Capitolo 15
Il peggior nemico di se stessi*

I

La condizione attuale degli Stati Uniti d’America, cioè di «iperpotenza» egemonica, senza rivali e inattaccabile, argomento del libro di Joseph Nye, è esemplificata dal suo apparato militare. Prima dell’11 settembre, prima che il presidente Bush proponesse per quest’anno un aumento del 14 per cento (48 miliardi di dollari) della spesa per la difesa, gli Stati Uniti facevano già parte di una categoria a sé. Hanno basi, navi, aeroplani e soldati in ogni angolo del pianeta. Per le sue forze armate, Washington spende più di qualsiasi altra nazione nella storia: il bilancio per la difesa statunitense distanzierà ben presto le somme annue destinate alla difesa dai nove Stati che seguono in classifica messi assieme. È vero, gli Stati membri dell’Ue nel loro insieme contano più soldati degli Stati Uniti e, complessivamente, la loro spesa per la difesa ammontava a quasi il 70 per cento degli esborsi di Washington prima del 2002, ma i risultati in termini di tecnologia e armamenti semplicemente non sono paragonabili. Gli Stati Uniti possono intervenire o entrare in guerra quasi ovunque nel mondo. Nessun altro paese è in grado di competere su questo fronte.

Ma l’«America» che gran parte del mondo ha in testa non è definita dalla gittata dei loro missili, dalle bombe intelligenti e tanto meno dai soldati americani. È più impalpabile e diffusa. In alcuni luoghi è un ricordo sbiadito della liberazione. In altri è una promessa di libertà, opportunità e abbondanza: una metafora politica e una fantasia personale. Altrove, o negli stessi luoghi in altri momenti, l’America è identificata con la repressione a livello locale. In breve, l’America è ovunque. Gli americani – appena il 5 per cento della popolazione mondiale – generano il 30 per cento del prodotto mondiale lordo, consumano quasi il 30 per cento della produzione globale di petrolio e sono responsabili di una percentuale quasi altrettanto alta delle emissioni di gas a effetto serra a livello mondiale. Il nostro mondo è caratterizzato da molte divisioni: ricchi/poveri, Nord/Sud, occidentale/non occidentale. Ma, sempre più spesso, la divisione che conta è quella che separa l’America da chiunque altro.

L’antiamericanismo che oggi preoccupa i commentatori non dovrebbe quindi stupirci. Gli Stati Uniti, in virtù della loro posizione singolare, sono esposti allo sguardo critico del mondo, qualsiasi cosa facciano o non facciano. Parte dell’antipatia suscitata dagli Stati Uniti è dovuta a ciò che sono: molto prima che l’America conquistasse la supremazia mondiale, i visitatori stranieri criticavano gli americani per l’insolente baldanza, la narcisistica fiducia nella superiorità delle loro pratiche e dei loro valori e la disattenzione per la storia e la tradizione (propria e di altri popoli), tipica di chi è senza radici. L’elenco dei capi d’accusa si è allungato da quando gli Stati Uniti hanno egemonizzato la scena internazionale, ma non è cambiato molto. Questo antiamericanismo «culturale» è condiviso da europei, latino-americani e asiatici, laici e religiosi. Non si tratta di antipatia per l’Occidente, per la libertà o per l’Illuminismo, o qualsiasi altra astrazione ipostatizzata dagli Stati Uniti. Si tratta dell’America1.

Detestata per quello che è, l’America ispira antipatia anche per quello che fa. A questo proposito la situazione è recentemente peggiorata. Gli Stati Uniti sono spesso un cittadino internazionale negligente. Sono restii a partecipare a iniziative o accordi internazionali, che si tratti di riscaldamento globale, di guerra biologica, di giustizia penale o di diritti delle donne; insieme alla Somalia, sono gli unici a non avere ratificato la Convenzione del 1989 sui diritti dell’infanzia. L’attuale amministrazione statunitense ha «sconfessato» la firma del trattato di Roma che istituisce una corte penale internazionale e ha dichiarato di non essere più vincolata dalla convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che stabilisce l’obbligo degli Stati di tener fede ai trattati che devono ancora ratificare. L’atteggiamento americano nei confronti delle Nazioni Unite e delle loro agenzie è, a dir poco, freddo. All’inizio dell’anno l’ambasciatore degli Stati Uniti per i diritti umani ha chiesto la revoca anticipata del mandato dei tribunali ad hoc per il Ruanda e l’ex Iugoslavia, sebbene costituiscano parte integrante di una seria lotta al terrorismo internazionale e gli stessi Stati Uniti abbiano speso milioni di dollari per corrompere Belgrado e indurla a consegnare Slobodan Milošević al tribunale dell’Aia.

Per molti osservatori esterni questa posizione incoerente nei riguardi delle organizzazioni e degli accordi internazionali, alcuni dei quali sono stati istituiti con l’aiuto di Washington, smentisce l’affermazione secondo cui l’America condividerebbe gli interessi internazionali e cercherebbe partner multilaterali con cui perseguire i propri obiettivi. Lo stesso vale per le pratiche di mercato americane. Gli Stati Uniti non sono soltanto fautori, sono anche un esempio della globalizzazione: capitalismo basato sul libero mercato non ostacolato da frontiere, interessi particolari, pratiche restrittive, protezionismo o interferenze statali. Ma, all’interno dei loro confini, Washington applica dazi doganali sull’acciaio, aiuti all’agricoltura e, di fatto, sovvenzioni pubbliche (destinate, in particolare, alle industrie della difesa) per motivi di interesse politico interno. Lo fa anche l’Unione europea, com’è ovvio: la famigerata politica agricola comune assorbe il 45 per cento del bilancio di Bruxelles e, quanto ad ostacolare i prodotti degli agricoltori africani, è almeno altrettanto penalizzante di qualsiasi progetto di legge statunitense sull’agricoltura. Ma i costi per l’immagine dell’America sono molto più elevati: gli Stati Uniti sono intrinsecamente identificati con le stesse norme internazionali che trasgrediscono.

