Capitolo 13
Che fare?*

Sei anni fa scrissi un articolo su Israele intitolato «Israele: l’alternativa»1 pubblicato sulla «New York Review of Books». Sostenevo che il «processo di pace» e la soluzione dei due Stati che mirava a realizzare erano morti. Se Israele avesse continuato a seguire la strada intrapresa, si sarebbe trovata di fronte a scelte poco allettanti: poteva rimanere ebraica, ma avrebbe cessato di essere una democrazia, oppure poteva diventare una vera democrazia multietnica, ma in questo caso avrebbe cessato di essere «ebraica». Una terza ipotesi, in base alla quale Israele avrebbe espulso con la forza la maggioranza araba (o le avrebbe reso intollerabile restare), avrebbe effettivamente garantito la sopravvivenza di una democrazia ebraica, ma a un prezzo grottesco e tutto sommato suicida. In queste circostanze, una forma di organizzazione binazionale o federale, per quanto improbabile, sembrava la migliore alternativa disponibile.

Com’era prevedibile, quel saggio suscitò notevoli dissensi. Gli israeliani e i palestinesi, le cui reazioni erano fra le più ragionevoli, riconoscevano la deprimente credibilità della mia valutazione, ma non riuscivano a digerirne le conclusioni. Deve esistere una soluzione che preveda due Stati, insistevano. Nient’altro funzionerebbe. Qualunque siano gli impedimenti (i coloni israeliani, gli attentatori palestinesi, eccetera), gli esponenti ragionevoli delle due parti devono continuare a fare pressione a favore dell’unica soluzione accettabile per entrambe. Come disse Churchill a proposito della democrazia, una soluzione basata su due Stati in Medio Oriente è la risposta peggiore possibile, ad eccezione di tutte le altre.

Dall’ottobre del 2003 la situazione è ulteriormente peggiorata. Israele ha combattuto due guerre «vittoriose», contro Hezbollah e Hamas, ha continuato a espandere gli insediamenti nei territori occupati e a lottizzare il territorio palestinese, ha rinunciato al controllo di Gaza e, nonostante tutto questo, è più lontana che mai dalla pace e dalla sicurezza. Nel 2006 i palestinesi hanno partecipato alle elezioni più libere mai osservate nel Medio Oriente arabo: ha vinto Hamas, un movimento definito «terrorista» negli Stati Uniti e in Europa e di conseguenza boicottato. L’autorità e la legittimità dell’Olp, la coalizione palestinese sconfitta con la quale l’Occidente continua a trattare, sono progressivamente crollate. L’odioso paradosso di uno Stato ebraico che governa un numero in continua crescita di arabi oppressi e rancorosi diventa ogni giorno più esplicito. Sempre più persone parlano di una «soluzione basata su due Stati», sempre meno persone ci credono. Che fare?

Cominciamo con due realtà insormontabili. Israele esiste e chi lo critica non sarà preso sul serio se rifiuta di riconoscerlo. La stragrande maggioranza dei palestinesi vuole un proprio Stato reale. Anche questa è una semplice constatazione della realtà, e dovrebbe ricevere altrettanta considerazione. Nessuna delle due parti a questo punto vuole vivere con l’altra in un unico Stato, e nessuno può obbligarle a farlo. Una «soluzione basata su un solo Stato», che sia federale o binazionale o qualsiasi altra cosa, funzionerebbe soltanto se ciascuna parte credesse alla buona fede dell’altra. Ma in tal caso non sarebbe necessaria: avremmo già raggiunto da tempo i negoziati finali per un vero e proprio accordo basato su due Stati.

