Capitolo 11
Israele deve smontare il proprio mito etnico*

Che cosa è esattamente il «sionismo»? La sua rivendicazione di fondo è sempre stata che gli ebrei sono un popolo unico e omogeneo, che la loro diaspora e le loro sofferenze millenarie non hanno affatto alterato le loro peculiari caratteristiche collettive e che l’unico modo in cui possono vivere liberamente da ebrei – alla stessa maniera in cui, per esempio, gli svedesi vivono liberamente da svedesi in Svezia – è abitando in uno Stato ebraico.

Agli occhi dei sionisti, la religione ha quindi smesso di essere l’unità di misura primaria dell’identità ebraica. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando il numero di giovani ebrei emancipati a livello giuridico o culturale dal mondo del ghetto o dello shtetl andava crescendo, un’influente minoranza cominciò a vedere nel sionismo l’unica alternativa possibile alla persecuzione, all’assimilazione forzata o alla dissoluzione culturale. Paradossalmente, quindi, allorché il separatismo religioso cominciava a regredire, ne veniva attivamente promossa una versione laica.

Posso confermare con certezza, per esperienza personale, che il sentimento antireligioso – in molti casi di un’intensità che trovavo persino fastidiosa – era molto diffuso nei circoli israeliani degli anni Sessanta con simpatie per la sinistra. La religione, mi sentivo dire, andava lasciata agli haredim e ai «folli» del quartiere di Mea Sharim a Gerusalemme. «Noi» siamo moderni, razionali e «occidentali», mi spiegavano i miei insegnanti sionisti. Ma quello che non dicevano era che l’Israele alla quale volevano che io mi unissi era fondata, e poteva solo essere fondata, su una visione etnicamente rigida degli ebrei e dell’ebraicità.

La storia che raccontavano era questa: fino alla distruzione del Secondo tempio (avvenuta nel primo secolo), gli ebrei erano stati agricoltori nell’attuale territorio di Israele/Palestina. I romani li avevano poi di nuovo costretti all’esilio e avevano quindi vagato per tutta la Terra: senza patria, senza radici, reietti. Ora stavano infine «ritornando» e avrebbero ripreso a coltivare la terra dei loro antenati.

Questa è la storia che lo storico Shlomo Sand cerca di decostruire nel suo libro controverso, intitolato The Invention of the Jewish People [L’invenzione del popolo ebraico] (disponibile presso l’Aet Book Club). Il suo contributo, secondo i critici, nel migliore dei casi è superfluo. Da un secolo, gli esperti conoscono a menadito le fonti che cita e le tesi che propone. Da un punto di vista puramente accademico, non trovo niente da ridire su questa osservazione. Anche io, che per la maggior parte dipendo da informazioni di seconda mano in merito ai primi millenni di storia ebraica, mi rendo conto che il professor Sand – per esempio, nel risalto che dà alle conversioni e alla promiscuità etnica che caratterizzavano gli ebrei in tempi passati – non racconta niente che noi non sapessimo già.

La domanda è: chi siamo «noi» di preciso? Di sicuro negli Stati Uniti la stragrande maggioranza degli ebrei (e forse dei non ebrei) non conosce neppure vagamente la storia che racconta il professor Sand. Probabilmente non avranno mai neanche sentito parlare di buona parte dei suoi protagonisti; con la versione caricaturale della storia ebraica che egli cerca di screditare, invece, hanno fin troppa familiarità, e la approvano. Anche se questo lavoro divulgativo del professor Sand non dovesse ottenere altro risultato che stimolare la riflessione e ulteriori letture in questo tipo di pubblico, sarà valsa la pena di scriverlo.

Ma c’è dell’altro. Sebbene esistessero, ed esistano tuttora, altre giustificazioni per lo Stato di Israele – e non è un caso che David Ben-Gurion diede la caccia ad Adolf Eichmann e ne organizzò e coreografò il processo –, è chiaro che il professor Sand ha minato alla base la tesi tradizionale a favore di uno Stato ebraico. In breve, una volta che ammettiamo che la qualità univocamente «ebraica» di Israele è un’affinità immaginata o elettiva, come dobbiamo procedere?

