Capitolo
16
Come viviamo oggi*
I
Stiamo assistendo alla dissoluzione di un sistema internazionale. Il nucleo di quel sistema, e il suo cuore spirituale, era l’alleanza nordatlantica: non solo il trattato sulla difesa del 1949, ma un reticolo di intese e accordi iniziato con la Carta atlantica del 1941 e dipanatosi attraverso le Nazioni Unite e le loro agenzie; gli accordi di Bretton Woods e le istituzioni che hanno generato; le convenzioni sui rifugiati, i diritti umani, il genocidio, il controllo delle armi, i crimini di guerra e molto altro. I meriti di questa rete interdipendente di cooperazione e impegno transnazionali andavano ben al di là dell’obiettivo di contenere e in definitiva sconfiggere il comunismo. Alla base del nuovo ordinamento del mondo c’era il ricordo di trent’anni calamitosi di guerre, depressione, tirannia interna e anarchia internazionale, come ben compresero coloro che erano presenti al momento della sua creazione1.
La fine della guerra fredda non ha quindi reso superfluo l’ordine del dopoguerra. Anzi, è vero il contrario. In un mondo post-comunista, i territori fortunati dell’Europa occidentale e del Nord America erano in una posizione unica per esortare il resto del mondo a imparare le lezioni delle loro conquiste: mercati e democrazia, sì, ma anche i benefici della partecipazione in buona fede alle istituzioni e alle pratiche di una comunità internazionale integrata. Che tale comunità debba conservare i mezzi e la volontà di punire i propri nemici è stato illustrato con efficacia, se pur tardivamente, in Bosnia e nel Kosovo (e, in termini di inadempimento, in Ruanda). Come questi episodi hanno indicato, e l’11 settembre 2001 ha confermato, soltanto gli Stati Uniti hanno le risorse e la determinazione necessarie per difendere il mondo interdipendente che tanto si prodigarono per promuovere; e l’America sarà sempre il bersaglio primario di chi vuole vedere quel mondo scomparire.
È quindi una tragedia di proporzioni storiche il fatto che oggi siano gli stessi leader americani a corrodere e disciogliere i legami che vincolano gli Stati Uniti ai loro più stretti alleati nella comunità internazionale. Gli Stati Uniti stanno per muovere guerra all’Iraq per motivi che restano oscuri persino a molti dei loro stessi cittadini. La guerra che essi comprendono, la guerra al terrorismo, è stata associata in modo poco convincente all’elenco dei capi d’accusa contro un tiranno arabo. Washington è in fibrillazione per i grandi progetti destinati a ridisegnare la carta del Medio Oriente; nel frattempo, la vera crisi mediorientale, in Israele e nei territori occupati, è stata subappaltata ad Ariel Sharon. Dopo la guerra, in Iraq come in Afghanistan, Palestina e altrove, gli Stati Uniti avranno bisogno dell’aiuto e della cooperazione (per non parlare del libretto degli assegni) dei loro principali alleati europei; e non ci sarà una vittoria durevole contro Osama bin Laden o chiunque altro senza una cooperazione internazionale di lunga durata. Si potrebbe pensare che questo non sia il momento migliore per accingersi entusiasti a demolire l’alleanza occidentale; eppure è proprio quello che i nostri leader stanno facendo. (L’entusiasmo è ben illustrato nella Guerra all’Iraq di Lawrence Kaplan e William Kristol, che esamineremo più avanti.)
Gli europei non sono innocenti al riguardo. Decenni di rassicurazione nucleare da parte americana hanno provocato una distrofia militare senza precedenti. Il co-dominio franco-tedesco era destinato a provocare prima o poi una forte reazione tra le nazioni europee più piccole. L’incapacità dell’Unione europea di trovare il consenso sulla politica estera, e tanto meno la forza per tradurlo in azione, ha consegnato a Washington il monopolio della definizione e risoluzione delle crisi internazionali. Nessuno dovrebbe stupirsi se gli attuali leader d’America hanno deciso di esercitarlo. Ciò che ebbe inizio alcuni anni fa sotto forma di frustrazione degli americani per l’incapacità degli europei di organizzarsi e impegnarsi ai fini della propria difesa si è ora trasformato in fonte di soddisfazione per i falchi statunitensi. Gli europei non sono d’accordo con noi? Pazienza! Non abbiamo bisogno di loro; e in ogni caso, che cosa possono fare? A Bruxelles, Parigi e Berlino sono offesi e risentiti? Ebbene, possono dare la colpa soltanto a se stessi. Ricordiamoci della Bosnia2.
Eppure oggi è l’amministrazione Bush a provare risentimento e frustrazione: viene fuori che i francesi, almeno, in realtà possono fare parecchio. Insieme con i belgi e i tedeschi in seno alla Nato, e con i russi e i cinesi all’Onu, possono contrastare, contenere, ritardare, ostacolare, frenare, smentire, imbarazzare e soprattutto irritare gli americani. Nel prepararsi alla guerra in Iraq, gli Stati Uniti oggi pagano il prezzo di due anni di sdegnosa indifferenza nei confronti dell’opinione internazionale. La lèse-majesté dei francesi, in particolare, ha spinto l’attuale leadership americana a dare sfogo in pubblico a inedite espressioni di collera nei confronti degli alleati per essere usciti dai ranghi: per citare le immortali parole del presidente Bush: «O siete con noi, o siete con i terroristi». Peggio ancora, ha portato al parossismo il sarcasmo eurofobico sui media statunitensi, promosso senza ritegno da politici e commentatori che dovrebbero avere un po’ più di buonsenso.