Per i critici all’estero, queste contraddizioni nel comportamento degli americani rivelano ipocrisia – forse l’accusa più comune fra quelle mosse agli Stati Uniti. E sono particolarmente irritanti perché, ipocrita o no, l’America è indispensabile. Senza la partecipazione degli americani, la maggior parte degli accordi internazionali rimarrebbe lettera morta. La leadership americana sembra essere richiesta persino in situazioni – come in Bosnia tra il 1992 e il 1995 – nelle quali i britannici e i loro partner europei dispongono dei mezzi per risolvere la crisi autonomamente. Gli Stati Uniti sono dolorosamente inadatti a svolgere il ruolo di gendarmi del mondo – la soglia dell’attenzione di Washington è notoriamente bassa, anche nelle regioni con problemi cronici come il Kashmir, i Balcani, il Medio Oriente e la Corea –, ma non sembrano avere scelta. Nel frattempo tutti, ma soprattutto gli europei, si risentono se gli Stati Uniti non assumono la guida, ma anche se lo fanno in modo troppo aggressivo.

La prevedibile reazione è stata un mutamento di registro nella politica americana, che dà voce a un’arrogante insofferenza nei riguardi dell’opinione estera di qualsiasi tipo. La guerra fredda è finita, recita il credo unilateralista dell’amministrazione Bush e dei suoi sostenitori, ora le acque si sono calmate. Sappiamo chi siamo e sappiamo cosa vogliamo. La politica estera riguarda gli interessi nazionali. Gli interessi nazionali si perseguono mediante l’esercizio del potere. Il potere si basa sulle armi e sulla volontà di utilizzarle, e noi abbiamo entrambe. Come ha scritto il columnist Charles Krauthammer nel giugno 2001, «[il] nuovo unilateralismo mira a rafforzare il potere degli Stati Uniti e a esercitarlo sfacciatamente nell’interesse di scopi globali da loro stessi definiti»2.

All’indomani dell’11 settembre la retorica unilateralista dell’amministrazione Bush si smorzò, per facilitare la ricerca di alleati nell’imminente guerra al terrorismo. I commentatori oltreocea­no, sbigottiti dalla carneficina, restituirono calorosamente il favore: «Oggi siamo tutti americani», proclamò «Le Monde», mentre la Nato invocava per la prima volta nella storia l’articolo 5 del Patto atlantico, impegnando tutti i paesi aderenti a sostenere gli Stati Uniti sotto attacco. Ma la luna di miele ha avuto breve durata. Quasi tutti gli alleati degli americani hanno sostenuto con fermezza la guerra all’Afghanistan, a prescindere dalle loro perplessità personali. Nel gennaio del 2002, invece, quando il presidente Bush ha accennato a un «asse del male» (Corea del Nord, Iran, Iraq) nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la frattura si è riaperta.

A rendere offensivo quel discorso non è stata tanto la sostanza, quanto la forma. La maggior parte degli alleati degli Stati Uniti dubita che inimicarsi l’Iran sia una mossa saggia per le nazioni occidentali e alcuni mettono in discussione il modo in cui Washington si sta occupando di Saddam Hussein. Ma queste discordanze non sono una novità. Tuttavia, appena quattro mesi dopo che l’amministrazione aveva dichiarato di voler costruire alleanze e combattere il nemico comune in stretta cooperazione con i paesi amici, nel descrivere la lotta globale dell’America contro le forze del male Bush non ha nemmeno accennato agli alleati degli Stati Uniti. E questo ha urtato i nervi3.

Per tutta risposta, gli americani si sono finti sorpresi: «Quale azione unilaterale avremmo dunque intrapreso per lasciare tutti così basiti?», domandava Colin Powell il 17 febbraio. Ma gli europei non avevano frainteso i segnali provenienti da Washington. Indipendentemente da Powell, l’opinione realista (alcuni potrebbero dire cinica) diffusa in seno all’amministrazione era che, poiché gli alleati degli Stati Uniti erano irrilevanti ai fini dei calcoli militari e politicamente non avevano altra scelta se non quella di accodarsi, non c’era niente da guadagnare consultandoli preventivamente o tenendo conto delle loro sensibilità. Nel modo più crudo, questa conclusione è stata ben riassunta, ancora una volta, da Charles Krauthammer:

I nostri sofisticati cugini europei sono sbigottiti. I francesi hanno aperto la via, denunciando il simplisme americano. Considerano indecoroso chiamare il male per nome. Preferiscono adattarvisi. Hanno fatto un sacco di pratica, notoriamente adattandosi alla Germania nazista nel 1940. [...] Stiamo combattendo una guerra di autodifesa. È anche una guerra per la civiltà occidentale. Se gli europei rifiutano di considerarsi parte di questa lotta, amen. Se vogliono rinunciare, amen. Lasceremo che stiano a guardare, ma non ci faremo legare le mani4.

È sintomatico del malumore che oggi aleggia in certi ambienti di Washington il fatto che Krauthammer ometta non solo che nel 1940 la Francia perse 100.000 uomini in sei settimane combattendo contro i tedeschi, ma anche che gli Stati Uniti mantennero ampie relazioni diplomatiche con i malvagi nazisti per altri diciotto mesi, fino a quando Hitler dichiarò guerra all’America nel dicembre del 1941.

Krauthammer, naturalmente, è solo un opinionista. Ma il nuovo registro della politica estera americana è riepilogato in tono caustico dallo stesso Colin Powell, che molti all’estero considerano l’unica voce della moderazione multilaterale nell’amministrazione Bush. Intervenendo a Roma, dopo il recente incontro tra Bush e Putin e la successiva istituzione del Consiglio Nato-Russia, ha ribadito che la politica estera americana continua a essere «multilateralista» come è sempre stata. Il nostro compito, ha spiegato, è cercare di persuadere gli amici che le nostre scelte politiche sono appropriate. Se non dovessimo riuscirci, «assumeremo la posizione che riterremo corretta e mi auguro che gli europei possano pervenire a una visione più chiara del modo in cui vogliamo condurre gli affari»5.

