oppongono, in linea di principio, agli obiettivi che persegue e i vantaggi pratici che offre agli Stati membri, per esempio gli scambi commerciali senza restrizioni, sono ovvi. Questo, in sostanza, è il motivo per cui quasi tutti vogliono entrarci. Sono ora in corso negoziati tra gli Stati membri per creare una moneta unica europea e introdurre meccanismi di adozione delle decisioni comuni e di intervento collettivo; al contempo viene offerta ai paesi dell’ex Europa comunista la prospettiva dell’adesione negli anni a venire.

Le probabilità che l’Unione europea riesca a mantenere le sue promesse di un’unione sempre più stretta, pur restando aperta a nuovi paesi alle stesse condizioni, sono davvero esili. Innanzitutto, le circostanze storiche eccezionali che hanno caratterizzato il periodo compreso tra il 1945 e il 1989 sono irripetibili. In verità, l’effetto dirompente degli avvenimenti del 1989 si è fatto sentire in Occidente con almeno altrettanta intensità che all’Est. Il co-dominio franco-tedesco intorno al quale era stata costruita l’Europa occidentale del dopoguerra in sostanza si reggeva su un’intesa reciprocamente vantaggiosa: i tedeschi avrebbero disposto dei mezzi economici e i francesi avrebbero conservato l’iniziativa politica. Nei primi anni del dopoguerra, com’è ovvio, i tedeschi non avevano ancora raggiunto la ricchezza attuale e il predominio dei francesi era reale. Ma a partire dalla metà degli anni Cinquanta le circostanze mutarono e di lì in poi l’egemonia della Francia sugli affari dell’Europa occidentale si basò su un’arma nucleare che il paese non poteva usare, su un esercito che non poteva schierare all’interno del continente e su un prestigio politico internazionale che derivava in larga misura dalla magnanimità interessata delle tre potenze vittoriose alla fine della guerra.

Questo curioso interludio si è ora concluso. La situazione può essere illustrata da un dato economico. Un grafico relativo all’influenza economica francese nel 1990 rivela che è limitata all’«Europa dei nove», cioè i sei Stati membri originari (Germania, Francia, Italia e Benelux), più il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca. Negli scambi con questi paesi, la Francia rappresentava un forte importatore ed esportatore di prodotti e servizi. Ma la Germania, dal canto suo, comprendeva già nella propria sfera d’influenza economica non solo l’attuale «Europa dei quindici», ma anche buona parte del continente a Sud e ad Est. Il significato è chiaro: la Francia era diventata una potenza regionale, confinata al margine occidentale dell’Europa, mentre la Germania, ancora prima dell’unificazione, era tornata a essere la grande potenza d’Europa.

L’impatto del 1989 ha creato nuove difficoltà anche per i tedeschi. Perché, se la debolezza e il declino del potere internazionale risvegliano ricordi spinosi per la Francia, lo stesso effetto è prodotto in Germania da un evidente eccesso di potere. I politici tedeschi, da Adenauer a Helmut Kohl, hanno colto ogni occasione per sminuire la forza tedesca, rimettendo ai francesi le iniziative politiche e ribadendo di non desiderare altro che una Germania stabile in un’Europa prospera; sono così rimasti schiacciati sotto il peso della loro stessa retorica, lasciando in eredità all’Europa post-1989 uno Stato tutto muscoli senza uno scopo nazionale ben definito.

Di conseguenza, l’agenda nazionale della Germania oggi è un po’ troppo fitta. Oltre al problema economico e politico di assorbire i Länder orientali, i tedeschi devono affrontare il paradosso della Ostpolitik precedente all’unificazione, ossia il fatto che molti politici tedeschi, soprattutto di sinistra, erano ben contenti di mantenere le cose così come stavano e avrebbero lasciato volentieri il Muro in piedi un po’ più a lungo. I tedeschi devono fare i conti anche con l’imbarazzo causato dalle loro stesse capacità: ora che possono guidare e palesemente guidano l’Europa, dove dovrebbero condurla? E di quale Europa sono i leader naturali? Dell’Europa che tende a Ovest, forgiata dai francesi, o di quell’Europa tradizionale, funzionale agli interessi tedeschi, nella quale la Germania non si trova al margine orientale, ma precisamente al centro?

Una Germania nel cuore dell’Europa porta con sé echi e ricordi che molte persone, forse soprattutto i tedeschi, dal 1949 cercano di allontanare. Ma l’immagine di una Germania che ha risolutamente voltato le spalle ai ricordi angosciosi dell’Est, che si aggrappa con fervore ai suoi alleati occidentali del dopoguerra, come se essi soltanto si interponessero fra la nazione e i suoi demoni, non è molto convincente.

