Capitolo 20
Che cosa abbiamo imparato
(se abbiamo imparato qualcosa)?*

Il ventesimo secolo si è appena concluso, ma i suoi contrasti e le sue conquiste, i suoi ideali e le sue paure stanno già scivolando nelle tenebre dell’oblio. In Occidente ci siamo affrettati a liberarci, ove possibile, del bagaglio economico, intellettuale e istituzionale del Novecento e abbiamo incoraggiato gli altri a fare altrettanto. Nella scia del 1989, con immensa sicurezza e scarsa riflessione ci siamo lasciati alle spalle il ventesimo secolo per lanciarci baldanzosi in quello successivo, ammantati di mezze verità opportunistiche: il trionfo dell’Occidente, la fine della Storia, il momento unipolare americano, l’avanzata ineluttabile della globalizzazione e il libero mercato.

Il convincimento che «quello» avveniva allora e «questo» succede adesso non riguardava soltanto le istituzioni e i dogmi defunti del comunismo dell’era della guerra fredda. Negli anni Novanta, e poi di nuovo dopo l’11 settembre 2001, più di una volta rimasi colpito dall’irragionevole ostinazione contemporanea a non capire il contesto dei nostri attuali dilemmi, dentro e fuori i confini americani; a non prestare maggiore attenzione ad alcune delle menti più illuminate dei decenni precedenti; a cercare alacremente di dimenticare invece che ricordare, di negare la continuità con il passato ed esaltare la novità in ogni possibile occasione. Ci siamo cocciutamente persuasi che il passato abbia poco di interessante da insegnarci. Il nostro, affermiamo, è un mondo nuovo; i rischi e le opportunità che presenta non hanno precedenti.

Forse non dovremmo stupirci. Il passato recente è il più difficile da conoscere e comprendere. Inoltre, dopo il 1989 il mondo ha davvero subìto una notevole trasformazione e i cambiamenti sono sempre disorientanti per chi ricorda le cose com’erano prima. Nei decenni successivi alla Rivoluzione francese, i commentatori più anziani provavano grande nostalgia per la douceur de vivre del defunto ancien régime. Un secolo dopo, i memoriali e le rievocazioni dell’Europa precedente la prima guerra mondiale ritraevano (e ritraggono tuttora) una civiltà perduta, un mondo le cui illusioni erano state letteralmente infrante: «Never such innocence again»1.

Ma c’è una differenza. I contemporanei potevano anche rimpiangere il mondo così com’era prima della Rivoluzione francese, ma non lo avevano dimenticato. Per gran parte del diciannovesimo secolo gli europei furono ossessionati dalle cause e dal significato dei rivolgimenti che ebbero inizio nel 1789. I dibattiti politici e filosofici dell’Illuminismo non erano stati ridotti in cenere dai fuochi della rivoluzione. Al contrario, la rivoluzione e le sue conseguenze furono ampiamente attribuite proprio all’Illuminismo, che veniva così riconosciuto, tanto dai sostenitori quanto dai detrattori, come l’origine dei dogmi politici e dei programmi sociali del secolo successivo.

In modo analogo, mentre tutti dopo il 1918 concordavano sul fatto che le cose non sarebbero state mai più le stesse, la forma precisa che il mondo postbellico avrebbe dovuto assumere era universalmente concepita e osteggiata nell’ombra lunga dell’esperienza e del pensiero del diciannovesimo secolo. L’economia neoclassica, il liberalismo, il marxismo (e il suo figliastro, il comunismo), la «rivoluzione», la borghesia e il proletariato, l’imperialismo e l’«industrialismo» – i fondamenti del mondo politico del ventesimo secolo – erano tutti usciti dalla fucina del diciannovesimo secolo. Anche chi, come Virginia Woolf, credeva che «nel dicembre del 1910, o giù di lì, il carattere umano è mutato» – che il rivolgimento culturale dell’Europa fin de siècle avesse modificato radicalmente i termini dello scambio intellettuale – dedicava nondimeno una sorprendente quantità di energia a sondare con prudenza l’opinione dei predecessori2. Il passato gravava sul presente.

Oggi, al contrario, il passato non ci pesa sulle spalle. Certo, lo commemoriamo ovunque: santuari, iscrizioni, «siti di interesse nazionale» e addirittura parchi tematici storici sono tutti promemoria pubblici del «Passato». Ma il ventesimo secolo che abbiamo scelto di ricordare è curiosamente sfocato. Quasi tutti i luoghi della memoria ufficiali del ventesimo secolo hanno un carattere apertamente nostalgico-trionfalista – esaltano uomini illustri e celebrano vittorie famose – oppure sono e diventano sempre più opportunità per ricordare sofferenze selettive.