È questa boriosa indifferenza nei riguardi delle opinioni altrui a urtare la sensibilità all’estero e a lasciare con l’amaro in bocca gli alleati degli Stati Uniti dopo le aspettative risvegliate nel settembre del 2001. Insieme con la dottrina strategica di «autodifesa preventiva determinata a livello unilaterale», recentemente annunciata da Bush, e la prospettiva allarmante dello sviluppo di nuovi ordigni nucleari ad alta penetrazione nel terreno per possibile impiego in Iraq – una rottura senza precedenti con la storica esitazione dell’America a incoraggiare l’uso di questo tipo di armi per attacchi a sorpresa – ancora una volta dipinge il quadro di una leadership americana sorda alle critiche e alle raccomandazioni6. È una leadership che troppo spesso appare sprezzante e bellicosa e, per citare «El Pais», fomenta «allarmismi nella popolazione» con le sue ossessioni e i suoi opportunistici annunci di un’imminente Apocalisse.

Joseph Nye è preside di facoltà presso la Kennedy School di Harvard ed è stato funzionario di alto livello nel settore della difesa e dell’intelligence durante l’amministrazione Clinton. Il suo lungo saggio sulla politica estera americana è stato scritto prima degli attacchi dell’11 settembre e poi aggiornato frettolosamente in vista della pubblicazione, ma non poteva uscire in un momento più opportuno. Nye non è un idealista wilsoniano, che lamenta la ritrosaggine degli americani a unirsi alla comunità internazionale nella ricerca di un mondo migliore: nel 1990 pubblicò Bound to Lead, nel quale prevedeva a buon diritto l’avvento dell’egemonia americana7. Non è imbarazzato dalla realtà della supremazia americana.

Ciononostante, ha scritto una critica vigorosa dell’unilateralismo nella politica estera americana: la propensione diffusa a «fare da sé», prestando un’attenzione minimale ai desideri altrui. È anche inequivocabilmente scettico nei riguardi del «rea­lismo», l’approccio alle relazioni internazionali che scredita a priori l’attenzione per i diritti, le norme transnazionali o gli obiettivi morali e confina la diplomazia alla promozione degli interessi americani con ogni mezzo idoneo. Ma questo non è un libro sulla teoria delle relazioni internazionali8. L’obiezione di Nye all’unilateralismo, o al realismo nel senso usato in questa sede, non è che sia azzardoso sotto il profilo concettuale: la sua tesi è che semplicemente non funziona.

Dal punto di vista di Nye, le relazioni internazionali oggi assomigliano a una complicatissima partita a scacchi giocata su tre scacchiere. Su una scacchiera c’è la pura forza militare, un terreno sul quale gli Stati Uniti regnano incontrastati. Sulla seconda scacchiera ci sono il potere e il prestigio economici: in questo campo l’Unione europea contende già il primato agli Stati Uniti in termini di scambi commerciali, regolamentazione dei monopoli e definizione di norme industriali, e distanzia l’America nel settore delle telecomunicazioni, nella politica ambientale e in molti altri ambiti. Sono inoltre presenti altri giocatori.

Sulla terza scacchiera Nye colloca le varie attività non governative che vanno moltiplicandosi e che influenzano il nostro mondo: i flussi monetari, la migrazione, le aziende transnazionali, le organizzazioni non governative, le agenzie internazionali, gli scambi culturali, i mezzi di comunicazione elettronici, Internet e il terrorismo. I soggetti non statali comunicano e operano su questo terreno sostanzialmente liberi dalle interferenze dello Stato e il potere di ogni singola nazione, compresi gli Stati Uniti, è facilmente sconfitto e neutralizzato.

Il problema di quanti hanno il compito di formulare e descrivere la politica statunitense odierna, a giudizio di Nye, è che giocano soltanto sulla prima scacchiera e non vedono al di là della potenza di fuoco dell’esercito americano. Per citare le sue parole: «Chi caldeggia una politica estera americana tesa all’egemonia, basata su descrizioni tradizionali del potere americano, fa affidamento su un’analisi tristemente inadeguata». Prima dell’11 settembre, secondo Nye, gli americani erano volutamente sordi al mondo che li circondava. Ignorarono spensieratamente anche chi, come gli ex senatori Gary Hart e Warren Rudman, nel 1999 li ammoniva riguardo a un’imminente catastrofe: «È probabile che gli americani moriranno sul nostro territorio e, sicuramente, in gran numero»9. L’11 settembre dovrebbe avere lanciato un chiaro invito a esaminare la situazione in una nuova prospettiva, ma l’attuale leadership americana non sembra prestare ascolto.

Se gli Stati Uniti intendono vincere la loro guerra al terrorismo, se vogliono riuscire ad affermare la loro leadership mondiale, avranno bisogno del sostegno e della comprensione di altri, in particolare per trattare con gli Stati arabi e musulmani poveri e altri paesi insofferenti della propria arretratezza. È del tutto logico. Le azioni di polizia internazionale e la regolamentazione e il controllo degli spostamenti intercontinentali di capitali, merci e persone richiedono cooperazione a livello internazionale10. Gli «Stati falliti», tra le cui macerie allignano i terroristi, devono essere ricostruiti – gli Stati Uniti trascurano questo compito in maniera imperdonabile e non sanno nemmeno più svolgerlo molto bene, in deprimente contrasto con l’efficienza di cui diedero prova dopo il 1945. L’America bombarda, ma il lavoro complesso e pericoloso di ricostruzione è lasciato ad altri.