Il problema della fiducia – o della sua mancanza – è al centro del rompicapo israelo-palestinese. Lungi dal «creare fiducia» come desiderato, il processo di pace ha contribuito attivamente a distruggerla. In Israele, l’esito è disastroso. Il paese è governato da una coalizione il cui nucleo «moderato» comprende partiti che un tempo si collocavano all’estrema destra dello spettro politico israeliano. L’opposizione è guidata da Tzipi Livni, che proviene dal Likud, il partito successore dell’Herut di Menachem Begin, a sua volta erede dei revisionisti di Vladimir Žabotinskij nel periodo fra le due guerre: la destra nazionalista impenitente del vecchio movimento sionista. Nella politica israeliana, la sinistra è scomparsa, assieme a gran parte del centro.

L’Israele di Benjamin Netanyahu di sicuro è meno ipocrita di quella dei vecchi governi laburisti. A differenza di gran parte dei suoi predecessori, andando indietro fino al 1967, non fa nemmeno finta di cercare la conciliazione con gli arabi sui quali governa. Soltanto il mese scorso la Knesset ha approvato in prima lettura, con 47 voti favorevoli e 34 contrari, un progetto di legge proposto da Zevulun Orlev del partito La casa ebraica, che prevede fino a un anno di carcere per chiunque metta in discussione l’esistenza di Israele quale Stato ebraico. Nel frattempo, il 2 luglio 2009 il ministro dell’Edilizia Ariel Atias (membro del partito Shas, ultraortodosso) ha lanciato un monito contro la «promiscuità» fra la popolazione araba ed ebraica in Galilea: la separazione delle popolazioni, ha dichiarato, è «una responsabilità nazionale».

Intanto i palestinesi, per quanto desiderino un proprio Stato, sono sempre più scettici riguardo alla probabilità di ottenerlo. Non può essere un buon segno che il dottor Sari Nusseibeh, presidente dell’università Al-Quds e sostenitore di lunga data della soluzione basata sui due Stati, ora scriva a favore del binazionalismo. Il fallimento del processo di pace messo in moto a Madrid e Oslo ha screditato lo scomparso Yasser Arafat e i suoi successori. L’occupazione è la nemesi di se stessa: radicalizza gli oppressi. Molti giovani palestinesi ormai considerano l’Olp e i suoi rappresentanti alla stregua di collaboratori che hanno beneficiato delle relazioni umilianti intrattenute con l’oppressore mentre il popolo soffriva. Ogni volta che il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas incontra un primo ministro israeliano o un presidente americano e torna a casa a mani vuote, perde credibilità e Hamas, la «resistenza», guadagna ammiratori e voti. Come nella Francia di Vichy (l’analogia che ho sentito citare con maggiore frequenza), le autorità collaborazioniste non saranno nella posizione ideale per negoziare la liberazione e guidare un popolo libero. Ma se Abbas sta per diventare il Pétain dei palestinesi, chi sarà il loro de Gaulle?

La diffidenza, non meno degli insediamenti illegali o delle aspirazioni nazionali, è un fatto concreto e qualsiasi processo di pace che distolga lo sguardo da queste realtà è destinato a fallire. Quanto più gli stranieri reclamizzano il «processo di pace di Oslo» o la «road map», tanto meno sul serio saremo presi da coloro che contano. È proprio perché le amministrazioni statunitensi ora parlano liberamente di uno Stato palestinese, e persino il signor Netanyahu è favorevole a condizioni ultrarestrittive, che l’idea sta perdendo credito tra i palestinesi. Questi ultimi, come gli israeliani, sono scettici riguardo ad altri negoziati o ritiri «graduali». I sostenitori occidentali sensibili, quindi, perdono rapidamente terreno. Come ha osservato Netanyahu il 23 giugno 2009, «il dibattito sugli insediamenti è una perdita di tempo»2. Ha ragione. La recente dichiarazione dei ministri degli Esteri del G8, che invita tutte le parti «ad adempiere i rispettivi obblighi previsti dalla road map» e a «rilanciare negoziati diretti su tutte le questioni in sospeso in conformità della road map, delle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dei principi di Madrid [...]» è un caso esemplare di clamore internazionale controproducente. Se l’inviato degli Stati Uniti George Mitchell spera seriamente, come afferma, che siano presto avviati negoziati di pace «significativi e fruttuosi», farebbe meglio a mettersi in testa qualcosa di molto diverso.