Il ventesimo secolo è quindi sulla buona strada per diventare un palazzo della memoria morale: una Camera degli orrori storici, utile dal punto di vista pedagogico, dove le tappe del percorso sono «Monaco», «Pearl Harbor», «Auschwitz», «Gulag», «Armenia», «Bosnia», «Ruanda»; e l’«11 settembre» è come una specie di coda superflua, un poscritto sanguinoso per chi rischia di dimenticare le lezioni del secolo passato o non le ha imparate. Il problema di questa rappresentazione lapidaria del secolo scorso come un periodo eccezionalmente orribile dal quale, fortunatamente, siamo usciti non è la descrizione: il Novecento è stato sotto molti aspetti un secolo davvero tremendo, un’epoca di brutalità e sofferenze di massa che forse non hanno uguali nella storia documentata. Il problema è il messaggio: che tutto questo ormai è alle nostre spalle, che il suo significato è chiaro e che adesso possiamo inoltrarci – senza il peso degli errori del passato – in un’epoca nuova e migliore.

Ma queste commemorazioni ufficiali non migliorano la nostra comprensione e consapevolezza del passato. Fungono da sostituto, da surrogato. Invece di insegnare la storia ai bambini, li portiamo a visitare musei e monumenti. Peggio ancora, li incoraggiamo a vedere il passato – e i suoi insegnamenti – attraverso il vettore delle sofferenze dei loro antenati. Oggi l’interpretazione «comune» del passato recente è quindi composta da frammenti variegati di passati distinti, ciascuno dei quali (ebraico, polacco, serbo, armeno, tedesco, asiatico-americano, palestinese, irlandese, omosessuale...) è caratterizzato dalla sua propria, peculiare e dogmatica condizione di vittima.

Ne risulta un mosaico che non ci lega a un passato comune, ma ce ne disgiunge. Qualunque fossero le carenze delle narrazioni nazionali che un tempo venivano insegnate a scuola, per quanto selettivo fosse l’approccio e strumentale il messaggio, almeno avevano il vantaggio di dotare una nazione di riferimenti storici ai quali ricollegare l’esperienza nel presente. La storia tradizionale, così com’è stata insegnata a generazioni di alunni e studenti, conferiva al presente un significato riallacciandolo al passato: i nomi, i luoghi, le iscrizioni, le idee e le allusioni di oggi potevano essere inseriti in una narrazione basata sulla memoria di ieri. Ai giorni nostri, tuttavia, il processo si è invertito. Il passato ora assume un significato solo in riferimento alle nostre numerose e spesso contrastanti inquietudini attuali.

Senza dubbio questa sconcertante estraneità del passato è in parte dovuta alla rapidità dei cambiamenti contemporanei. La «globalizzazione» ha davvero trasformato la vita delle persone in maniere che i nostri genitori o nonni stenterebbero a immaginare. Molto di ciò che per decenni, persino per secoli, era sembrato familiare e permanente adesso cade velocemente nell’oblio. Il passato, a quanto pare, è davvero sotto un altro cielo: le cose, là, si facevano in modo diverso.

Lo sviluppo delle comunicazioni offre un esempio calzante. Fino agli ultimi decenni del ventesimo secolo, la maggior parte delle persone nel mondo aveva un accesso limitato all’informazione, ma – grazie al sistema scolastico nazionale, alla radio e alla televisione di Stato e a una cultura della stampa comune – all’interno di ogni Stato, nazione o comunità tutti tendevano a sapere pressoché le stesse cose. Oggi è vero il contrario. Al di fuori dell’Africa sub-sahariana, la maggior parte delle persone ha accesso a una quantità di dati quasi illimitata. Ma in assenza di una cultura comune (se non all’interno di una piccola élite e a volte neanche lì), le idee e le informazioni frammentate che le persone scelgono o in cui si imbattono sono determinate da una molteplicità di gusti, affinità e interessi. Con il passare degli anni, ciascuno di noi ha sempre meno in comune con i mondi in rapida moltiplicazione dei nostri contemporanei, per non parlare del mondo dei nostri antenati.

Tutto questo è senz’altro vero, e ha implicazioni inquietanti per il futuro della governance democratica. Eppure i cambiamenti dirompenti, persino la trasformazione globale, in sé non sono una novità assoluta. La «globalizzazione» economica della fine del diciannovesimo secolo non fu meno turbolenta, anche se all’inizio le sue implicazioni furono percepite e comprese da un minor numero di persone. L’aspetto saliente dell’epoca di trasformazioni attuale è l’eccezionale noncuranza con cui abbiamo abbandonato non solo le pratiche del passato, ma il loro stesso ricordo. Un mondo appena lasciato è già quasi dimenticato.

Che cosa abbiamo dunque smarrito, nella fretta di lasciarci il ventesimo secolo alle spalle? Negli Stati Uniti, almeno, abbiamo dimenticato il significato della guerra. E un motivo c’è. In molte regioni dell’Europa continentale, dell’Asia e dell’Africa, il ventesimo secolo è stato vissuto come una successione di guerre quasi ininterrotta. Nel secolo passato, guerra significava invasione, occupazione, esodo, privazioni, distruzione e massacri. I paesi che perdevano la guerra spesso perdevano popolazione, territori, risorse, sicurezza e indipendenza. Ma anche i paesi che ne uscivano formalmente vittoriosi avevano esperienze analoghe e di solito il loro ricordo della guerra era molto simile a quello degli sconfitti. Pensiamo all’Italia dopo la prima guerra mondiale, alla Cina dopo la seconda e alla Francia dopo entrambi i conflitti: erano tutti paesi «vittoriosi» ed erano tutti devastati. Poi ci sono i paesi che vinsero la guerra, ma «persero la pace», sperperando le opportunità offerte dalla vittoria. Gli alleati occidentali a Versailles e Israele nei decenni successivi alla vittoria del giugno 1967 continuano a essere gli esempi più eclatanti.