Anche le circostanze economiche di base sono mutate in Europa. In seguito alla proclamazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio nel 1950, per un’intera generazione l’Europa occidentale beneficiò di un’inedita combinazione di crescita elevata e quasi piena occupazione. Da questa congiuntura favorevole scaturì la convinzione, riflessa in una serie di previsioni economiche ottimistiche dell’Ocse, che il ciclo di crisi che aveva segnato l’economia europea nel mezzo secolo precedente si fosse definitivamente interrotto. La grande crisi del petrolio del 1974 avrebbe posto fine a quel tipo di illusioni. Nel 1950 l’Europa occidentale dipendeva dal petrolio soltanto per l’8,5 per cento del fabbisogno energetico; la parte restante era ancora perlopiù coperta dal carbone, il combustibile fossile locale e poco costoso. Nel 1970 il petrolio rappresentava ormai il 60 per cento del consumo energetico europeo. La quadruplicazione del prezzo del greggio mise quindi fine a venticinque anni di energia a basso costo, determinando un brusco e definitivo aumento dei costi di produzione e di trasporto e del costo della vita. Nella Repubblica federale di Germania il Pnl scese dello 0,5 per cento nel 1974 e poi ancora dell’1,6 per cento nel 1975, segnali senza precedenti nel Wirtschaftswunder del dopoguerra che trovarono conferma nel 1981 e 1982, quando l’economia della Germania Ovest subì una nuova flessione, rispettivamente dello 0,2 per cento e dell’1 per cento. In Italia nel 1976 il Pnl diminuì (del 3,7 per cento) per la prima volta dalla fine della guerra. Né la Germania né alcuna altra economia dell’Europa occidentale è mai più stata la stessa.

Queste crisi ebbero gravi ripercussioni sulla Comunità (poi Unione) europea. Un’importante caratteristica dell’organizzazione era stata la capacità di soddisfare con pari efficacia i diversi bisogni degli Stati membri, bisogni derivanti da esperienze e ricordi del periodo interbellico che differivano profondamente. I belgi (come i britannici) temevano la disoccupazione più di ogni altra cosa, i francesi cercavano soprattutto di evitare la stagnazione malthusiana dei decenni precedenti, i tedeschi vivevano nel terrore di una moneta instabile e inflazionata. Dopo il 1974, l’economia in stallo dell’Europa li minacciava tutti con l’aumento della disoccupazione, il rallentamento della crescita e il brusco aumento dei prezzi. Sono dunque ricomparsi, inaspettatamente, i vecchi malanni. Lungi dal poter offrire i vantaggi del miracolo economico a una comunità di beneficiari in continua espansione, l’«Europa» non può più nemmeno essere certa di riuscire ad assicurarli a se stessa. Gli avvenimenti del 1989 hanno portato questo problema alla luce, ma le origini dell’incapacità dell’Unione di affrontarlo si possono rintracciare quindici anni prima.

Il ricordo della disoccupazione fra le due guerre varia da un paese a un altro. Non fu mai un grande flagello in Francia, dove rimase mediamente al 3,3 per cento annuo durante tutti gli anni Trenta. Ma in Gran Bretagna, dove il 7,5 per cento della forza lavoro era già disoccupato negli anni Venti, la media annua dell’11,5 per cento nel corso degli anni Trenta rappresentava un fenomeno che i politici e gli economisti di ogni colore giuravano non si sarebbe mai più dovuto ripetere. In Belgio e in Germania, dove il tasso di disoccupazione si aggirava intorno al 9 per cento, erano diffusi sentimenti analoghi. Era quindi un motivo di vanto per l’economia dell’Europa occidentale del dopoguerra essere rimasta vicina alla piena occupazione per gran parte degli anni Cinquanta e Sessanta. Negli anni Sessanta il tasso di disoccupazione medio annuo in Europa occidentale raggiungeva appena l’1,6 per cento. Nel decennio successivo salì al 4,2 per cento. Alla fine degli anni Ottanta era di nuovo raddoppiato, portando il tasso di disoccupazione medio annuo nella Comunità europea al 9,2 per cento; nel 1993 la cifra era salita all’11 per cento.

Analizzando questi dati deprimenti si possono individuare tendenze ancora più allarmanti. Nel 1993 la disoccupazione registrata fra uomini e donne al di sotto dei venticinque anni era superiore al 20 per cento in sei paesi dell’Ue (Spagna, Irlanda, Francia, Italia, Belgio e Grecia). La disoccupazione di lunga durata interessava più di un terzo del totale delle persone senza lavoro nelle sei nazioni citate, oltre che nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e nell’ex Germania Ovest. L’effetto redistributivo dell’inflazione degli anni Ottanta acuisce l’impatto di queste cifre, allargando il divario tra persone che lavorano e disoccupati. Inoltre, i periodi di ripresa economica non producono più l’effetto che avevano negli anni del boom successivi al 1950, cioè di assorbire l’eccedenza di manodopera e risollevare i più svantaggiati. Oggi chi si ricorda più dei miraggi degli anni Sessanta, quando si credeva allegramente che i problemi di produzione fossero stati risolti e tutto ciò che restava da fare era ridistribuire i benefici?

La combinazione tra rapida espansione urbana e successiva stagnazione economica in Europa occidentale ha comportato non solo una nuova minaccia di insicurezza economica, condizione sconosciuta alla maggior parte degli europei dalla fine degli anni Quaranta, ma anche maggiori perturbazioni sociali e rischi concreti rispetto a qualsiasi altro periodo successivo alla Rivoluzione industriale. In Europa occidentale oggi si possono vedere agglomerati urbani desolati, periferie degradate e ghetti irrecuperabili all’interno delle città. Persino le grandi capitali – Londra, Parigi, Roma – non sono più né altrettanto pulite e sicure né fiduciose quanto lo erano solo trent’anni fa. In queste città, e in decine di cittadine di provincia da Lione a Lubecca, si sta formando una sottoclasse urbana. Se tutto questo non ha avuto conseguenze sociali e politiche più devastanti, il merito è dei sistemi di assistenza sociale di cui gli europei occidentali si sono dotati dopo il 1945.