Cominciamo invece con ciò che conta. La terra – l’annosa questione al centro di questo tragico conflitto – potrebbe essere il punto di partenza meno utile per pensare a una soluzione. L’idea che i palestinesi accettino una bella fetta del deserto del Negev occidentale a fronte del nove per cento delle terre fertili in Cisgiordania ora occupate da Israele è semplicemente ridicola, eppure è stata proposta seriamente. Quanto a uno scambio di terre più significativo da entrambi i lati della «barriera di sicurezza»: se Israele sotto Sharon non è stata capace di lasciare poche centinaia di case e una manciata di piscine intatte per gli arabi di Gaza in seguito al ritiro dell’epoca, perché si dovrebbe supporre che l’Israele di Netanyahu troverà in sé la volontà politica o la generosità prudenziale di lasciare ai palestinesi qualcosa che valga la pena avere nei territori di gran lunga più contesi della «Giudea e Samaria»? Qualsiasi cosa si possa ottenere in termini di accordo territoriale arriverà soltanto quando si sarà creata con altri mezzi una sorta di buona volontà e fiducia reciproca.

E che dire della «sicurezza»? I civili israeliani sono davvero preoccupati di fronte alla prospettiva di un’entità palestinese armata a poche decine di chilometri dalle loro città principali. L’esercito israeliano ingigantisce questa paura, anche se il più delle volte non gli impedisce di dormire sonni tranquilli: se esiste una vera minaccia per la sopravvivenza di Israele, di sicuro non proviene da una manciata di razzi Qassam, anche se fossero orientati accuratamente. Il problema di Israele non è sbarazzarsi dei lanciarazzi, bensì risolvere le condizioni politiche che ne garantiscono la reinstallazione all’infinito. Uno Stato palestinese adeguatamente costituito, con tutti i diritti e le responsabilità associati alla condizione di Stato, sarebbe un’assicurazione di gran lunga migliore contro il lancio di missili isolati. Le legittime preoccupazioni di Israele in tema di sicurezza si affrontano creando – meglio prima che poi – uno Stato palestinese con tutti i crismi del potere statale, motivato ad andare d’accordo con il suo potente vicino e a reprimere gli estremisti interni instabili.

Mutatis mutandis, i palestinesi hanno anch’essi preoccupazioni legittime riguardanti la sicurezza. Hanno bisogno di uno Stato in piena regola per tutelarsi contro la propensione israeliana a calpestare il diritto internazionale, commettere omicidi mirati e trattare gli arabi come obiettivi permanenti e legittimi di una guerra preventiva. Anche in questo caso uno Stato embrionale offrirebbe benefici cautelativi a entrambe le parti. Gli israeliani non temono più i giordani o gli egiziani come li temevano fino a non molto tempo fa. Ricordo molto bene una Israele in cui gli egiziani, in particolare, erano ritenuti avere una tendenza immutabile e universale a odiare gli ebrei e cercare di annientarli. Se questo è ciò che si pensa delle persone, soltanto la loro sistematica umiliazione e sconfitta può dare un senso di sicurezza. Paradossalmente, quindi, gli israeliani si sentiranno al sicuro soltanto quando esisterà uno Stato palestinese costituito in modo appropriato e competente sotto il profilo militare al di là del confine.

Che dire di Gerusalemme, la città che entrambi gli Stati vorrebbero per capitale? L’annessione di Gerusalemme Est a Israele pone dilemmi reali. Di sicuro, la colonizzazione e l’unificazione unilaterale della città non è irreversibile, o non più di quanto la divisione di Berlino si dimostrasse insormontabile. L’ambiente politico attuale di Gerusalemme – terreno di coltura dell’estremismo religioso e nazionalista – suscita una certa repulsione fra un numero considerevole di israeliani, ai quali non dispiacerebbe vedere sconfitta la coalizione di coloni ideologici e fanatici religiosi che domina il dibattito. Allo stesso modo, tanti palestinesi laici si accontenterebbero di molto meno del potere sovrano sulla loro parte della città, se potessero avere la certezza che gli estremisti israeliani non sarebbero in grado di tenere in ostaggio la loro vita quotidiana e i loro diritti politici.