Due miti dominano il dibattito pubblico sull’Europa oggi in corso negli Stati Uniti. Il primo, che sarebbe comico se non fosse per i danni che provoca, è il concetto di «vecchia» e «nuova» Europa. A gennaio Donald Rumsfeld, il segretario della Difesa, ha proposto questa distinzione e tutta la gradinata dei tifosi al Pentagono si è affrettata a riprenderla con maligna solerzia. Sul «Washington Post» un’entusiasta Anne Applebaum assecondava Rumsfeld: Gran Bretagna, Italia, Spagna, Danimarca, Polonia, Ungheria e Repubblica ceca (paesi firmatari di una lettera di sostegno al presidente Bush pubblicata sul «Wall Street Journal») hanno tutti «liberalizzato e privatizzato» la rispettiva economia, scriveva, e questo li avvicina al modello americano. Possiamo contare sul fatto che in futuro saranno questi paesi, non la «vecchia Europa» della Francia e della Germania, a parlare in nome dell’«Europa»3.
L’idea che l’Italia abbia avviato la «liberalizzazione dell’economia» giungerà nuova agli italiani, ma abbuoniamola. Un errore più clamoroso è supporre che gli europei «filoamericani» si possano facilmente distinguere dai loro vicini «antiamericani». In un recente sondaggio condotto dal Pew Research Center, è stato chiesto agli europei se ritenessero che «il mondo sarebbe più pericoloso se un altro paese tenesse testa all’America in campo militare». I «vecchi europei» francesi e tedeschi – come i britannici – tendevano ad assentire. I «nuovi europei» cechi e polacchi erano meno preoccupati da questa prospettiva. Lo stesso sondaggio chiedeva agli intervistati se ritenevano che «quando emergono differenze con l’America, ciò sia dovuto ai valori diversi [del rispettivo paese]» (un indicatore chiave di antiamericanismo culturale): soltanto il 33 per cento degli intervistati francesi e il 37 per cento di quelli tedeschi hanno risposto «sì». Invece la cifra in Gran Bretagna era il 41 per cento, in Italia il 44 per cento e nella Repubblica ceca il 62 per cento (vicinissimo al 66 per cento degli indonesiani che la pensano allo stesso modo)4.
In Gran Bretagna il «Daily Mirror», un tabloid destinato al mercato di massa che finora ha sostenuto il New Labour Party di Tony Blair, il 6 gennaio esibiva una copertina a tutta pagina che ironizzava sulla posizione del primo ministro: se non lo avesse notato, lo informavano, l’interesse di Bush a fare guerra all’Iraq riguarda il petrolio di cui ha bisogno l’America. La metà degli elettori britannici è contraria alla guerra contro Saddam Hussein in ogni caso. Nella Repubblica ceca soltanto il 13 per cento della popolazione approverebbe un attacco americano all’Iraq senza un mandato delle Nazioni Unite; la cifra è identica in Spagna. In Polonia, paese tradizionalmente filoamericano, c’è ancora meno entusiasmo: soltanto il 4 per cento dei polacchi sosterrebbe una guerra unilaterale. In Spagna, gli elettori del Partito popolare di José María Aznar rifiutano in massa il sostegno alla guerra; i suoi alleati in Catalogna si sono uniti ai partiti dell’opposizione nel condannare «un attacco unilaterale ingiustificato» degli Stati Uniti contro l’Iraq; e quasi tutti gli spagnoli sono fermamente contrari alla guerra contro l’Iraq anche in presenza di una seconda risoluzione dell’Onu. Per quanto riguarda la politica americana nei confronti di Israele, l’opinione dei «nuovi europei» spagnoli è decisamente meno favorevole rispetto a quella diffusa nella «vecchia» Europa di Germania e Francia5.
Se l’America deve dipendere dagli amici che ha nella «nuova» Europa, dunque, farebbe meglio a ridimensionare le sue aspettative. Tra i firmatari filoamericani che Rumsfeld ha scelto di elogiare, la Danimarca spende soltanto l’1,6 per cento del Pnl per la difesa, l’Italia l’1,5 per cento, la Spagna appena l’1,4 per cento: meno della metà di quanto stanziato per la difesa dalla Francia, dalla «vecchia Europa». Silvio Berlusconi, il primo ministro italiano assillato dai problemi, ha più di un motivo per farsi fotografare accanto a un sorridente George Bush; ma uno dei due deve assicurare che l’Italia possa restare aggrappata allo scudo protettivo americano ed evitare di pagare per la propria difesa.
Quanto agli europei orientali: sì, amano l’America e, potendo, eseguiranno i suoi ordini. Gli Stati Uniti saranno sempre in grado di intimidire un paese vulnerabile come la Romania e indurlo a sostenere l’America contro la corte penale internazionale. Ma per citare le parole di un ministro degli Esteri centro-europeo contrario all’intervento degli Stati Uniti all’epoca dell’azione in Kosovo nel 1999: «Non abbiamo aderito alla Nato per combattere guerre». In un recente sondaggio, il 69 per cento dei polacchi (e il 63 per cento degli italiani) è contrario a qualsiasi aumento della spesa per la difesa destinato a migliorare la posizione dell’Europa quale potenza mondiale. Se il «New York Times» ha ragione e George Bush ora considera la Polonia, la Gran Bretagna e l’Italia i suoi principali alleati europei, allora – a parte Tony Blair – l’America si regge sulle grucce6.