L’Unione europea (compresi i paesi candidati all’adesione) attualmente contribuisce alle forze di mantenimento della pace a livello mondiale in misura dieci volte superiore agli Stati Uniti e in Kosovo, Bosnia, Albania, Sierra Leone e altrove gli europei hanno subìto più vittime militari degli Stati Uniti. Il cinquantacinque per cento degli aiuti allo sviluppo distribuiti nel mondo e due terzi di tutte le sovvenzioni a sostegno delle nazioni povere e vulnerabili del pianeta provengono dall’Unione europea. In percentuale del Pnl, gli aiuti esteri statunitensi raggiungono appena un terzo della media europea. Se si sommano la spesa europea per la difesa, gli aiuti esteri, la raccolta di informazioni e le azioni di polizia – tutte attività vitali per qualsiasi lotta duratura contro la criminalità internazionale –, il totale raggiunge facilmente l’attuale dotazione di bilancio per la difesa americana. Nonostante lo sfoggio di muscoli che a volte passa per analisi della politica estera nella Washington contemporanea, gli Stati Uniti hanno assoluto bisogno di amici e alleati per conseguire i loro obiettivi.

Se vuole ottenere e conservare il sostegno estero, l’America dovrà imparare a esercitare quello che Nye definisce «soft power». I grandi discorsi su un nuovo impero americano sono illusori, secondo Nye: un’altra allusione storica fuorviante, da inserire nel catalogo delle analogie abusate insieme con «Vietnam» e «Monaco». A Washington oggi si sentono vantare a gran voce unipolarità ed egemonia ma, come scrive Nye, il fatto è che

l’affermazione del primato statunitense dipenderà non solo dalla nostra forza militare o economica, ma anche dal soft power derivante dalla nostra cultura e dai nostri valori e da politiche in grado di dimostrare agli altri che sono stati consultati e che i loro interessi sono tenuti in considerazione. Parlare di impero potrebbe abbagliarci e indurci a pensare erroneamente di poter agire da soli11.

Il soft power, nel significato attribuitogli da Nye, assomiglia tanto al buon senso, e così sarebbe parso a ogni amministrazione americana del dopoguerra, da Harry Truman a George Bush Sr. Per indurre gli altri a volere quello che si vuole, bisogna fare in modo che si sentano inclusi. Il soft power è questione di influenza, esempio, credibilità e reputazione. L’Unione sovietica, secondo Nye, lo perse nel corso delle invasioni dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968. Il soft power degli Stati Uniti è rafforzato dall’apertura e dal vigore della società americana ed è indebolito dalla grossolanità gratuita, come l’atteggiamento ottuso con cui Bush ha dichiarato «morto» l’accordo di Kyoto. Gli Stati scandinavi e il Canada esercitano un’influenza ben superiore al peso che hanno negli affari internazionali perché sono identificati in tutto il mondo con gli aiuti e il mantenimento della pace. Anche questo è soft power.

Non è necessario essere d’accordo con Nye in tutto e per tutto per sentirsi in sintonia con la sua tesi generale. Quel che propone, in fondo, è che il governo degli Stati Uniti porti quello che Thomas Jefferson un tempo definì «un dignitoso rispetto per le opinioni dell’umanità». Lungi dal rappresentare un frustrante ostacolo al perseguimento dell’interesse nazionale, l’esercizio giudizioso della moderazione e della cooperazione può soltanto migliorarlo, in un mondo in cui l’America è comunque incapace di difendere da sola i suoi molteplici interessi. Nye ha poca pazienza con chi, come l’attuale consigliere12 per la sicurezza nazionale, nella propria visione ristretta ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero «partire dal solido terreno dell’interesse nazionale e non da quello di un’illusoria comunità internazionale».

Secondo Nye, l’interesse nazionale in una democrazia «è semplicemente ciò che i cittadini, dopo attenta riflessione, dicono debba essere». Data la natura della democrazia moderna, questa idea è un po’ ingenua, ma qualsiasi definizione dell’interesse americano di sicuro può includere la perdita di una briciola di sovranità in cambio di un paniere di beni pubblici i cui benefici sarebbero condivisi con il mondo intero.

I costi della protervia americana sono ben illustrati dalla recente schermaglia riguardo alla corte penale internazionale. L’amministrazione Bush si oppone a questo organo giurisdizionale sostenendo che gli americani in servizio all’estero sarebbero esposti a incriminazioni pretestuose. Di conseguenza, in vista dell’inaugurazione della corte il 1° luglio 2002, verso la fine di giugno gli Stati Uniti hanno minacciato di ritirarsi dalle missioni di pace dell’Onu e di porre il veto su tutte le operazioni future, a meno che agli americani sia garantita un’esenzione generale dalla giurisdizione della corte. Forse un po’ sconcertati dal rifiuto degli altri membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di cedere a questo tipo di pressioni, dopo lunghe e animate discussioni gli Stati Uniti hanno accettato un compromesso per salvare la faccia: i militari delle forze di pace dell’Onu provenienti da paesi che non hanno aderito alla corte penale internazionale godranno di un anno di immunità dall’azione penale, rinnovabile ogni 1° luglio.

Il comportamento degli Stati Uniti in questa vicenda è stato oltremodo indecoroso. Al momento ci sono soltanto settecento americani in servizio all’estero nelle missioni di pace delle Nazioni Unite (su un totale di 45.000 effettivi) e lo statuto della corte penale internazionale conteneva già alcune clausole, inserite espressamente per ammorbidire Washington, che in pratica esoneravano le missioni dell’Onu dall’azione penale. È chiaro che la posizione iniziale adottata dagli Stati Uniti lo scorso giugno mirava a minare alla base la corte penale internazionale e le attività di peacekeeping delle Nazioni Unite – entrambe disprezzate ed esecrate da Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Condoleezza Rice. La presa di posizione di Washington è particolarmente imbarazzante perché svuota di ogni significato l’insistenza americana sulla necessità di ricercare e perseguire i terroristi e altri criminali politici a livello internazionale e perché offre la copertura americana ai paesi e ai politici che hanno motivi reali per temere la nuova corte. Al riguardo, tutti i nostri alleati in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno votato contro gli Stati Uniti, mentre l’opposizione di Washington alla corte penale internazionale è sostenuta da Iran, Iraq, Pakistan, Indonesia, Israele ed Egitto13.