Ma è chiaro che la questione di Gerusalemme non può essere risolta dalle sole parti interessate, non più di quanto Berlino sia stata riunificata dal puro esercizio della libera volontà dei tedeschi. Di sicuro duemilacinquecento anni di mitologia e memoria popolare ebraica dicono che Gerusalemme è la «nostra» città. Ma duemilacinquecento anni di mitologia e memoria popolare dicono un sacco di cose in un sacco di posti, perlopiù inapplicabili nelle circostanze politiche moderne. Gli ebrei non hanno il monopolio dei vecchi ricordi e delle antiche aspirazioni; come altri popoli che si trascinano dietro simili fardelli di storia e di privazioni, potrebbero dover scendere a compromessi. Il meglio, in questo come in altri ambiti, può essere nemico del buono. Se Barack Obama, George Mitchell, il G8, il Consiglio di sicurezza dell’Onu e altri estranei hanno un ruolo da svolgere in questa storia complicata, si concretizzerà nella loro insistenza a favore di un’internazionalizzazione di Gerusalemme quale città aperta, chiunque amministri gli affari municipali nella pratica. Se gli ebrei e i musulmani (o i cristiani, quanto a questo) persistono nel pretendere di avere il controllo esclusivo della «loro» città, non avranno mai pace.

Tuttavia, ancora più importante – molto più importante – della terra o della sicurezza o persino di Gerusalemme è la questione del «riconoscimento». È il continuo rifiuto dei palestinesi (e di altri arabi) di «riconoscere» la realtà di Israele (un rifiuto tuttora incorporato nella stessa carta di Hamas) che contribuisce a spiegare l’incapacità degli israeliani di immaginare un modus vivendi con i vicini e i concittadini arabi, ed è addotto per giustificarla. Viceversa, è la continua negazione da parte degli israeliani dei crimini perpetrati contro gli arabi palestinesi, e delle conseguenti sofferenze causate loro, a convincere così tanti palestinesi che gli ebrei non sono affatto seri quando parlano di pace e conciliazione3.

I palestinesi, com’è ovvio, affermano di volere di più del semplice riconoscimento delle loro passate sofferenze. Vogliono anche il riconoscimento del loro diritto di ritornare nelle terre e nelle proprietà loro sottratte nel corso della creazione dello Stato israeliano. I commentatori internazionali tendono a concentrarsi sulle implicazioni giuridiche e demografiche di questa richiesta, dando eco agli eccessivi timori degli israeliani che, se tale diritto fosse riconosciuto, centinaia di migliaia di arabi pretenderebbero immediatamente un «diritto di ritorno» in Israele. Non solo è una prospettiva di per sé poco plausibile – quanti arabi palestinesi desiderano veramente lasciare gli Stati Uniti, l’Europa, il Kuwait o il Libano per vivere nello Stato ebraico di Netanyahu? –, ma non coglie la dimensione più ampia. Il riconoscimento del «diritto di ritorno» in linea di principio è importante soprattutto perché equivale al riconoscimento esplicito che è stato fatto un grave torto ai palestinesi e che una forma di compensazione è dovuta.