La crisi dello Stato sociale è quindi il terzo motivo per cui l’Unione europea non può pensare di proiettare le proprie conquiste e promesse in un futuro infinito. La popolazione dell’Europa occidentale sta invecchiando. Sin dalla metà degli anni Sessanta la tendenza generale evidenzia un calo del numero di figli per famiglia, al punto che alcuni paesi, in particolare l’Italia e la Spagna, non riescono nemmeno a mantenere costante la loro popolazione. In Spagna il tasso di natalità nel 1993 ha toccato il minimo storico, raggiungendo appena l’1,1 per mille. Gli europei devono ora sostenere una popolazione di anziani numerosa e in espansione a spese di un numero sempre più ridotto di giovani, molti dei quali non hanno un lavoro. Un generoso sistema di servizi sociali concepito per economie prospere, nelle quali un gran numero di giovani occupati sosteneva i bisogni sociali di una popolazione relativamente ristretta di vecchi e malati, è ora sottoposto a forti pressioni.

In Europa settentrionale e occidentale la popolazione di età superiore a sessantacinque anni è cresciuta tra il 12 e il 17 per cento (a seconda del paese) dalla metà degli anni Sessanta. Inoltre, anche le persone che hanno meno di sessantacinque anni non possono più essere contate automaticamente tra i «fattori produttivi» nazionali: in Germania Ovest la percentuale di uomini di età compresa tra sessanta e sessantaquattro anni con un lavoro retribuito è scesa dal 72 al 44 per cento nei due decenni successivi al 1960; nei Paesi Bassi le cifre erano rispettivamente 81 e 58 per cento. Al momento gli anziani sottoccupati sono soltanto un onere costoso. Ma una volta che i figli del baby boom cominceranno ad andare in pensione (intorno al 2010), la presenza di una popolazione anziana immensa, frustrata, annoiata, improduttiva e, alla fine, malata potrebbe provocare una grave crisi sociale.

La maggior parte dei politici europei sa bene che i costi di mantenimento dello Stato sociale nella sua forma postbellica non possono essere sostenuti all’infinito. La difficoltà sta nel decidere chi scontentare prima: i contribuenti il cui numero è in calo o i beneficiari involontari il cui numero è in crescita. Entrambe le parti possono votare. Finora una combinazione di abitudini e buone intenzioni ha favorito la conservazione del maggior numero possibile di benefici sociali. Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, nel dibattito sul «welfare» un altro fattore ha minacciato di falsare il giudizio politico nazionale in modo del tutto sproporzionato alle dimensioni del fenomeno: la cosiddetta «questione immigrati».

In conseguenza dell’immigrazione dalle ex colonie e dalle sponde del Mediterraneo, attirata da prospettive di lavoro in un’economia che fagocitava manodopera per alimentare la sua rapida crescita, all’inizio degli anni Sessanta l’Europa occidentale si ritrovò per la prima volta nel corso del secolo con un numero di immigrati superiore a quello degli emigrati. Nel 1973, anno in cui si raggiunse il picco di «presenze straniere» in Europa occidentale, le nazioni della Cee insieme con l’Austria, la Svizzera, la Norvegia e la Svezia contavano circa 7,5 milioni di lavoratori stranieri, quasi cinque milioni dei quali si trovavano in Francia e in Germania, dove costituivano più o meno il 10 per cento della forza lavoro. Nonostante la netta diminuzione verificatasi d’allora in poi, dovuta al fatto che i governi hanno limitato l’immigrazione per motivi economici e politici, la presenza di «immigrati» è rimasta significativa. Secondo i dati del 1990, gli stranieri rappresentano circa il 6,1 per cento della popolazione tedesca, il 6,4 per cento di quella francese, il 4,3 per cento di quella olandese e il 3,3 per cento di quella britannica. Queste cifre non comprendono gli immigrati naturalizzati, o i figli di stranieri nati nei diversi paesi, sebbene in alcuni – in particolare la Germania – questi continuino a essere contati come stranieri e non godano di pieni diritti di cittadinanza.

Negli ultimi anni questi immigrati e i loro figli sono diventati obiettivo di risentimento e paura da parte della popolazione «autoctona», sentimenti fomentati e sfruttati tanto dai politici estremisti quanto da quelli dei grandi partiti. Fino a che punto questo processo si sia spinto è visibile in Francia. Nel maggio del 1989, il 28 per cento dei sostenitori gollisti di Jacques Chirac si dichiarava «sostanzialmente d’accordo» con le idee sugli immigrati espresse nel programma del Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen. Nel 1991 la cifra era salita al 50 per cento. E se gli elettori comunisti e socialisti non erano altrettanto favorevoli era solo perché un numero significativo di essi era già passato dalla parte di Le Pen: nelle elezioni presidenziali del 1995 si è aggiudicato il 30 per cento dei voti della classe operaia occupata, mentre il candidato socialista Lionel Jospin ha ottenuto appena il 21 per cento.