Ciononostante, molti obiettivi fortemente perseguiti si potrebbero raggiungere se solo gli Stati Uniti smettessero di osteggiarli: Washington ha rifiutato di firmare il protocollo internazionale sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati e il Congresso non ratificherà la convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni discriminazione nei confronti della donna; nel primo caso, perché il Pentagono vuole riservarsi il diritto di reclutare qualche diciassettenne, nel secondo a causa della lobby antiabortista. Come la segregazione razziale negli anni Cinquanta, queste politiche screditano gli Stati Uniti a livello mondiale: un ostacolo innegabile al perseguimento dell’interesse americano, comunque lo si definisca. Anche solo dando l’impressione di prendere il mondo sul serio, si rafforzerebbe infinitamente l’influenza americana: dagli intellettuali europei ai fondamentalisti islamici, l’antiamericanismo trova terreno fertile nell’accusa che gli Stati Uniti sono cinicamente indifferenti alle opinioni e alle esigenze altrui.

C’è una differenza abissale tra incoraggiare gli altri a volere quello che si vuole e indurli con le lusinghe a volere quello che si ha. Molti commentatori americani non colgono questa distinzione e nella loro visione limitata suppongono che il mondo si divida fra chi vuole ciò che l’America ha e chi odia l’America perché ce l’ha. Joseph Nye è attento a evitare questo solipsismo. Ma persino Nye dà per scontato che gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali siano sostanzialmente d’accordo e abbiano valori e obiettivi comuni: tutto ciò che occorre per ricucire lo strappo fra l’Europa e gli Stati Uniti è esercitare in maniera più oculata e sensibile l’influenza diplomatica americana. Io non ne sono altrettanto sicuro.

II

A un livello superficiale, il divario atlantico è un sottoprodotto della ristrutturazione successiva alla guerra fredda. Lo scopo della Nato ora è poco chiaro e l’opinione è divisa (in Europa come negli Stati Uniti) in merito a se e come gli europei debbano organizzarsi per assicurare la propria difesa collettiva in assenza di una minaccia sovietica. L’Unione europea, libera di espandersi a Est, è assorbita dai dibattiti interni su come procedere all’allargamento e sulle conseguenze per la propria capacità di governo. I tre «grandi» Stati membri (Germania, Francia, Regno Unito) sono cauti di fronte alla prospettiva di vedere le proprie azioni limitate da più di venti Stati minori, mentre questi ultimi si aggrappano ansiosi alla parità di trattamento all’interno dell’Unione. Il mondo esterno non riceve la completa attenzione dell’Europa.

Nell’interesse dell’euro, l’Ue ha imposto agli Stati membri vincoli di spesa rigorosi, proprio mentre i figli del baby boom postbellico raggiungono l’età della pensione e gravano pesantemente sui fondi pensionistici nazionali. La situazione è invelenita dalla retorica provocatoria dell’estrema destra contro gli immigrati. Per tutti questi motivi, e a causa della dipendenza precedente dalla protezione nucleare americana, gli europei sono restii a dirottare risorse pubbliche a favore della spesa militare e la maggior parte di essi non comprende pienamente l’inquietudine dell’America riguardo al terrorismo dopo l’11 settembre: i britannici e gli spagnoli hanno convissuto con il terrorismo sanguinario interno per più di trent’anni.

In ogni caso, anche se gli europei oggi si sentono più «europei» rispetto al passato, l’Ue non sarà mai una «superpotenza», nonostante tutto il suo peso economico14. L’«Europa» non pensa in modo strategico, e persino i grandi Stati membri non sono in grado di farlo isolatamente. Anche quando sono tutti d’accordo – per esempio nell’esprimere inquietudine e irritazione per la politica fallimentare di Bush in Medio Oriente – i leader europei non possono schierarsi come un sol uomo per affermarlo. Gli europei hanno ragione a criticare la tendenza dell’America a scendere in campo, eliminare i nemici e poi ritirarsi nella propria fortezza. Come ha scritto Chris Patten, commissario Ue per gli Affari esteri, dopo il discorso sull’«asse del male», «i veri amici non sono leccapiedi» e gli Stati Uniti hanno bisogno dei loro amici15. No hanno però una strategia alternativa da proporre.

La frattura in Occidente tuttavia non si limita alle diatribe in materia di difesa. Per mezzo secolo la guerra fredda e l’alleanza atlantica hanno celato le profonde differenze presenti tra due tipi di società in netto contrasto fra loro. Gli europei «non spendono abbastanza» per la difesa non solo perché la garanzia americana ha permesso loro di entrare nel giardino della Pace perpetua16, ma anche perché nella seconda metà del secolo scorso scelsero di destinare una grande quantità di fondi a servizi pubblici costosi (e molto popolari). Il risultato è che sotto molti importanti aspetti l’Europa e gli Stati Uniti in realtà sono meno simili rispetto a cinquant’anni fa.

Questa osservazione cozza con le teorie sulla «globalizzazione» e sull’«americanizzazione» avanzate non solo dagli entusiasti fautori del processo, ma anche dai suoi critici più feroci. Eppure la promessa di un nuovo secolo americano è meno significativa di quanto sembri. In primo luogo, si tratta di un film già visto. È un principio fondamentale dei profeti della globalizzazione che la logica dell’efficienza economica debba fare piazza pulita davanti a sé (una superstizione tipica del diciannovesimo secolo che condividono con i marxisti). Ma così sembrava anche all’apice della precedente grande era di globalizzazione, alla vigilia della prima guerra mondiale, quando molti osservatori similmente prevedevano il declino dello Stato nazionale e l’avvento di un’era di integrazione economica internazionale.