E che dire della Germania? I commentatori americani si sono indignati per la propensione dei tedeschi a «pacificare» Saddam, infuriati per la mancanza di bellicosità da parte di Gerhard Schröder e per la sua «ingratitudine» verso l’America, tanto che pochi si sono soffermati a chiedersi perché così tanti tedeschi condividano il parere di Günter Grass secondo cui «il presidente degli Stati Uniti personifica il pericolo che tutti noi dobbiamo fronteggiare». Oggi la Germania è diversa. Ha davvero una cultura prettamente pacifista (al contrario, per esempio, della Francia). Se guerra deve essere, che sia ohne mich (senza di me): così la pensano molti tedeschi. Questa trasformazione è una delle conquiste storiche degli uomini della «vecchia» Europa. Quando i portavoce americani esprimono frustrazione in proposito, potrebbero fermarsi un attimo e riflettere su ciò che stanno chiedendo: anche in un momento in cui Saddam Hussein è paragonato con disinvoltura ad Adolf Hitler e il segretario della Difesa statunitense può definire la Germania uno «Stato paria» assieme a Cuba e alla Libia, forse si aspettano un po’ troppo. Ma è davvero un bene avere tanta fretta di pretendere entusiasmo guerresco da parte della Germania?
Il secondo mito eurofobico ora ampiamente diffuso negli Stati Uniti è più pernicioso. È l’idea che l’Europa sia imbevuta di antisemitismo, che i fantasmi del passato giudeofobico siano risorti e che questo pregiudizio atavico, il peccato originale dell’Europa, spieghi l’atteggiamento diffuso di biasimo nei confronti di Israele, simpatia per il mondo arabo e addirittura di sostegno all’Iraq. La principale fonte di queste affermazioni è un’ondata di attacchi agli ebrei e alle loro proprietà verificatasi nella primavera del 2002, assieme ad alcuni sondaggi d’opinione largamente pubblicizzati che pretendevano di dimostrare il ritorno del pregiudizio antiebraico in tutto il continente europeo. I commenti americani su questi dati hanno evidenziato a loro volta il carattere «anti-israeliano» delle notizie provenienti dal Medio Oriente apparse sui media europei7.
Cominciamo con i fatti: secondo la American Anti-Defamation League (Adl), che ha lavorato più sodo di chiunque altro per propagare l’immagine dell’antisemitismo rampante in Europa, nell’aprile del 2002 si erano registrati ventidue incidenti antisemiti significativi in Francia e altri sette in Belgio; durante tutto il 2002 l’Adl ha catalogato quarantacinque incidenti del genere in Francia, che andavano dai graffiti antisemiti su esercizi commerciali appartenenti ad ebrei a Marsiglia alle bombe Molotov lanciate dentro sinagoghe a Parigi, Lione e altrove. Ma la stessa Adl segnalava sessanta incidenti antisemiti nei campus delle università statunitensi nel solo 1999. In base a qualsiasi parametro, dai graffiti alle aggressioni violente, negli ultimi anni l’antisemitismo è effettivamente in aumento in alcuni paesi europei, ma lo è anche in America. L’Adl ha registrato 1606 incidenti antisemiti negli Stati Uniti nel 2000, rispetto a 900 nel 1986. Anche se le aggressioni antisemite in Francia, Belgio e altrove in Europa fossero state terribilmente sottostimate, non esistono prove a sostegno del fatto che l’antisemitismo sia più diffuso in Europa che negli Stati Uniti8.
Ma che dire degli atteggiamenti? I dati raccolti nei sondaggi dell’Eurobarometro dell’Unione europea, della principale azienda francese specializzata in servizi demoscopici (SOFRES) e della stessa Adl puntano tutti nella medesima direzione. In molti paesi europei, come negli Stati Uniti, il blando antisemitismo verbale è più tollerato che in passato e permane una propensione a credere ai vecchi stereotipi riguardanti gli ebrei: per esempio, che esercitano un’influenza eccessiva sulla vita economica. Ma gli stessi sondaggi confermano che i giovani in tutta Europa sono molto meno tolleranti verso i pregiudizi rispetto ai loro genitori. Tra i giovani francesi, in particolare, i sentimenti antisemiti sono progressivamente diminuiti e adesso sono trascurabili. La stragrande maggioranza dei giovani intervistati in Francia nel gennaio del 2002 ritiene che si dovrebbe parlare di più, non di meno, dell’Olocausto e quasi nove su dieci affermano che gli attacchi alle sinagoghe sono «scandalosi». Questi dati nel complesso sono paragonabili ai risultati di sondaggi analoghi condotti negli Stati Uniti9.
Quasi tutti i recenti attacchi contro gli ebrei in Europa occidentale sono opera di giovani arabi o altri musulmani, come i commentatori locali riconoscono10. Le aggressioni agli ebrei in Europa sono frutto della rabbia contro il governo di Israele, del quale gli ebrei europei costituiscono un comodo surrogato locale. L’arsenale retorico dell’antisemitismo europeo tradizionale – i «Protocolli dei savi di Sion», il presunto potere economico degli ebrei e le reti cospiratorie, persino la calunnia del sangue – è stato strumentalizzato dalla stampa e dalla televisione al Cairo e altrove, con pessimi effetti sull’intera diaspora giovanile araba.