Così, alla fine degli anni Ottanta una minoranza consistente degli elettori tradizionali in Francia non riteneva affatto indecoroso dichiararsi d’accordo con politiche che vent’anni prima sarebbero state considerate inaccettabili perché troppo simili al fascismo (fra le proposte incluse nell’elenco di «Cinquanta misure da adottare sull’immigrazione», stilato da Le Pen nel novembre del 1991, una prevedeva la revoca di naturalizzazioni già concesse, un atto di ingiustizia retroattiva praticato l’ultima volta in Francia sotto il governo di Philippe Pétain). In Austria il partito di estrema destra di Jörg Haider, il Partito della libertà austriaco, ha ottenuto il 22 per cento dei voti alle elezioni nazionali del dicembre 1995. Anche in Germania sono state introdotte crescenti restrizioni riguardanti i «lavoratori ospiti» e altri potenziali immigranti «nel loro stesso interesse».

Il confronto politico sull’immigrazione non si placherà in tempi brevi, perché le migrazioni transcontinentali e intercontinentali sono tornate a essere un tratto distintivo della società europea e i timori e i pregiudizi locali garantiranno che continuino a essere considerate un elemento destabilizzante e sfruttabile a fini politici. I pregiudizi dei decenni precedenti nei confronti degli immigrati polacchi, italiani o portoghesi alla fine si smorzarono quando i loro figli, che non si distinguevano per religione, lingua o colore, si integrarono nel panorama sociale. Questi vantaggi derivanti dall’invisibilità culturale e fisica non sono fruibili dai loro successori provenienti dalla Turchia, dall’Africa, dall’India o dalle Antille. L’Europa non ha una grande tradizione di assimilazione effettiva – o, in alternativa, «multiculturalismo» – per quanto riguarda le comunità realmente straniere. Gli immigrati e i loro figli andranno a ingrossare le file dei «perdenti» nella competizione per le ridotte risorse dell’Europa occidentale.

Nella storia postbellica dell’Europa, finora i «perdenti» hanno ricevuto sostentamento grazie a complicati e costosi sistemi di aiuti regionali istituiti dall’Unione europea all’interno di ciascun paese e tra i diversi paesi. Tali sistemi equivalgono a una forma di sostegno istituzionalizzato: correggono continuamente le deformazioni del mercato che hanno concentrato la ricchezza e le opportunità nel ricco nucleo nord-occidentale, senza incidere granché sulle cause delle disparità. L’Europa meridionale, le periferie (Irlanda, Portogallo, Grecia), la sottoclasse economica e gli «immigrati» costituiscono quindi una comunità di svantaggiati per i quali l’Ue, da un lato, è l’unica fonte di sostegno – perché, senza l’assistenza di Bruxelles, gran parte dell’Europa occidentale, dai distretti minerari depressi alle zone rurali improduttive, si troverebbe ancora più a malpartito di quanto non sia – e, dall’altro, è causa di invidia e risentimento. Perché, se ci sono perdenti, ci sono anche vincitori.

Per vedere l’«Europa» all’opera dalla parte dei vincitori è sufficiente trascorrere qualche giorno nel triangolo formato dalle città di Saarbrücken (Germania), Metz (Francia) e Lussemburgo. Qui i prosperi cittadini di tre paesi si spostano liberamente attraverso frontiere praticamente scomparse. Persone, professioni, beni di consumo e spettacoli di intrattenimento fanno la spola senza difficoltà fra lingue e Stati diversi, apparentemente ignari delle tensioni e inimicizie storiche che caratterizzarono questa stessa regione in un passato non molto distante. In quest’area i bambini continuano a crescere in Francia, Germania o Lussemburgo e imparano la storia del loro paese secondo i riti del sistema di istruzione nazionale, ma ciò che apprendono non trova più molta corrispondenza in ciò che vedono. Nel complesso, è un bene. La logica naturale dell’unione del Saarland con la Lorena si è compiuta, non già sotto l’egida dell’alto comando tedesco o di un esercito di occupazione francese, bensì sulla base dei progetti benevoli della Commissione europea. C’est magnifique, mais ce n’est pas l’Europe. O, ad essere onesti, in effetti è l’«Europa», ma da un punto di vista molto particolare. Perché: di cosa consiste questa Europa, in termini geografici? Quali sono le sue capitali e dove sono le sue istituzioni? La Commissione e i suoi servizi amministrativi hanno sede a Bruxelles. Il Parlamento e le sue commissioni si riuniscono a Strasburgo e a Lussemburgo. La Corte di giustizia europea siede all’Aia. Le decisioni cruciali in merito all’ulteriore unificazione sono prese a Maastricht, mentre un accordo che prevede la soppressione delle frontiere interne e il controllo comune di quelle esterne è stato firmato a Schengen, in Lussemburgo. Tutte e sei le città, situate a breve distanza l’una dall’altra, sono distribuite lungo il corridoio che collega il Mare del Nord alle Alpi, che costituiva il fulcro e la principale via di comunicazione dell’Impero carolingio nel nono secolo. Qui, potremmo dire, si trova il cuore (e l’anima, qualcuno aggiungerebbe) dell’Unione europea di oggi. Ma la sede istintiva, atavica (e politicamente calcolata) di queste moderne capitali d’«Europa» dovrebbe servire da monito: la realtà dell’Europa di oggi potrebbe non essere tanto nuova e ciò che viene annunciato come nuovo potrebbe non essere del tutto vero.