Fra tutti, proprio noi ebrei dovremmo capirlo. Nessuna compensazione monetaria, di qualsiasi importo, potrebbe mai anche solo cominciare a compensare quel che fecero i nazisti. E non più di una manciata di ebrei europei o loro discendenti desidera tornare alle proprie terre, case, fabbriche o negozi in Polonia, o in alcun altro paese (sebbene i nazionalisti polacchi abbiano a lungo ingigantito tale prospettiva, in modo molto simile a quello in cui i portavoce israeliani dichiarano di prevedere il ritorno di orde di palestinesi riottosi). Ciò che gli ebrei volevano, dopo la seconda guerra mondiale, e che sono riusciti a ottenere, era l’ammissione e il riconoscimento delle loro sofferenze e dei crimini commessi dai loro persecutori. I palestinesi non vogliono niente di meno. La posta in gioco non è la terra o il denaro e neanche il mattone. È la memoria, e soprattutto è la storia. Proprio come la legittimità di Israele poggia in misura non trascurabile sulle implicazioni e sul riconoscimento delle perdite e delle sofferenze degli ebrei, allo stesso modo la causa palestinese e gli argomenti palestinesi traggono il loro vigore politico e il loro significato morale dalle perdite e dalle sofferenze dei palestinesi. A meno che e fino a che questo non sarà compreso e riconosciuto, il conflitto non avrà fine.

È facile cadere nella trappola dell’apparente unicità del dilemma Israele/Palestina. Gerusalemme è unica, la storia ebraica – che culmina nell’Olocausto – rivendica un posto speciale per sé nella memoria occidentale e la Mezzaluna fertile da tempo è al centro del conflitto religioso e politico internazionale. Ed è vero che, come tutte le lotte territoriali, questa ha alcune caratteristiche singolari. Ma può essere utile fare un passo indietro e ricordare che, per la maggior parte degli aspetti, non è affatto una crisi singolare, anzi condivide molte caratteristiche con situazioni paragonabili in altri tempi e luoghi. Uno sguardo ad alcune di queste potrebbe offrire spunti su come uscire dall’impasse.

In primo luogo, dovremmo rammentare che gli Stati multiculturali, multireligiosi, multilingue non sono così inimmaginabili né perennemente instabili come a volte supponiamo. La Svizzera, il Belgio, l’India funzionano tutti più o meno bene nonostante gli interessi e le comunità presumibilmente incompatibili. La Iugoslavia – un apparente controesempio – di fatto funzionava piuttosto bene, finché non fu intenzionalmente e cinicamente fatta a pezzi dal leader di una delle sue componenti nazionali. Il Québec, una provincia profondamente divisa, dove la maggioranza di lingua francese risentita cercò di ottenere l’indipendenza per tutelarsi contro l’«egemonia» degli anglofoni all’interno e all’esterno dei suoi confini, ora è in pace con se stesso.

È vero che la soluzione più duratura alle sovrapposizioni etniche e agli antagonismi reciproci è stata la separazione, accompagnata persino da «scambi» di popolazioni. Ma questo si è sempre verificato in seguito a una guerra e a massacri e devastazioni (in Asia Minore, per esempio, o in Europa orientale): un preludio che di certo non auguriamo ai nostri contemporanei in qualsiasi regione. Gli israeliani e i palestinesi devono quindi lavorare con quello che hanno. L’aspetto che colpisce gli estranei, tuttavia, è che le loro condizioni in realtà hanno tantissimo in comune con quelle di altri popoli che si sono confrontati con sfide analoghe.

Dall’Algeria all’Irlanda del Nord, sono sempre stati i «moderati» a essere estromessi. Di sicuro ottengono il rispetto di altri moderati in patria e all’estero, ma in parte proprio per questo motivo perdono influenza e prestigio a livello locale. Sono quasi sempre gli «estremisti» e i «terroristi» della prima ora a negoziare l’esito finale e finire al potere. È già successo in Israele e di sicuro succederà entro breve ai palestinesi con Hamas al timone. Non a caso le potenze coloniali europee e i loro successori sono stati costretti a cedere il potere a uomini e donne che un tempo avevano incarcerato per «terrorismo», dal Kenya all’Indonesia, dall’Algeria al Sud Africa.