Secondo l’Adl, tutto questo «conferma l’affermarsi di una nuova forma di antisemitismo in Europa. Questo nuovo antisemitismo è alimentato dal sentimento anti-israeliano e mette in dubbio la lealtà dei cittadini ebraici». È assurdo. Le bande di giovani arabi disoccupati nei sobborghi di Parigi come Garges-les-Gonesses di sicuro identificano gli ebrei francesi con Israele, ma non si preoccupano certo delle loro mancanze patriottiche. Riguardo alla lealtà ebraica, un’importante domanda formulata nei sondaggi dell’Adl – «Ritenete che gli ebrei tendano a essere più leali verso Israele che verso [il vostro paese]» – suscita un livello di risposte positive sistematicamente più alto negli Stati Uniti che in Europa. Sono gli americani, non gli europei, ad avere maggiore facilità a supporre che un ebreo sia leale innanzitutto a Israele.
Sulla base di questi dati, l’Adl e gran parte dei commentatori americani concludono che non esiste più alcuna differenza tra essere «contro» Israele e «contro» gli ebrei. Ma questo è manifestamente falso. Il più alto livello di simpatia per i palestinesi in Europa oggi si registra in Danimarca, un paese che figura tra quelli meno antisemiti anche in base ai criteri della stessa Adl. I Paesi Bassi sono un altro paese in cui il livello già alto di simpatia per i palestinesi è in crescita; eppure gli olandesi presentano il più basso «quoziente» antisemita in Europa e quasi la metà di essi è «preoccupata» per un possibile aumento dell’antisemitismo. Inoltre, è la sedicente «sinistra» ad accordare il sostegno più intransigente ai palestinesi in Europa, mentre la «destra» ha pregiudizi sia contro gli arabi sia contro gli ebrei (ma è spesso filoisraeliana). In effetti, questa è una delle poche sfere della vita pubblica in cui tali etichette abbiano ancora un peso11.
Nel complesso, gli europei sono inclini ad attribuire a Israele, piuttosto che ai palestinesi, la responsabilità dell’attuale pantano in Medio Oriente, ma solo con un rapporto di 27 a 20. Gli americani, per contro, biasimano i palestinesi più che Israele nella proporzione di 42 a 17. Questo induce a ritenere che le reazioni degli europei siano molto più equilibrate, fatto che peraltro non stupisce: la stampa, la radio e la televisione in Europa assicurano una copertura più completa e imparziale degli avvenimenti in Medio Oriente rispetto a quella di cui fruisce la maggior parte degli americani. Di conseguenza, gli europei sanno distinguere meglio degli americani le critiche nei riguardi di Israele dall’antipatia per gli ebrei.
Un motivo può essere il fatto che in Europa alcuni antisemiti dichiarati di vecchia data simpatizzano apertamente per Israele. Jean-Marie Le Pen, in un’intervista pubblicata nell’aprile del 2002 sul quotidiano israeliano «Ha’aretz», ha espresso «comprensione» per le politiche di Ariel Sharon («Una guerra al terrorismo è una cosa brutale») – paragonabili, a suo parere, alle altrettanto giustificate misure antiterrorismo adottate dalla Francia in Algeria quarant’anni prima12. Il solco che separa gli europei dagli americani sulla questione di Israele e dei palestinesi è il più grande impedimento attuale all’intesa fra le due sponde dell’Atlantico. Il 72 per cento degli europei è favorevole a uno Stato palestinese rispetto ad appena il 40 per cento degli americani. Su una scala di «calore» da 1 a 100, i sentimenti americani nei riguardi di Israele raggiungono quota 55, mentre la media europea arriva solo a 38 – e un po’ meno tra i «nuovi europei»; è significativo che i britannici e i francesi assegnino a Israele lo stesso punteggio. Sono i polacchi a mostrare i sentimenti di gran lunga più freddi nei confronti di Israele (Donald Rumsfeld per cortesia ne prenda nota)13.
II
Nel corso delle ultime settimane queste due favole americane sull’Europa si sono amalgamate con un pregiudizio più antico che subisce ora una nuova e sinistra distorsione: la profonda diffidenza della Francia e dei francesi. Il temporeggiamento della Francia alle Nazioni Unite ha provocato un’inedita esplosione di velenosità retorica negli Stati Uniti. È una novità. Quando de Gaulle uscì dal comando militare integrato della Nato nel 1966, Washington – assieme agli altri alleati della Francia – si irritò e lo disse. Ma a nessun uomo di Stato, diplomatico, politico, direttore di giornale o conduttore televisivo americano sarebbe venuto in mente che la Francia avesse in qualche modo «tradito» l’America, o che de Gaulle fosse un «codardo» e i francesi non fossero riconoscenti per i sacrifici compiuti per loro dagli americani e dovessero quindi essere puniti. Eisenhower, Kennedy, Johnson e Nixon rispettavano tutti de Gaulle, malgrado i suoi difetti, e lui ricambiava la cortesia14.
Oggi editorialisti stimati chiedono a gran voce l’espulsione della Francia dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite perché osteggia la volontà degli Stati Uniti e ricordano ai lettori che, se fosse dipeso dalla Francia, «quasi tutti gli europei oggi parlerebbero tedesco o russo». I loro colleghi su pubblicazioni meno sobrie «vogliono prendere a calci l’intera Francia» per avere dimenticato il D-Day. Dove sono i francesi quando i «ragazzi americani» vanno a salvarli, chiedono, prima da Hitler, ora da Saddam Hussein («un tiranno altrettanto vile»)? «Si nascondono. Si tirano indietro. Proclamano Vive les wimps!». Fanno parte di un «coro di codardi europei». Come recita un nuovo adesivo per paraurti: «Prima l’Iraq, poi la Francia»15.