L’Europa di oggi presenta un’altra caratteristica curiosa. È più facile descrivere i vincitori, le persone e i luoghi che hanno compiuto progressi nell’Unione e associano la loro prosperità a un’identità marcatamente europea, facendo riferimento alle regioni, non agli Stati nazionali. Gli esempi di grande successo nell’Europa contemporanea sono il Baden-Württemberg, nel sud-ovest della Germania, il Rodano-Alpi in Francia, la Lombardia e la Catalogna. Tre di queste «super regioni» (nessuna delle quali ospita la capitale del rispettivo paese) sono raggruppate attorno alla Svizzera, come se volessero riuscire in qualche modo a rampicare fuori dai vincoli della loro associazione con le regioni più povere dell’Italia, della Germania e della Francia e diventare esse stesse, per prossimità e affinità, piccole e prospere repubbliche alpine. Il livello di prosperità e di potere economico di queste regioni è sbalorditivo. Il Rodano-Alpi, assieme all’area metropolitana di Parigi, rappresenta circa un terzo del prodotto interno lordo francese. Nel 1993 la Catalogna rappresentava il 19 per cento del Pil della Spagna, il 23 per cento delle esportazioni e attirava un quarto degli investimenti esteri; il reddito pro capite superava del 20 per cento la media nazionale.

Le regioni ricche dell’Europa occidentale hanno scoperto di avere un forte interesse ad associarsi l’una all’altra, direttamente o attraverso le istituzioni dell’Europa. Per ordine naturale delle cose, è un interesse che le pone sempre più in contrasto con il vecchio Stato nazionale del quale continuano a essere parte integrante. Non si tratta di una nuova fonte di dissidi. In Italia il malumore dei settentrionali costretti a condividere il paese con il Sud «parassita» è un tema vecchio quanto lo Stato stesso. Il separatismo nazionale fiammingo, che proliferò in Belgio sotto i nazisti e proprio per questo motivo rimase in parte latente dopo la guerra, negli ultimi anni ha tratto giovamento dal declino economico della Vallonia industriale; noi fiamminghi – si afferma ora – rivendichiamo non solo l’uguaglianza linguistica e l’amministrazione separata, ma anche la nostra identità (non belga) e il nostro Stato.

L’argomento comune dei separatisti, in Spagna, Italia e Belgio, ma anche in Slovenia e nelle regioni ceche prima del «divorzio di velluto», è questo: «noi» – i settentrionali che lavorano sodo, pagano le tasse, sono più istruiti e si differenziano sul piano linguistico e/o culturale – siamo «europei», mentre «loro» – il «Sud» (mediterraneo) rurale, arretrato, pigro e sovvenzionato – lo sono meno. L’imperativo logico di un’identità «europea» che si distingua da vicini indesiderabili con i quali condivide uno Stato è cercare un centro di potere alternativo, preferendo «Bruxelles» a Roma o Madrid. In queste circostanze, l’attrattiva dell’«Unione europea» è quella dello sviluppo moderno cosmopolita contrapposto ai vincoli nazionali antiquati, restrittivi e «artificiosi».

Ciò a sua volta può spiegare la particolare attrazione esercitata dall’«Europa» sulla giovane intelligencija in questi territori. L’Unione sovietica un tempo seduceva molti intellettuali occidentali perché rappresentava una promettente combinazione di ambizione filosofica e potenza amministrativa; l’«Europa» ha un po’ di quello stesso fascino. Per i suoi ammiratori, l’«Unione» è l’ultimo erede del dispotismo illuminato del diciottesimo secolo. Perché che cos’è «Bruxelles», dopo tutto, se non un nuovo tentativo di realizzare l’ideale di un’amministrazione universale efficiente, priva di particolarismi e ispirata dalla ragione e dal primato del diritto, che i sovrani riformisti – Caterina la Grande, Federico il Grande, Maria Teresa d’Austria e Giuseppe II – si sforzarono di istituire nei loro territori sgangherati? È la razionalità stessa dell’ideale di Unione europea ad affidarne le sorti a professionisti istruiti che, all’Est come all’Ovest, vedono in «Bruxelles» una via di fuga da prassi retrograde e ottusità provinciale – proprio come avvocati, commercianti e scrittori nel diciottesimo secolo rivolgevano i loro appelli ai sovrani modernizzatori scavalcando i parlamenti e le diete reazionarie.

Ma tutto questo ha un prezzo. Se l’«Europa» sta dalla parte dei vincitori, chi parlerà a nome dei perdenti: il «Sud», i poveri, gli europei svantaggiati in termini di lingua, cultura e istruzione, disagiati, disprezzati, che non vivono in triangoli d’oro lungo frontiere svanite? Il rischio è che a questi europei resti soltanto «la nazione» o, più precisamente, il nazionalismo: non il separatismo nazionale dei catalani né l’arrivismo regionale dei lombardi, ma la conservazione dello Stato del diciannovesimo secolo come baluardo contro il cambiamento. Per questo motivo, e perché un vincolo sempre più stretto fra le nazioni d’Europa in pratica è improbabile, forse è poco prudente insistere al riguardo. Sostenendo la necessità di ridimensionare le prospettive europee, non voglio suggerire che le istituzioni nazionali siano per natura migliori di quelle sovranazionali. Ma bisogna riconoscere la realtà delle nazioni e degli Stati e prendere atto del rischio che, se ignorata, diventi una risorsa elettorale per i nazionalisti.