Parlare del Sud Africa serve a ricordare che in assenza di un Mandela i palestinesi si trovano in una situazione di grave svantaggio. De Klerk e i suoi concittadini afrikaner erano riusciti a rendersi conto dell’insostenibilità dell’apartheid – al riguardo erano molto più avanti di buona parte degli israeliani, anche se non di tutti –, ma avevano davvero fortuna a confrontarsi con un prigioniero politico di straordinario talento con il quale potevano negoziare e che godeva del rispetto dei suoi concittadini neri. Come gli israeliani ricordano loro con soddisfazione, i palestinesi non hanno una persona di quel calibro. Ma anche se ci fosse un Mandela palestinese, non sarebbe in grado di istituire una Commissione per la verità e la riconciliazione capace di vincere la diffidenza e la paura all’interno della comunità. Molti israeliani non sono ancora abbastanza spaventati per vedere la necessità di riconciliazione, e quindi non sono costretti a riconoscere la verità di altre persone. Troppo pochi israeliani hanno compreso che il progetto di una Grande Israele è destinato a fallire. Purtroppo dobbiamo ammettere che i sudafricani bianchi erano più evoluti e meno gretti nella loro considerazione di se stessi. Il loro mito fondatore, quello di un volk bistrattato, laborioso e combattivo, circondato da popolazioni indigene pigre, mediocri, alle quali bisognava imporre limiti e impartire ordini, si è sgretolato di fronte all’antipatia del mondo. Gli israeliani possono aspettarsi qualcosa di analogo negli anni a venire, se le cose non cambiano.

L’Irlanda del Nord, invece, offre prospettive migliori, perché George Mitchell4 ha tutti gli strumenti per capire. Lì i politici moderati, sia protestanti sia cattolici, si sono dati da fare per decenni al fine di creare le condizioni per il compromesso. Tutto ciò che hanno ottenuto in cambio è stata l’umiliazione e una percentuale di voti sempre più ridotta. Sono stati gli estremisti, il Provisional Ira e gli unionisti democratici di Ian Paisley, ad affermarsi come vincitori, come interlocutori di Bill Clinton e Tony Blair e come leader di un’Irlanda del Nord sempre più pacifica e stabile. Per quasi trent’anni questi uomini e i loro tirapiedi hanno brutalizzato il Nord, esortando i loro sostenitori a uccidere e gambizzare in nome dell’esclusivismo territoriale e della paura dell’altro. Finché non sono stati coinvolti nel «processo di pace» niente era possibile. Oggi Gerry Adams, Martin McGinnis e Ian Paisley cooperano al governo dell’Irlanda del Nord. Sono il nuovo volto, per quanto improbabile, di un’Irlanda del Nord pacifica che ha infine smesso di salire agli onori delle cronache.

La guerra civile e i disordini nell’Irlanda del Nord surclassano di gran lunga quelli del Medio Oriente in termini di durata (risalgono alla fine del diciassettesimo secolo), di proporzioni (solo nel corso dei disordini più recenti, in Ulster sono state uccise molte più persone di quante ne siano morte a causa degli attentati suicidi o di altri attacchi terroristici in Israele dalla sua nascita) e di complessità. Se è stato possibile venirne a capo, il Medio Oriente non è senza speranza. Israele (con i suoi amici internazionali) dovrebbe avviare negoziati direttamente con Hamas. Questa non è certo un’idea originale: è precisamente ciò che un gruppo bipartisan di americani influenti, tra cui Paul Volcker e gli ex senatori repubblicani Chuck Hagel e Nancy Kassebaum, hanno incoraggiato il presidente Obama a fare nel marzo del 2009. Ma se non coinvolgiamo Hamas e non le diamo motivo di lavorare proficuamente con negoziatori seri – o, peggio, se gli israeliani riescono ad assassinare tutti i leader del movimento – resteremo senza interlocutori palestinesi moderati. Rimarranno solo jihadisti. In questo senso Hamas non è la nostra peggiore apprensione, ma la nostra ultima speranza.