Come sappiamo, è successo tutt’altro e i livelli di scambi commerciali, comunicazioni e mobilità internazionali del 1913 non sarebbero stati nuovamente raggiunti fino alla metà degli anni Settanta. Le emergenze della politica interna hanno avuto la meglio sulle «leggi» del comportamento economico internazionale, e potrebbe succedere ancora. Il capitalismo ha davvero un raggio d’azione globale, ma le forme che assume a livello locale sono sempre state assai variabili e lo sono tuttora. Ciò è dovuto al fatto che le pratiche economiche influenzano le istituzioni e le norme giuridiche nazionali e a loro volta ne subiscono l’influenza; sono profondamente radicate in culture nazionali e morali molto diverse.

In parte per questo motivo, il modello americano non è palesemente più allettante per chi vive altrove e il suo trionfo è lungi dall’essere assicurato. Gli europei vivono un tipo di vita assai diverso da quello degli americani. Più di un americano su cinque è povero, mentre le cifre relative all’Europa occidentale continentale si aggirano intorno all’8 per cento. Negli Stati Uniti la mortalità infantile nel primo anno di vita è superiore del sessanta per cento rispetto a quella registrata in Francia e in Germania. La disparità tra ricchi e poveri è molto più ampia negli Stati Uniti rispetto a qualsiasi paese dell’Europa continentale (o rispetto agli Stati Uniti vent’anni fa), ma meno di un americano su tre è favorevole a una ridistribuzione significativa della ricchezza, mentre il 63 per cento dei britannici la sostiene e le cifre sono ancora più elevate nei paesi dell’Europa continentale.

Ancora prima della nascita dei moderni Stati sociali europei, la maggior parte dei lavoratori dipendenti in Europa godeva dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie (in Germania dal 1883) e tutti gli europei occidentali ora danno per scontata la rete interdipendente di garanzie, tutele e servizi di assistenza e si oppongono alla loro riduzione o abolizione ogni volta che sono chiamati alle urne. L’insicurezza sociale e lavorativa con la quale decine di milioni di americani hanno familiarità è considerata da molto tempo politicamente intollerabile in tutti i paesi dell’Unione europea. Se il fascismo e il comunismo sono stati reazioni europee all’ultima grande ondata di globalizzazione laissez-faire (come suggerito da Joseph Nye e altri), allora il «capitalismo del welfare» è l’assicurazione dell’Europa contro la loro ricomparsa. Per motivi prudenziali, se non per altre ragioni, il resto dell’Occidente non ha intenzione di imboccare la strada americana.

Ma che dire dell’affermazione secondo cui gli europei, come chiunque altro nel mondo, avranno poco da scegliere? Si parla molto dell’imminente e ineluttabile trionfo della prassi economica americana a spese dell’ingombrante, infruttuosa e rigida variante europea. Eppure, per quanto penalizzate siano da tutti i presunti impedimenti costituiti dal loro passato statalista, le economie del Belgio, della Francia e dei Paesi Bassi l’anno scorso in realtà vantavano una produttività per ora lavorata superiore a quella dell’economia statunitense, mentre Irlanda, Austria, Danimarca e Germania seguivano a breve distanza17.

Tra il 1991 e il 1998 la produttività, in media, è di fatto cresciuta più rapidamente in Europa che negli Stati Uniti. Ciononostante gli Stati Uniti sorpassano l’Europa in termini lordi. Ciò è dovuto al fatto che più americani lavorano, lo Stato preleva meno dai loro stipendi (e offre meno in cambio), l’orario di lavoro è più lungo (28 per cento in più dei tedeschi, 43 per cento in più dei francesi) e i lavoratori hanno periodi di ferie più brevi o non vanno in vacanza.

Se l’Europa (o qualsiasi paese) sarebbe più simile all’America qualora adottasse il modello economico americano è questione di pura accademia. L’economia americana moderna non è riproducibile altrove. La «guerra al terrore» non è l’unica circostanza in cui gli Stati Uniti dipendono seriamente dall’estero. Il «miracolo» economico americano dello scorso decennio è stato alimentato dall’afflusso di capitale estero, pari a 1,2 miliardi di dollari al giorno, necessario per coprire il disavanzo della bilancia commerciale del paese, attualmente dell’ordine di 450 miliardi di dollari l’anno. È stato questo enorme afflusso di investimenti a mantenere alto il prezzo delle azioni, basso il tasso di inflazione e di interesse e a garantire la crescita dei consumi interni.

Se un paese europeo, asiatico o latino-americano avesse deficit paragonabili, sarebbe da tempo in balìa del Fondo monetario internazionale. Gli Stati Uniti sono l’unica nazione che può concedersi il lusso di dipendere a tal punto dagli investitori esteri, perché il dollaro è la moneta di riserva del mondo dalla seconda guerra mondiale. Per quanto tempo l’economia americana sarà in grado di funzionare in questo modo, prima di essere richiamata alla spiacevole realtà da una perdita di fiducia oltreoceano, è un argomento molto dibattuto, e altrettanto lo è l’affermazione che sarebbero stati questi fiumi di denaro provenienti dall’estero, più della produttività senza precedenti dei nuovi settori ad alta tecnologia, a favorire la prosperità degli anni Novanta18. L’unica cosa chiara è che, malgrado tutte le sue recenti attrattive, il modello americano è unico e non si presta a essere esportato.

Lungi dall’universalizzarne il fascino, la globalizzazione semmai ha smorzato l’entusiasmo per il modello americano all’estero: la riduzione dei beni e dei servizi di proprietà dello Stato nel corso degli ultimi vent’anni in Europa non è stata accompagnata da una riduzione degli obblighi sociali a carico dello Stato – fatta eccezione per la Gran Bretagna dove, non a caso, il governo ha dovuto fare marcia indietro di fronte all’opposizione dei cittadini. È perché vivono in società molto diverse che gli europei e gli americani hanno una visione così dissimile del mondo e danno importanza a processi e risultati internazionali in forte contrasto fra loro.