II

L’Unione europea deve accogliere i paesi dell’Europa orientale? Nell’ex Germania Est la convinzione ottimistica che la prosperità economica avrebbe riunito il paese diviso e spazzato via i tristi ricordi – in breve, un tentativo di riprodurre il «miracolo economico» della Repubblica federale e i benefici connessi – è crollata non tanto per la presenza di tali ricordi, quanto per l’assenza di una trasformazione economica paragonabile a quella goduta dalla Germania Ovest nei primi anni Cinquanta. La stessa difficoltà ostacolerebbe qualsiasi tentativo di assorbire nell’Unione i territori dell’Est.

Anche solo in termini economici, tale espansione comporterebbe oneri gravosi e impopolari. Nel bilancio dell’Ue del 1992 soltanto quattro paesi erano contribuenti netti: Germania, Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi (in ordine decrescente di contributo pro capite). I beneficiari, nello stesso ordine pro capite, erano Lussemburgo, Irlanda, Grecia, Belgio, Portogallo, Danimarca, Spagna e Italia. È vero che gli Stati membri di recente adesione – Svezia, Finlandia e Austria – sono tutti potenziali contribuenti, ma sono piccole economie e la loro quota non sarà molto incisiva. Per contro, tutti i futuri membri dell’Unione immaginabili (a parte la Svizzera) rientrano inequivocabilmente nella categoria dei beneficiari. È stato stimato (in uno studio del 1994 condotto dalla Bertelsmann Foundation) che i quattro paesi del «Gruppo di Visegrád» – Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria – da soli costerebbero all’Unione europea 20 miliardi di marchi tedeschi l’anno in pagamenti diretti. È chiaro che l’Unione dovrebbe sostenere spese ingenti – superiori a quanto possa permettersi al momento – per accogliere i nuovi membri alle stesse condizioni dei membri attuali.

Per i motivi che ho indicato, l’Unione europea non può promettere realisticamente nemmeno agli Stati membri attuali un futuro altrettanto sicuro e prospero del passato. Gli stratagemmi del tipo «nucleo interno», «percorso rapido», «geometria variabile» o «partenariato per la pace» sono tutti espedienti per posticipare o evitare la scelta impossibile tra dire no a nuove adesioni o allargare l’Unione a parità di condizioni. Nel futuro prevedibile, per l’Ue sarebbe un atto di carità costoso, dal punto di vista economico, assorbire i paesi dell’Est a condizioni accettabili. Ma non sarebbe forse nell’interesse della stessa Europa occidentale compiere comunque il sacrificio (sempre ammesso che possa permetterselo)?

Mettiamo da parte la questione dell’affinità culturale, cioè se all’Europa occidentale manchi una parte vitale di se stessa nel caso in cui sia separata in qualsiasi modo dall’Europa centrale e orientale. Oggi l’interesse percepito dell’Europa occidentale è porsi al riparo dalle minacce demografiche ed economiche provenienti da Est e da Sud. Per quanto riguarda le minacce di tipo più tradizionale, tutti i responsabili della pianificazione della difesa europea si basano sull’ipotesi inespressa che la Russia sia la sola minaccia militare significativa rimasta per il resto dell’Europa. Che i principali paesi dell’Europa occidentale e centrale abbiano lo stesso interesse di sempre a mantenere «Stati cuscinetto» che li separino dalla Russia è chiaro. Ma se questi svolgano meglio il loro ruolo geostrategico all’interno o all’esterno di un’Unione formale resta un’incognita.

In ogni caso, il dibattito in Europa occidentale in questo momento verte sul funzionamento della stessa Unione europea. Le iniziative europee comuni dovranno essere decise per consenso unanime (come avviene ora) o con il voto a maggioranza? Nel secondo caso, come si dovrebbero comporre le maggioranze e quanto vincolanti dovranno essere le loro decisioni? Helmut Kohl, lo scomparso François Mitterrand e i loro consiglieri politici erano favorevoli all’introduzione di un sistema di votazione a maggioranza per scongiurare il rischio di stallo che si presenterebbe a ogni tentativo di soddisfare i bisogni e le richieste di un numero elevato di Stati membri. I britannici, sostenuti da alcuni Stati membri più piccoli, preferiscono conservare il diritto di veto (quello stesso diritto di veto esercitato da Charles de Gaulle per tenere fuori gli inglesi nel gennaio del 1963!) proprio per prevenire l’adozione di decisioni contrarie ai loro interessi – e, in realtà, per prevenire l’adozione di troppe decisioni di qualsiasi tipo. Non è un caso che questi conflitti siano venuti alla ribalta. Nell’«Europa dei quindici» sarà quasi impossibile formare maggioranze forti, tanto meno raggiungere l’unanimità, per le decisioni che comportano scelte difficili.