L’analogia con l’Irlanda del Nord ci ricorda un’altra sfida con cui si confronta il Medio Oriente. Come chiunque abbia scritto in modo critico su Israele e i palestinesi ben sa, le reazioni più estreme e irragionevoli non provengono dal Medio Oriente, ma dalla diaspora. Anche questo non dovrebbe stupirci. Che si tratti di Croazia o Armenia, Grecia o Polonia, sono le comunità della diaspora sparpagliate per il mondo ad adottare la linea più dura sulle questioni nazionali delicate. Gli armeni d’Armenia sono perfettamente consapevoli del genocidio subìto dai loro progenitori per mano dei turchi durante la prima guerra mondiale. Ma è la diaspora armena a prendere l’iniziativa di castigare i turchi nelle sedi internazionali; in Armenia le faccende della vita e la necessità di intrattenere rapporti con i vicini turchi hanno una priorità ben più alta.

In modo analogo, la diaspora croata ha adottato una linea d’azione molto più dura nel corso delle recenti guerre civili iugoslave rispetto alla maggior parte dei residenti in Croazia, fin troppo contenti di scendere a compromessi pur di tornare alla normalità e all’Europa. L’annosa e cocente divisione di Cipro sarebbe stata superata da tempo se non fosse per i velenosi interventi delle parti esterne e per la posizione estrema assunta dalla vasta diaspora che finanzia la divisione intestina. E lo stesso succede ai palestinesi, ma soprattutto agli ebrei. Senza le pressioni esercitate dagli ebrei americani e i loro aiuti finanziari, gli estremisti del movimento dei coloni israeliani non sarebbero mai riusciti a raggiungere l’influenza e il peso politico che hanno oggi. A meno che e fino a quando gli ideologi estremisti della diaspora organizzata (e i loro amici nelle alte sfere politiche) non saranno marginalizzati, non potranno essere esercitate pressioni estere efficaci su Israele. È stata la volontà del presidente Clinton di ignorare i sostenitori e i finanziatori del Provisional Ira qui negli Stati Uniti a isolare il Sinn Féin e a dimostrare a Gerry Adams che non aveva altra scelta se non quella di scendere a compromessi. C’è da sperare che George Mitchell capisca le implicazioni di questo precedente.

In sintesi, è inutile continuare a seguire il vecchio «processo di pace» e la relativa «road map». Nessuno che conti ci crede più. Rimandando gli aspetti difficili alla fine, abbiamo fatto crollare la fiducia di tutte le parti nella probabilità di una sua riuscita. Adesso l’importante è convincere sia gli israeliani sia i palestinesi che non ci sono alternative, se non quella di battere una strada diversa, che questa strada offre alcune prospettive di benefici immediati e duraturi e che i costi comportati dal rifiuto di intraprenderla sono inaccettabili. Soltanto osservatori esterni impegnati – soprattutto negli Stati Uniti e nell’Unione europea – possono riuscirci, ma non possono aspettarsi di farcela se continuano a sciorinare banalità o a dare corda a quelle dette da altri, né se continuano a prestare ascolto ai pregiudizi delle diaspore organizzate.

Gli «estremisti» dovrebbero essere coinvolti quanto prima nella discussione e i moderati compromessi andrebbero gentilmente spinti ai margini, onde evitare che il processo sia screditato dalla loro presenza. Tutte le questioni apparentemente «impossibili» (Gerusalemme, la sicurezza, il riconoscimento di Israele, il riconoscimento del diritto di ritorno dei palestinesi e delle privazioni inflitte loro in passato) dovrebbero avere priorità. La composizione delle controversie territoriali, potenzialmente interminabile, dovrebbe essere rinviata o se ne potrebbe affidare la discussione a funzionari ausiliari. Bisognerebbe stabilire sin dall’inizio che l’inevitabile difficoltà a raggiungere accordi territoriali dettagliati non potrà comportare il rinvio dell’accordo. Gli Stati Uniti e l’Unione europea dovrebbero trovare il coraggio di far sentire il loro peso, le loro pressioni e i loro muscoli. Gli israeliani da molto tempo affermano che gli arabi rispondono soltanto alle dimostrazioni di forza. La stessa cosa si può dire di Israele.