Il professor Sand è egli stesso israeliano ed è lontano dal credere che il suo paese non abbia alcuna ragion d’essere. Ed è giusto che sia così. Gli Stati esistono o non esistono. Il diritto internazionale non riconosce la legittimità dell’Egitto o della Slovacchia in ragione di qualche teoria sulla profonda «egizianità» o «slovacchità». Questi Stati sono soggetti riconosciuti sulla scena internazionale, con uno status e dei diritti precisi, semplicemente in virtù del fatto che esistono e hanno la capacità di governarsi e difendersi.

La sopravvivenza di Israele non dipende dunque dalla credibilità della storia che racconta sulle proprie origini etniche. Se accettiamo questa premessa, possiamo cominciare a capire che l’insistenza con cui il paese fonda il proprio diritto esclusivo sull’identità ebraica costituisce un notevole impedimento. In primo luogo, questa insistenza relega tutti i cittadini e i residenti non ebrei di Israele a uno status di seconda classe, e questo avverrebbe anche se la distinzione fosse puramente formale. Ma è evidente che non lo è: essere musulmani o cristiani – o persino ebrei che non rispondono ai parametri sempre più rigidi dell’«ebraicità» nell’odierna Israele – ha un prezzo.

La conclusione implicita del libro di Sand è che sarebbe meglio se Israele si identificasse e imparasse a pensare a se stessa semplicemente come Israele. L’irragionevole ostinazione a far coincidere un’identità ebraica universale con un piccolo fazzoletto di terra provoca varie disfunzioni ed è il principale fattore responsabile dell’incapacità di trovare una soluzione all’impasse israelo-palestinese. Nuoce a Israele e, mi permetto di far notare, nuoce agli ebrei che vivono altrove e vengono identificati con le sue azioni.

Che fare, dunque? Il professor Sand di certo non ce lo dice, e in sua difesa dovremmo riconoscere che il problema può essere intrattabile. Presumo che prediliga una soluzione basata su un solo Stato, se non altro perché è la conclusione logica dei suoi argomenti. Anche io sarei favorevole a un esito del genere, se non fossi così certo che entrambe le parti in causa si opporrebbero con vigore e con la forza. La soluzione dei due Stati potrebbe ancora essere il compromesso migliore, anche se lascerebbe intatte le ossessioni etniche di Israele. Ma è difficile essere ottimisti riguardo alle prospettive di questa soluzione, considerati gli sviluppi degli ultimi due anni.

Sarei quindi propenso a rivolgere l’attenzione altrove. Se gli ebrei d’Europa e del Nord America prendessero le distanze da Israele (come molti hanno cominciato a fare), l’affermazione che Israele è il «loro» Stato comincerebbe a suonare assurda. Col tempo, persino Washington potrebbe riuscire a vedere l’insulsaggine di una politica estera americana vincolata alle illusioni di un piccolo Stato mediorientale. Questa, a mio parere, è la cosa migliore che possa capitare alla stessa Israele: sarebbe obbligata a riconoscere i propri limiti, e dovrebbe farsi altri amici, preferibilmente tra i suoi vicini.

Potremmo così sperare di stabilire, col passare del tempo, una distinzione naturale tra le persone accidentalmente ebree, ma che sono cittadini di altri paesi, e le persone di nazionalità israeliana che sono accidentalmente ebree. Potrebbe rivelarsi molto utile. Esistono numerosi precedenti: le diaspore dei greci, degli armeni, degli ucraini e degli irlandesi hanno tutte svolto un ruolo pernicioso, perpetuando l’esclusivismo etnico e il pregiudizio nazionalista nei paesi dei rispettivi antenati. La guerra civile in Irlanda del Nord ha avuto fine in parte perché un presidente americano ha ingiunto alla comunità degli irlandesi emigrati negli Stati Uniti di smettere di inviare armi e denaro al Provisional Ira. Se gli ebrei americani smettessero di associare il proprio destino a quello di Israele e usassero i loro assegni caritatevoli per scopi migliori, qualcosa di analogo potrebbe succedere anche in Medio Oriente.

 

* Questo saggio è stato pubblicato per la prima nel dicembre del 2009 sul «Financial Times».