Il problema si presenterà soprattutto nel caso della politica estera e di difesa, materie riguardo alle quali l’Unione europea finora è stata inattiva. L’Europa non può più optare per l’inerzia militare: non può contare sul fatto che gli Stati Uniti intervengano negli affari europei ogniqualvolta i loro servizi siano richiesti. L’Unione europea è stata totalmente incapace di raggiungere il consenso fra gli Stati membri ai fini di qualsiasi politica o azione comune in campo militare o negli affari esteri. E ciò che si è dimostrato difficile per quindici membri sarebbe fuori discussione per un numero di Stati ancora maggiore. Se l’Unione europea, così come la Comunità che l’ha preceduta, un tempo assomigliava alle Nazioni Unite – adottava decisioni unanimi nei settori di interesse comune e accettava di non essere d’accordo, o anche solo di non prendere una decisione, su argomenti difficili o controversi –, ora comincerà ad assomigliare alla Società delle Nazioni, con membri che si limiteranno a dissociarsi dalle decisioni sulle quali dissentono. Il danno morale e politico che un singolo membro può causare imponendo all’intero gruppo l’indecisione unanime – si pensi al rifiuto greco di riconoscere la Macedonia, o all’insistenza dell’Italia sul fatto che la Slovenia non sia presa in considerazione per l’adesione all’Ue finché non saranno state affrontate le controversie legali, di antica data ma irrilevanti, tra i due paesi – sarebbe niente rispetto a un rifiuto da parte della Gran Bretagna o della Francia, per esempio, di accettare la politica estera di una maggioranza formata dalla Germania e dai suoi sostenitori più piccoli.

Che ne sarà, dunque, dell’interesse generale dell’Europa occidentale a garantire la stabilità, ad assicurare che paesi come l’Ungheria o la Slovacchia non siano dilaniati dai loro demoni interni? Questo è di fatto l’argomento più convincente che i paesi dell’Europa centrale possono offrire a sostegno della loro candidatura all’ammissione nell’Ue – proteggeteci da noi stessi, dalle conseguenze interne di un fallimento della «transizione post-comunista» – ed è particolarmente persuasivo per i vicini immediatamente a Ovest, in particolare la Germania. Ma è un argomento dettato solo dalla prudenza, motivo per cui l’Ue ha tentato di controbattere proponendo un’adesione parziale, un’associazione temporanea e via dicendo, e solleva un problema ipotetico futuro in un momento in cui l’Occidente è preoccupato da difficoltà reali e immediate. Anche se i timori relativi alla stabilità dell’Europa orientale riuscissero a forzare la porta dell’Europa, ciò avverrà soltanto a costo di un notevole indebolimento dei propositi e delle pratiche di un’unione. E il braccio protettivo dell’«Europa» di sicuro non si estenderà oltre il vecchio centro asburgico (Repubblica ceca, Ungheria, Slovacchia, Slovenia e Polonia), che diventerà una specie di eurosobborgo depresso al di là del quale l’Europa «bizantina» (dalla Lettonia alla Bulgaria) sarà costretta a sbrogliarsela da sé, troppo vicina alla Russia e agli interessi russi perché l’Occidente si arrischi a far mostra di eccessivo interesse e impegno.

Nel frattempo l’Europa sarà dominata dalla Germania. Dal 1990 una Germania unita cerca partner per la sua strategia di espansione in Europa centrale. Se potrà agire di concerto con altri membri sulla base di un «percorso accelerato» europeo, Bonn non darà l’ovvia impressione di cavalcare gli eventi. Gli investimenti in Europa orientale effettuati da imprese tedesche tramite controllate o «fronti» austriaci, per esempio, suscitano minore irritazione a livello locale rispetto a quelli che provengono direttamente dalla Repubblica federale. Proprio come la politica estera della Germania Ovest prima del 1989 si poteva definire un triplo gioco di equilibrio (non favorire né scontentare gli Stati Uniti, Mosca o Parigi), allo stesso modo la politica tedesca post-unificazione tende a seguire la logica della potenza della Germania e il suo ruolo storico in Europa centrale e orientale, senza spaventare gli alleati dell’Europa occidentale né risvegliare i timori dei tedeschi stessi di un rigurgito di ambizione nazionale.

La difficoltà, come hanno osservato alcuni autori tedeschi, è che la Germania non può fare a meno di destabilizzare l’Europa, a dispetto delle sue migliori intenzioni. L’Europa che Adenauer e i suoi contemporanei contribuirono a creare, e che a sua volta permise alla Repubblica federale di forgiare la propria identità post-hitleriana, è in discussione ora che l’accordo postbellico è giunto alla fine. Le analogie storiche più drammatiche sono fuorvianti: un’alleanza di fatto della Germania con l’Austria all’interno dell’Ue non equivale all’Anschluss del 1938 ed è poco probabile che si verifichi un ritorno dell’espansionismo tedesco, tanto meno del militarismo, almeno nel futuro prevedibile. Ma resta vero, come lo è sin dal 1871, che una Germania potente al centro dell’Europa, con interessi propri, è una presenza inquietante per i suoi vicini.