La denigrazione dei francesi in America – apertamente incoraggiata dal Congresso degli Stati Uniti, protagonista di uno scambio pubblico di barzellette antifrancesi di cattivo gusto con Colin Powell in occasione di una sua visita recente – umilia noi, non i francesi. Non prendo le difese dell’Eliseo, che ha una lunga storia di ciniche relazioni con dittatori, da Jean-Bedel Bokassa a Robert Mugabe, passando per Saddam Hussein. E gli anni di Vichy macchieranno la Francia per l’eternità. Ma gli opinionisti da salotto americani, imbevuti di film di guerra autocelebrativi da John Wayne a Mel Gibson, parlano con un po’ troppa disinvoltura di «arrendevoli scimmie» francesi.
Nella prima guerra mondiale, che i francesi combatterono dall’inizio alla fine, la Francia perse un numero di uomini tre volte quello dei soldati caduti in tutte le guerre che l’America abbia combattuto considerate insieme. Nella seconda guerra mondiale le armate francesi che respinsero i tedeschi nel maggio-giugno 1940 contarono 124.000 morti e 200.000 feriti in sei settimane, più di quelli riportati complessivamente dall’America in Corea e in Vietnam. Finché Hitler non costrinse gli Stati Uniti a entrare in guerra nel dicembre 1941, Washington mantenne regolari relazioni diplomatiche con il regime nazista. Nel mentre le Einsatzgruppen da sei mesi erano impegnate a massacrare ebrei sul fronte orientale e la Resistenza agiva in clandestinità nella Francia occupata.
Per fortuna non sapremo mai come l’americano medio avrebbe reagito se una potenza occupante gli avesse ordinato di perseguitare le minoranze razziali presenti nella sua comunità. Ma anche in assenza di simili circostanze attenuanti, i precedenti non sono confortanti: basta ricordare il pogrom di Tulsa nel maggio del 1921, quando almeno trecentocinquanta neri furono uccisi dai bianchi. Forse gli americani dovrebbero riflettere anche prima di pronunciare giudizi affrettati sull’«antico» antisemitismo francese16: alla fine del diciannovesimo secolo, l’elitaria École Normale Supérieure in Francia accoglieva (mediante concorso pubblico) giovani ebrei brillanti – Léon Blum, Émile Durkheim, Henri Bergson, Daniel Halévy e decine di altri – ai quali non sarebbe stato nemmeno permesso di avvicinarsi ad alcune università dell’Ivy League in America, né allora né nei decenni successivi.
È davvero triste dover ribadire queste cose. Forse non hanno alcun peso. Perché dovrebbe avere importanza il fatto che gli americani oggi pensino male della Francia e dell’Europa, al punto che i leader dell’America deridono con grande ignoranza la «vecchia» Europa e gli opinionisti demagogici esortano i lettori a mettere fuori dalla porta l’ingrata spazzatura europea? In fondo, anche l’antiamericanismo francese è una storia vecchia e stupida, ma non ha mai seriamente ostacolato le relazioni transatlantiche né una strategia ambiziosa17. Gli americani non stanno soltanto contraccambiando il favore, seppure in modo insolitamente clamoroso?
Non credo. Gli americani che crearono il sistema di riferimento del solo mondo che la maggior parte di noi abbia mai conosciuto – George Marshall, Dean Acheson, George Kennan, Charles Bohlen e i presidenti sotto i quali prestavano servizio – sapevano ciò che volevano ottenere e perché le relazioni fra europei e americani fossero fondamentali a tal fine. I loro successori oggi hanno le proprie idee, e sono molto diverse. A loro parere gli europei, e le varie alleanze e unioni alle quali sono vincolati, costituiscono un ostacolo irritante al perseguimento degli interessi americani. Gli Stati Uniti non hanno niente da perdere a offendere o alienarsi questi alleati di comodo, dei quali possono fare tranquillamente a meno, mentre hanno molto da guadagnare strappando l’intricata ragnatela di controlli che i francesi e i loro pari tesserebbero attorno alla nostra libertà di manovra.
Questa posizione è espressa in modo inequivocabile in un nuovo libretto di Lawrence Kaplan e William Kristol, The War over Iraq: Saddam’s Tyranny and America’s Mission. Entrambi gli autori sono giornalisti di Washington. Ma Kristol, che un tempo si gloriava di essere capo dello staff del vicepresidente Dan Quayle e ora è un analista politico della Fox TV, è anche il direttore del «Weekly Standard» e una delle «menti» responsabili della svolta neoconservatrice nella politica estera degli Stati Uniti. Le sue idee sono condivise da Richard Perle, Paul Wolfowitz e altri membri della potente élite dell’amministrazione Bush ed egli articola in una forma solo vagamente moderata i pregiudizi e l’impazienza della stessa leadership della Casa bianca.
La guerra all’Iraq è di una schiettezza tonificante. Saddam è un uomo cattivo, dovrebbe essere deposto e soltanto gli Stati Uniti possono occuparsene. Ma questo non è che l’inizio. Si dovranno svolgere molti altri compiti del genere, di fatto un’infinità, negli anni a venire. Per portarli a termine in modo soddisfacente – «per garantire la propria sicurezza e fare avanzare la causa della libertà» – gli Stati Uniti devono sganciarsi dalla «comunità internazionale» (sempre tra virgolette). La gente ci odierà in ogni caso per la nostra «arroganza» e la nostra potenza, e una politica estera americana più «moderata» non la pacificherà, perciò perché perdere tempo a parlarne? La strategia estera degli Stati Uniti deve essere «idealista, decisa e ben finanziata. L’America non deve solo essere il poliziotto del pianeta o il suo sceriffo, ma deve anche esserne il faro e la guida».