I leader americani moderni in genere ritengono che nella sfera pubblica sia meglio abbandonare i cittadini al loro destino, limitando l’intervento dello Stato, e tendono a considerare in questa prospettiva anche le vicende internazionali. Visto da Washington, il mondo è un insieme di sfide o minacce distinte, la cui importanza è stabilita in funzione delle implicazioni per l’America. Poiché gli Stati Uniti sono una potenza globale, quasi tutto ciò che accade nel mondo li riguarda, ma l’istinto degli americani li spinge ad affrontare e risolvere ogni problema singolarmente.

C’è anche la fiducia squisitamente americana nel fatto che i problemi possano davvero essere risolti – e a quel punto gli Stati Uniti possono tornare a casa. Questo accento sulla «strategia di uscita», sull’essere nel mondo ma non esattamente parte di esso, sempre liberi di ritirarsi dalla mischia, ha il suo corrispettivo nazionale nella vita americana moderna. Come molti loro cittadini, soprattutto dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti si sentono più tranquilli quando si ritirano nella loro «comunità blindata».

Questa scelta non è a disposizione degli europei e altri per i quali il mondo di oggi è una ragnatela di organismi e regimi giuridici interdipendenti, che disciplinano e controllano quasi ogni aspetto della vita. I problemi con cui l’Europa si confronta oggi – criminalità, immigrazione, rifugiati, rischi ambientali, integrazione istituzionale – sono per natura cronici e tutti trascendono i confini nazionali. I governi sono abituati ad agire di concerto o attraverso istituzioni multilaterali. Come il settore pubblico ha sostituito l’iniziativa individuale in molti ambiti della vita nazionale, così l’abitudine di collaborare influenza il modo in cui gli europei affrontano gli affari internazionali. Sotto questi aspetti, l’Europa si è «globalizzata» con successo, mentre gli Stati Uniti sono rimasti parecchio indietro.

Per tutti questi motivi, e perché buona parte della politica estera americana è dettata da considerazioni grette che non cambieranno entro breve, è difficile condividere le conclusioni ottimistiche di Joseph Nye sul futuro del «soft power» americano. Gli Stati Uniti sono letteralmente il peggior nemico di se stessi: è assecondando gli elettori nazionali che i presidenti americani il più delle volte si inimicano l’opinione estera. La retorica reboante e l’unilateralismo funzionano bene in patria e possono anche intimidire i nemici stranieri (anche se questo pare dubbio). Ma di sicuro terrorizzano ed estraniano un terzo, importante gruppo: i numerosi amici e ammiratori dell’America all’estero.

Eppure l’America è ancora stimata e persino riverita oltreoceano, non grazie alla globalizzazione, ma a dispetto di essa. L’America non è incarnata da Mtv e McDonald’s, o da Enron o Bernie Ebbers di WorldCom. L’America non è nemmeno particolarmente ammirata all’estero per il suo imponente apparato militare, o non più di quanto sia rispettata per la sua ricchezza impareggiabile. Il potere e l’influenza americani in realtà sono molto fragili, perché si fondano su un’idea, un mito unico e insostituibile: che gli Stati Uniti rappresentano davvero un mondo migliore e continuano a essere la migliore speranza per tutti coloro che aspirano a costruirlo.

La vera minaccia per gli Stati Uniti, che l’amministrazione Bush non ha ancora nemmeno cominciato a capire, è che davanti alla noncuranza e all’indifferenza dell’America questo mito si appannerà e «gran parte delle società chiave si ribelleranno agli Stati Uniti e ai valori globali del libero scambio e della libera società»19. Questo decreterebbe la fine dell’«Occidente» così come lo abbiamo inteso per mezzo secolo. La comunità di interessi e amicizia reciproca del Nord Atlantico creata nel dopoguerra era inedita e preziosa: la sua scomparsa sarebbe un disastro per tutti20.

Ciò che permette all’America di esercitare un’influenza formidabile a livello internazionale non è la sua capacità bellica ineguagliabile, ma la fiducia riposta nelle sue buone intenzioni. Questo è il motivo per cui l’opposizione di Washington alla corte penale internazionale procura gravi danni. Dà l’impressione che gli Stati Uniti non si fidino del resto del mondo e temano che gli americani non riceveranno un trattamento equo. Ma se l’America dimostra di non avere fiducia negli altri, potrebbe arrivare il momento in cui si vedrà restituire il favore.

Nella primavera del 2001 la Macedonia, il minuscolo Stato nei Balcani meridionali, era sull’orlo di una guerra civile. La maggioranza slava si confrontava con la ribellione della minoranza albanese svantaggiata e frustrata; il governo, guidato da nazionalcomunisti irriducibili, aveva una gran voglia di scatenare una violenta e sanguinosa «azione di polizia». Con grande difficoltà, gli intermediari provenienti dalla Gran Bretagna e altrove negoziarono un fragile accordo: gli insorti avrebbero deposto le armi e, in cambio, il parlamento avrebbe approvato leggi volte a proteggere e a sancire i diritti dei cittadini albanesi del paese. Per alcune settimane tutti rimasero con il fiato sospeso: se la Macedonia «saltava», i Balcani meridionali sarebbero potuti esplodere, risucchiando la Grecia, la Turchia e la Nato nel calderone.

Ma la Macedonia non «saltò», l’accordo resse e regge tuttora. Al culmine dell’emergenza, chiesi a un amico albanese che cosa trattenesse il governo macedone, manifestamente scontento degli accordi, dallo stracciarli e prepararsi al peggio. «Il fax di Colin Powell», mi rispose. L’autorità morale del segretario di Stato americano (ed era soltanto morale: gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di inviare militari); il fatto che la Macedonia fosse abbastanza importante per l’America da indurre Powell a far sentire tutto il proprio peso: sono bastate queste considerazioni per disinnescare un’importante crisi regionale.