Eppure un’Europa dominata dalla Germania, in netto contrasto con il passato, potrebbe essere caratterizzata soprattutto dalla scarsa propensione a intervenire attivamente negli affari internazionali. Se sarà sempre così è un altro discorso: l’eredità del nazismo non può continuare a pesare sulla coscienza pubblica nazionale all’infinito e arriverà il momento in cui i politici tedeschi e i loro elettori si sentiranno meno a disagio a comportarsi come qualsiasi altra potenza: inviare soldati all’estero, usare la forza o la minaccia della forza per conseguire gli obiettivi nazionali e così via. Nel frattempo, tuttavia, la difficoltà primaria posta agli Stati membri da un’Europa a guida tedesca è una sorta di inerzia che costringe la comunità europea a limitare gli interventi collettivi sulla scena internazionale a questioni incontrovertibili di natura ambientale o umanitaria.

Questa è la prima lezione impartita dalla tragedia iugoslava, che ben illustra la debolezza delle iniziative europee, la forte inclinazione a evitare il coinvolgimento attivo e l’assenza di un interesse strategico comune concordato al di là del mantenimento dello statu quo. La guerra in Iugoslavia dal 1991 serve anche a ricordare che i tedeschi non sono l’unico popolo per il quale l’egemonia della Germania sull’Europa è indesiderabile. Uno dei principali punti di forza della propaganda serba, prima contro l’indipendenza di sloveni e croati e poi contro l’«interferenza» esterna in Bosnia, è la tesi secondo cui la Germania e l’Austria starebbero cercando di restaurare una Mitteleuropa «cattolico-tedesca» e l’intera opera di smantellamento della Iugoslavia sarebbe una specie di complotto teutonico-asburgico. Il timore di dare credibilità a questo argomento ha impedito allo Stato più potente d’Europa di intervenire attivamente nella guerra prima che fossero trascorsi quattro anni, e anche in quel momento la decisione di inviare un piccolo contingente militare tedesco – con compiti strettamente limitati alle attività civili – è stata presa contro la forte opposizione dei circoli intellettuali e politici del paese.

Questo non significa che il comportamento della Francia o della Gran Bretagna sia stato esemplare. Ma i francesi e i britannici sono stati costretti a fare qualcosa, anche se era inadeguato e serviva solo a salvare la faccia; così nel 1995 una piccola «forza di reazione rapida» è stata inviata a Sarajevo, quando ormai era emerso con imbarazzante chiarezza quanto fosse diventata inutile la presenza delle Nazioni Unite sul posto1. Tuttavia, proprio perché era una forza franco-britannica e non operava sotto alcun tipo di egida «europea», ha confermato un’altra lezione impartita dagli avvenimenti nei Balcani: che l’edificio «europeo» è fondamentalmente vuoto, egoisticamente ossessionato dal rigore fiscale e dal vantaggio commerciale. Se da un lato non esiste una vera e propria comunità internazionale, dall’altro lato, per questi scopi, non ne esiste nemmeno una europea. Ci sono soltanto potenze, grandi e meno grandi, e almeno per il momento un’Europa a guida tedesca non è fra quelle.

Il modo in cui la Francia e la Gran Bretagna useranno la limitata iniziativa internazionale che questo lascia loro dipenderà dalla lezione che i rispettivi governi sceglieranno, semmai, di trarre dalle umiliazioni dell’avventura bosniaca. Ma quarant’anni dopo il disastro anglo-francese a Suez, stanno per riscoprire le attrattive, e gli oneri, di una relativa autonomia diplomatica. Non ci sono più gli Stati Uniti a guardar loro le spalle e l’«Europa» non è più un rifugio credibile. Gli anni 1945-1989 cominciano a somigliare sempre più a una parentesi. Più ci allontaniamo dalla seconda guerra mondiale, più i motivi per cui era così importante costrui­re qualcosa di diverso sembreranno meno pressanti. Per questo dobbiamo ricordarci non solo che sono stati realizzati grandi progressi, ma anche che la comunità europea che ne ha favorito la realizzazione era un mezzo, non un fine.

Perché, se guardiamo all’Unione europea come a una soluzione onnicomprensiva, ripetendo «Europa» in coro come un mantra e sventolando la bandiera dell’«Europa» in faccia agli eretici «nazionalisti» recalcitranti, un giorno potremmo svegliarci e scoprire che lungi dal risolvere i problemi del nostro continente, il mito dell’«Europa» è diventato un ostacolo che ci impedisce di riconoscerli. Ci accorgeremo che è diventato poco più del modo politicamente corretto di occultare le difficoltà locali, come se la semplice invocazione della promessa di un’Europa unita potesse sostituirsi alla soluzione dei problemi e delle crisi nel presente. Certo, parlare dell’Europa come se esistesse già in un senso più profondo e collettivo ha una sorta di utilità profetica. Ma ci sono cose che l’Europa non può fare, ci sono problemi che non affronta. L’«Europa» è più di una nozione geografica, ma meno di una risposta.

 

* Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel luglio 1996 sulla «New York Review of Books».

1 Tuttavia in Bosnia non è passato inosservato il fatto che l’obiettivo principale di questa forza era proteggere gli altri militari stranieri (soprattutto francesi e britannici) che operavano sotto l’autorità delle Nazioni Unite.