Cosa c’è che non va in questa proposizione? In primo luogo, rivela un’ignoranza abissale del mondo reale, come avviene di frequente negli scenari ultra«realisti». Poiché equipara con disinvoltura gli interessi americani a quelli di ogni persona assennata sul pianeta, è destinata a scatenare proprio quell’antagonismo e quell’inimicizia che provocano anzitutto l’intervento americano (in Europa soltanto un cinico incallito suggerirebbe che questo calcolo sia tacitamente incorporato nell’equazione). Gli autori, come i politici per i quali lavorano, suppongono senza esitazioni sia che l’America possa fare ciò che vuole senza ascoltare gli altri, sia che così facendo risponderà infallibilmente ai veri interessi e ai desideri inespressi tanto degli amici quanto dei nemici. La prima supposizione è sostanzialmente vera. La seconda è sintomo di goffo provincialismo18.
In secondo luogo, il metodo Kristol/Wolfowitz/Rumsfeld è morbosamente autolesionistico. L’isolazionismo vecchia maniera, almeno, è coerente: se stiamo fuori dalle faccende del mondo non dovremo dipendere da nessuno. Altrettanto lo è l’autentico internazionalismo wilsoniano: intendiamo operare nel mondo, perciò sarà meglio operare con il mondo. Un’analoga coerenza caratterizza la tradizionale realpolitik stile Kissinger: abbiamo determinati interessi e vogliamo alcune cose, gli altri paesi sono esattamente come noi e anche loro vogliono alcune cose, perciò mettiamoci d’accordo. Il nuovo «internazionalismo unilaterale» dell’attuale amministrazione mira invece a trovare la quadratura del cerchio: nel mondo facciamo quello che vogliamo, ma alle nostre condizioni, indifferenti ai desideri altrui quando non combaciano con i nostri obiettivi.
Eppure, quanto più gli Stati Uniti portano avanti la loro «missione» nel mondo, tanto più avranno bisogno di aiuto: per mantenere la pace, costruire le nazioni e facilitare la cooperazione all’interno della nostra comunità sempre più vasta di amici ritrovati. Sono progetti riguardo ai quali l’America moderna non è particolarmente esperta e per i quali dipende fortemente dagli alleati. Già ora in Afghanistan e nei Balcani lo Stato «paria» tedesco mette da solo diecimila soldati a disposizione delle forze di pace per garantire la sicurezza del territorio conquistato dalle armi americane. Gli elettori statunitensi sono notoriamente allergici agli aumenti delle tasse. È poco credibile che raccolgano i fondi necessari per presidiare e ricostruire buona parte dell’Asia occidentale, per non parlare delle altre zone di instabilità in cui potrebbe portarci la «missione» di Kristol. Dunque chi pagherà? Il Giappone? L’Unione europea? Le Nazioni Unite? Speriamo che i loro leader non esaminino troppo da vicino le osservazioni beffarde e poco lusinghiere di Kaplan e Kristol nei loro riguardi.
Ciò che gli autori hanno da dire riguardo ai fallimenti del passato è in parte vero. Le Nazioni Unite, come l’Europa occidentale, hanno tentennato in maniera vergognosa sulla Bosnia e sul Kosovo. L’amministrazione Clinton, come quella di Bush senior che l’ha preceduta, ha voltato le spalle alle crisi umanitarie nei Balcani e in Africa centrale. Se gli Stati Uniti governati da Bush junior sono ora decisi a combattere tiranni spietati e militanti psicopatici armati, tanto meglio per tutti. Ma di sicuro non era così prima dell’11 settembre. Allora i conservatori americani si stavano sganciando dalla sfera internazionale a velocità vertiginosa – chi ricorda ancora il rifiuto sdegnoso della «costruzione delle nazioni» da parte di Condoleezza Rice? Perché gli amici dell’America dovrebbero riporre fiducia in questo impegno appena ritrovato ed esporsi a violente ritorsioni in suo nome?
Nessuna persona ragionevole potrebbe opporsi all’idea di dare la caccia a Osama bin Laden. Ed esistono argomenti anche a favore dell’azione militare contro un Iraq che rifiuta il disarmo. Ma estenderli a un mandato in forza del quale l’America possa compiere interventi senza restrizioni e a tempo indeterminato per trasformare le condizioni di mezza umanità, a proprio piacimento e a dispetto del dissenso internazionale, o addirittura pregustare, come fanno Kristol e Kaplan e altri, la prospettiva di tale opposizione internazionale, ecco questo assomiglia un po’ troppo a una pratica in cerca della sua teoria. È anche viziato da una dose fastidiosamente indigesta di malafede.
«Israele» è una delle voci più ricche dell’indice analitico di questo libricino. «Palestina» invece non figura affatto, sebbene ci sia un riferimento isolato all’Olp, citata come gruppo terroristico sostenuto dagli iracheni. Kristol e Kaplan fanno di tutto per sottolineare l’importanza di Israele quale partner strategico dell’America nel nuovo Medio Oriente che immaginano e una giustificazione che propongono per una guerra in piena regola contro l’Iraq è che migliorerebbe le relazioni di Baghdad con Israele. Ma non c’è un punto in cui esprimano preoccupazione per il garbuglio israelo-palestinese in sé: una crisi umanitaria in rapido peggioramento, la più grande causa di instabilità e terrorismo nella regione e un infestante oggetto di disaccordo e di sfiducia tra le due sponde dell’Atlantico. L’omissione è macroscopica ed eloquente.