Finché questi paesi sconosciuti e lontani continuano a essere importanti per l’America, l’America sarà importante per loro e per chiunque altro e conserverà il suo potere a fin di bene. Ma se l’America smette di interessarsene, smetterà anche di contare. Se Washington smette di fidarsi, perderà la fiducia altrui. Il fax resterà silenzioso e noi saremo tutti molto più soli e infinitamente più vulnerabili; soprattutto gli Stati Uniti.

 

* Questo saggio – una recensione del libro di Joseph S. Nye Jr., The Paradox of American Power: Why the World’s Only Superpower Can’t Go It Alone, Oxford University Press, New York 2002 [trad. it. di Elena Colombo, Il paradosso del potere americano: perché l’unica superpotenza non può più agire da sola, Einaudi, Torino 2002] – è stato pubblicato per la prima volta nell’agosto 2002 sulla «New York Review of Books».

1 L’attacco dell’11 settembre ha prodotto una piccola valanga di libri sull’antiamericanismo e le sue implicazioni. Si veda, per esempio, The Age of Terror: America and the World after September 11, a cura di Strobe Talbott e Nayan Chanda, Basic Books, New York 2001; How Did This Happen? Terrorism and the New War, a cura di James F. Hoge Jr. e Gideon Rose, Public Affairs, New York 2001; e Granta: What We Think of America, a cura di Ian Jack, Grove, New York 2002.

2 Charles Krauthammer, The New Unilateralism, «The Washington Post», 8 giugno 2001.

3 Nel suo discorso, Bush ha menzionato l’Europa una sola volta e ha ignorato del tutto la Nato e l’Unione europea.

4 Charles Krauthammer, The Axis of Petulance, «The Washington Post», 1° marzo 2002. Variazioni su questo tema si possono trovare negli scritti di William Kristol e Robert Kagan, gli intellettuali di casa presso l’amministrazione Bush. Si veda, per esempio, Robert Kagan e William Kristol, The Bush Era, «The Weekly Standard», 11 febbraio 2002.

5 «The Economist», 1-7 giugno 2002, p. 27.

6 Sulle mosse dell’amministrazione Bush a favore dello sviluppo di armi nucleari per impiego effettivo, si veda Steven Weinberg, The Growing Nuclear Danger, «The New York Review of Books», 18 luglio 2002.

7 Bound to Lead: The Changing Nature of American Power, Basic Books, New York 1990.

8 Per una lucida esposizione del pensiero realista nella storia delle relazioni internazionali, si veda il nuovo libro di Jonathan Haslam, No Virtue Like Necessity: Realist Thought in International Relations since Machiavelli, Yale University Press, New Haven 2002.

9 Gary Hart e Warren Rudman, New World Coming: American Security in the Twenty-First Century, Phase I Report, US Commission on National Security/21st Century, 1999, p. 4, citata in Nye, The Paradox of American Power, cit., p. x [trad. it. p. xiv].

10 Prima dell’11 settembre, il principale intralcio alla regolamentazione internazionale del riciclaggio di denaro e dei paradisi fiscali, la linfa vitale del terrorismo, era costituito dal dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti.

11 Joseph Nye, Lessons in Imperialism, «Financial Times», 17 giugno 2002.

12 Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza nazionale dal 2001 al 2005 [N.d.T.].

13 Negli ultimi mesi gli Stati Uniti si sono ritrovati più di una volta in dubbia compagnia. Lo scorso novembre, quando l’America ha posto il veto su un protocollo destinato a rendere più incisiva la convenzione sulle armi biologiche, ormai vecchia di trent’anni, e ha di fatto vanificato gli sforzi profusi da un’intera generazione al fine di arrestare la diffusione di queste armi letali, soltanto una manciata dei 145 firmatari della convenzione ha preso le parti di Washington, tra cui la Cina, la Russia, l’India, il Pakistan, Cuba e l’Iran. Come forza unita in favore del bene negli affari internazionali, «l’Occidente» quasi non esiste. In troppi casi la posizione di Washington oggi pone gli Stati Uniti in contrasto con l’Europa occidentale, il Canada, l’Australia e la maggior parte degli Stati latino-americani, mentre l’«unilateralismo» americano è sostenuto (per proprio tornaconto) da una cricca impresentabile di dittatori e attaccabrighe regionali.

14 Il più recente di numerosi scritti sul destino collettivo dell’Europa è il libro di David P. Calleo, Rethinking Europe’s Future, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2001, una descrizione dotta e ponderata dell’Unione europea, della sua storia e delle sue prospettive.

15 Si veda «Financial Times», 15 febbraio 2002.

16 Si veda Robert Kagan, Power and Weakness, «Policy Review», n. 113, giugno/luglio 2002, dove il paradiso «kantiano» ed egoistico dell’Europa è contrapposto in modo poco lusinghiero ai compiti titanici che attendono l’America nel mondo reale dell’anarchia internazionale.

17 Si veda «Financial Times», 20 febbraio 2002.

18 Per un’impietosa analisi negativa delle deficienze del modello americano, si veda Will Hutton, The World We’re In, Little, Brown, New York 2002 [trad. it. di Fabrizio Saulini, Europa vs Usa. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa, Fazi, Roma 2003], al quale devo alcuni dati citati. La critica di Hutton sarebbe più convincente se non avesse dipinto un quadro così roseo dell’alternativa europea.

19 Michael J. Mazarr, Saved from Ourselves?, in What Does the World Want from America?, a cura di Alexander T.J. Lennon, MIT Press, Cambridge (MA) 2002, p. 167; pubblicato per la prima volta su «The Washington Quarterly», vol. 25, n. 2 (primavera 2002).

20 Si veda William Wallace, US Unilateralism: A European Perspective, in Multilateralism and US Foreign Policy: Ambivalent Engagement, a cura di Stewart Patrick e Shepard Forman, Lynne Rienner, Boulder 2002, pp. 141-166.