La politica, come sappiamo, è l’arte del possibile. Non so se un accordo di qualche tipo sia ancora possibile in Medio Oriente. Ma se non lo è, allora né i palestinesi né gli israeliani hanno un grande futuro davanti a sé, anche se oggi lo capiscono soltanto i palestinesi. Ma persino i politici locali con la mentalità più ristretta dovrebbero avere l’intelligenza necessaria per capire i benefici offerti da un compromesso ingegnoso, specialmente se possono addebitarlo a irresistibili pressioni esterne. Oggi gli Stati arabi sono aperti al compromesso in maniere inimmaginabili una generazione fa. Uno Stato israeliano guidato da politici anche solo moderatamente intelligenti avrebbe a disposizione possibilità tanto interessanti quanto inedite, se solo sapesse coglierle. Israele potrebbe facilmente stabilizzare le sue relazioni nella regione non solo costruendo alleanze con gli Stati arabi amici, ma più di tutto e soprattutto con la Turchia e persino con la Russia.

In una simile prospettiva, i rischi che Israele correrebbe vivendo accanto a uno Stato palestinese, anche instabile, sono del tutto trascurabili. Ma non ci sono motivi per supporre che uno Stato palestinese legittimamente costituito sarebbe più instabile della stessa Israele, per esempio. E a differenza di Israele non avrebbe mai armi nucleari, né uno degli eserciti più potenti del mondo, e di conseguenza non potrebbe cedere alla tentazione, che circola in alcuni ambienti israeliani, di invocare il «complesso di Sansone» e far crollare tutto il mondo intorno a sé rischiando di compromettere i propri interessi.

Ma le opportunità attuali non dureranno a lungo e una volta che un numero sufficiente di palestinesi trarrà la logica conclusione dalla politica degli insediamenti di Israele e dalla sua intransigenza al riguardo, e rinuncerà a rivendicare un proprio Stato, Israele sarà perduta. Sarà costretta a fare la scelta che ho descritto all’inizio e – a meno di optare per l’alternativa meno probabile, cioè uno Stato binazionale – sarà condannata per sempre allo status di paria. Il tempo non sta dalla parte di nessuno in questa vicenda. E faremmo bene a ricordare che nessuna legge di natura afferma che prima o poi una soluzione in qualche modo «emergerà» da sola. Se permetteremo che la situazione si inasprisca, come abbiamo fatto sin troppo a lungo, o se la lasceremo nelle mani dei politici mediocri e incompetenti che oggi governano sia Israele sia l’Autorità palestinese, le conseguenze saranno catastrofiche. Grazie agli abusi commessi dallo «Stato ebraico» nei confronti dei palestinesi, l’impasse israelo-palestinese è la principale causa immediata di una recrudescenza dell’antisemitismo nel mondo. È il fattore di reclutamento più efficace dei movimenti islamisti radicali. Dimostra l’assurdità della politica estera statunitense ed europea in una delle regioni più difficili e instabili del mondo. Bisogna muoversi in modo diverso.

 

* Questo saggio è stato scritto nell’estate del 2009 e non è mai stato completato né presentato per la pubblicazione. Compare qui per la prima volta, nella sua prima stesura.

1 Israel: The Alternative, «The New York Review of Books», 23 ottobre 2003 [N.d.T.].

2 «Ha’aretz», 2 luglio 2009, T.S. Eliot.

3 Come se volesse esemplificare l’autismo morale dell’odierna Israele, la commissione ministeriale per la legislazione della Knesset nel maggio del 2009 ha varato un disegno di legge che rende illegale per gli ebrei israeliani e i cittadini palestinesi di Israele commemorare la Naqba, la catastrofe palestinese del 1948.

4 Inviato speciale americano per il processo di pace in Irlanda (1995-2000) e in Medio Oriente (2009-2011) [N.d.T.].