A meno che Kristol e i suoi mentori politici siano in grado di spiegare perché una nuova, ambiziosa missione internazionale americana destinata a mettere in riga il globo taccia su Israele e perché l’«egemone» americano appena legittimato curiosamente non sappia e non voglia esercitare pressioni su un piccolo Stato satellite nella regione più instabile del mondo, pochi al di fuori della loro stretta cerchia prenderanno sul serio le loro «dichiarazioni d’intenti». Perché l’amministrazione statunitense e i suoi battistrada dovrebbero occuparsene? Per un motivo che gli uomini che costruirono il sistema internazionale del dopoguerra avrebbero compreso immediatamente. Se l’America non viene presa sul serio, se il resto del mondo le obbedisce anziché crederle, se compra gli amici e minaccia gli alleati, se i suoi motivi sono dubbi, se applica due pesi e due misure, tutta la soverchiante potenza militare esaltata con vanagloria da Kristol e Kaplan non le servirà a niente. Gli Stati Uniti possono andare là fuori e vincere non solo la madre di tutte le battaglie, ma un’intera dinastia matrilineare di tempeste nel deserto: erediteranno vento – e anche di peggio.
Perciò, per piacere, smettiamo di dar sfogo alle nostre ansie e insicurezze lanciando frecciate ingiuriose e ostentatamente virili all’Europa. Quali che siano i suoi motivi, il presidente francese Jacques Chirac esprime opinioni condivise dalla stragrande maggioranza degli europei e da una minoranza non trascurabile di americani, per non parlare di buona parte del resto del mondo. Affermare che Chirac, e tutti loro, sono o «con noi o con i terroristi» – che il disaccordo è tradimento, il dissenso è voltafaccia – è, a dir poco, caparbiamente sconsiderato. Se abbiamo bisogno degli europei più di quanto loro abbiano bisogno di noi è una questione interessante che esaminerò in un prossimo saggio, ma gli Stati Uniti hanno tutto da perdere se gli europei cominciano a litigare fra loro per i favori americani; i nostri leader dovrebbero vergognarsi di incoraggiare gongolanti questi sviluppi19. Come hanno scritto Aznar, Blair e i loro collaboratori nella controversa lettera aperta del 30 gennaio 2003: «Oggi più che mai il vincolo transatlantico è garanzia della nostra libertà». Questo è vero oggi quanto lo era nel 1947, e vale per entrambe le parti.
* Questo saggio – una recensione di The War Over Iraq: Saddam’s Tyranny and America’s Mission di Lawrence F. Kaplan e William Kristol, Encounter, San Francisco 2003 [trad. it. di Mario Rimini, La guerra all’Iraq. La fine della tirannia di Saddam e la missione dell’America, Liberal, Roma 2003] – è stato pubblicato per la prima volta nel marzo 2003 sulla «New York Review of Books».
1 Si veda il classico di Dean Acheson, Present at the Creation: My Years in the State Department, Norton, New York 1969.
2 Nel corso degli anni Novanta i britannici bloccarono con fermezza gli sforzi delle Nazioni Unite intesi a realizzare un intervento militare contro Milošević, mentre i generali francesi presenti sul campo si limitarono a ignorare gli ordini, con il segreto appoggio del loro governo.
3 Anne Applebaum, Here Comes the New Europe, «The Washington Post», 29 gennaio 2003. Si veda anche Amity Shlaes, Rumsfeld Is Right About Fearful Europe, «Financial Times», 28 gennaio 2003, in cui l’autrice critica aspramente i tedeschi per la loro mancanza di «visione»: gli americani intendono ripetere a Baghdad ciò che fecero per gli ingrati tedeschi a Berlino nel 1990.
4 Si veda «The Economist», 4 gennaio 2003.
5 Sull’atteggiamento dei cechi e dei polacchi riguardo alla guerra in Iraq, si veda «The Economist», 1° febbraio 2003. Sull’opposizione degli spagnoli ad Aznar, si veda «El País», 3 febbraio 2003. I commentatori spagnoli sono particolarmente sensibili alla necessità di un’Europa unita e Aznar ha suscitato profondo risentimento firmando la dichiarazione pubblicata sul «Wall Street Journal», che molti in Spagna definiscono un atto irresponsabile. Molti fra i suoi stessi sostenitori considerano offensivo che Aznar si limiti a ripetere, come fa da un po’ di tempo a questa parte, che «tra Bush e Saddam Hussein starò sempre dalla parte di Bush». Ma Aznar è mosso dall’ambizione: cerca di ottenere una futura nomina a una carica internazionale di alto livello e ha dunque bisogno del sostegno americano e britannico.
6 Si veda lo studio degli atteggiamenti transatlantici basato su un sondaggio condotto dal Council on Foreign Relations di Chicago e dal Marshall Fund of the United States tedesco all’indirizzo www.worldviews.org. Sulla spesa per la difesa degli Stati membri della Nato si veda «La Repubblica», 11 febbraio 2003. Si veda anche «The New York Times», 24 gennaio 2003. Le opinioni contro la guerra di un diplomatico dell’Europa centrale sono state espresse in una comunicazione privata. Come molti altri politici dell’ex Europa comunista, era restio a criticare la politica americana in pubblico: in parte per sincera simpatia e gratitudine nei confronti dell’America, in parte a causa del timore delle conseguenze per il suo paese.
7 Si veda Christopher Caldwell, Liberté, Egalité, Judéophobie, «The Weekly Standard», 6 maggio 2002. Alcuni commentatori americani prendono spunto da un diluvio di libri pubblicati di recente a Parigi per dimostrare che i cinquecentomila ebrei di Francia sarebbero di fronte a un secondo Olocausto per mano di antisemiti «antirazzisti». Fra questi libercoli, il più spassoso è La Nouvelle Judéophobie di Pierre-André Taguieff (Fayard, Paris 2002), nel quale l’autore (che ha scritto sedici altri libri sullo stesso argomento negli ultimi tredici anni) parla di «giudeofobia planetaria». L’allarmismo tristanzuolo di Taguieff è stato oggetto di una recensione ammirata di Martin Peretz sulla «New Republic» del 3 febbraio 2003. In chiave analoga, si veda anche Gilles William Goldnadel, Le Nouveau Bréviaire de la haine: Antisémitisme et antisionisme, Ramsay, Paris 2001, e Raphaël Draï, Sous le signe de Sion: L’antisémitisme nouveau est arrivé, Michalon, Paris 2001. Il primo capitolo di Draï è intitolato Israel en danger de paix? D’Oslo à Camp David II.
8 Si veda Global Anti-Semitism all’indirizzo www.adl.org/anti_semitism/anti-semitismglobalincidents.asp e ADL Audit: Anti-Semitic Incidents Rise Slightly in US in 2000 all’indirizzo www.adl.org/presrele/asus_12/3776_12.asp.
9 Si veda L’image des juifs en France all’indirizzo www.sofres.com/etudes/pol/130600_imagejuifs.htm; Les jeunes et l’image des juifs en France all’indirizzo www.sofres.com /etudes/pol/120302_juifs_r.htm; Anti-Semitism and Prejudice in America: Highlights from an ADL Survey, November 1998 all’indirizzo www.adl.org/antisemitism_survey/survey_main.asp.
10 «C’est un fait, ces actes [antisémites] sont commis, pour l’essentiel, par des musulmans» [Di fatto questi atti (antisemiti) sono commessi essenzialmente da musulmani], in Denis Jeambar, Silence coupable, «L’Express», 6 dicembre 2001.
11 Per un grafico illuminante sui pregiudizi e sulle lealtà dell’estrema sinistra e dell’estrema destra nella Germania contemporanea, si veda Politik, «Die Zeit», 9 gennaio 2003, p. 5.
12 Adar Primor, Le Pen Ultimate, «haaretz.com», 18 aprile 2002.
13 Si veda Craig Kennedy e Marshall M. Bouton, The Real Transatlantic Gap, «Foreign Policy», novembre-dicembre 2002, basato sul recente sondaggio del Council on Foreign Relations di Chicago e del German Marshall Fund. Per informazioni complete si veda Differences over the Arab-Israeli Conflict all’indirizzo www.worldviews.org/detailreports/compreport/html/ch3s3.html.
14 All’epoca della crisi dei missili a Cuba, de Gaulle comunicò in modo inequivocabile a John Fitzgerald Kennedy che, qualsiasi provvedimento avessero deciso di adottare, gli Stati Uniti avrebbero potuto contare sulla fiducia e sul fermo sostegno della Francia.
15 Si veda Thomas L. Friedman, Vote France off the Island, «The New York Times», 9 febbraio 2003; Steve Dunleavy, How Dare the French Forget, «New York Post», 10 febbraio 2003. Ciò che i francesi potrebbero avere veramente dimenticato è come gli Stati Uniti finanziarono la «guerra sporca» della Francia in Vietnam, dal 1947 al 1954. Ma poiché questo è un fatto sul quale anche i commentatori americani preferiscono glissare, esso tende a non figurare nell’elenco dei capi d’accusa «addebitati alla Francia».
16 Respingendo quella che definì «l’accusa del... [presidente Jacques] Chirac», ossia che l’American Jewish Congress operasse in collaborazione con la leadership politica di Gerusalemme, Jack Rosen, il presidente dell’associazione, nel luglio del 2002 rilevò che l’atteggiamento francese «richiama alla mente gli antichi stereotipi antisemiti sulle cospirazioni ebraiche a livello mondiale». Si veda www.ajcongress.org/pages/RELS2002/JUL_2002 /jul02_04.htm.
17 In un articolo di prossima pubblicazione esaminerò alcuni libri sull’antiamericanismo francese ed europeo usciti di recente.
18 E corrisponde a un assunto diffuso negli Stati Uniti, secondo cui chiunque nel mondo in realtà non desidera altro che essere americano e immigrare in America. Questa idea è inesatta soprattutto nel caso degli europei, che conoscono molto bene le differenze tra la società e le istituzioni presenti sulle due sponde dell’Atlantico. La maggior parte delle persone nel mondo non occidentale in effetti vorrebbe godere nel proprio paese dell’indipendenza e della prosperità di cui gli americani godono negli Stati Uniti, ma questa è un’altra storia, e ha implicazioni ben diverse per la politica estera americana.
19 È perfettamente calzante che, quando gli è stato chiesto cosa pensasse degli ultimi sforzi distruttivi fatti in questa direzione da Donald Rumsfeld alla recente conferenza dei ministri della Difesa a Monaco, William Kristol abbia espresso infinita ammirazione per i risultati ottenuti dal segretario della Difesa statunitense. Fox Television News, 12 febbraio 2003.