Inoltre nel ventesimo secolo guerra significava spesso guerra civile, in molte occasioni fatta passare per lotta contro l’occupazione o di «liberazione». La guerra civile ha svolto un ruolo importante nella «pulizia etnica» generalizzata e ha provocato l’esodo di intere popolazioni, dall’India alla Turchia fino alla Spagna e alla Iugoslavia. Come l’occupazione straniera, la guerra civile è uno dei terribili ricordi «comuni» degli ultimi cento anni. In molti paesi «lasciarsi il passato alle spalle» – cioè accettare di superare o dimenticare (o negare) il ricordo recente di un conflitto intestino e della violenza all’interno della propria comunità – è stato un obiettivo primario dei governi postbellici: a volte è stato raggiunto, altre volte i risultati sono andati ben oltre le aspettative.

La guerra non era soltanto una catastrofe in sé: portava altri orrori nella sua scia. La prima guerra mondiale determinò un’inedita militarizzazione della società, un’esaltazione della violenza e un culto della morte eroica che persistettero ben oltre la durata della guerra stessa e prepararono il terreno per i disastri politici successivi. Gli Stati e le società conquistati durante e dopo la seconda guerra mondiale da Hitler o da Stalin (o da entrambi, in successione) subirono non solo l’occupazione e il saccheggio, ma anche l’umiliazione e l’erosione delle leggi e delle norme della società civile. Le strutture stesse della vita civilizzata – regolamenti, leggi, insegnanti, forze di polizia, magistrati – sparivano o assumevano un significato sinistro: lungi dal garantire la sicurezza, lo Stato stesso diventava la fonte principale di insicurezza. La reciprocità e la fiducia tra vicini, colleghi, dirigenti e all’interno della comunità crollavano. Comportamenti che sarebbero stati aberranti in circostanze normali – furto, disonestà, dissimulazione, indifferenza nei riguardi delle disgrazie altrui e sfruttamento opportunistico della sofferenza – non solo diventavano normali, ma a volte erano l’unica possibilità di salvare la famiglia e se stessi. Il dissenso e l’opposizione erano soffocati da una paura universale.

La guerra, in breve, induceva un comportamento che sarebbe stato impensabile oltre che disfunzionale in tempo di pace. È la guerra, non il razzismo o l’antagonismo etnico o il fervore religioso, che determina le atrocità. La guerra – la guerra totale – è stata la condizione antecedente essenziale per la criminalità di massa nell’era moderna. I primi rudimentali campi di concentramento furono allestiti dai britannici durante la guerra boera del 1899-1902. Senza la prima guerra mondiale non ci sarebbe stato il genocidio degli armeni ed è altamente improbabile che il comunismo o il fascismo avrebbero preso piede negli Stati moderni. Senza la seconda guerra mondiale non ci sarebbe stato l’Olocausto. Se la Cambogia non fosse stata coinvolta di forza nella guerra del Vietnam, non avremmo mai sentito parlare di Pol Pot. E l’abbrutimento dei comuni soldati durante la guerra di certo è stato abbondantemente documentato3.

Quasi tutto questo agli Stati Uniti è stato risparmiato. Gli americani, forse unici al mondo, hanno vissuto il ventesimo secolo sotto una stella di gran lunga migliore. Gli Stati Uniti non hanno subìto un’invasione. Non hanno perso un numero esorbitante di cittadini, o vaste estensioni di territorio, in seguito a un’occupazione o uno smembramento. Benché umiliati nelle guerre neocoloniali combattute in terre lontane (in Vietnam e oggi in Iraq), gli Stati Uniti non hanno mai patito tutte le conseguenze di una sconfitta4. Nonostante l’ambivalenza nei riguardi delle loro recenti imprese, la maggior parte degli americani è tuttora convinta che le guerre combattute dal proprio paese fossero quasi tutte «guerre giuste». Gli Stati Uniti si sono enormemente arricchiti grazie al ruolo svolto nei due conflitti mondiali e al loro esito, e a questo proposito non hanno niente in comune con la Gran Bretagna, l’unico altro grande paese a essere uscito inequivocabilmente vittorioso da entrambe le guerre, ma al prezzo di un tracollo economico quasi totale e della perdita di un impero. E rispetto agli altri principali belligeranti del ventesimo secolo, gli Stati Uniti hanno perso relativamente pochi soldati in battaglia e non hanno quasi subìto vittime tra i civili.

Questo contrasto merita di essere evidenziato ricordando alcuni dati. Nella prima guerra mondiale gli Stati Uniti contarono poco meno di 120.000 caduti in combattimento. Le cifre per il Regno Unito, la Francia e la Germania furono rispettivamente 885.000, 1,4 milioni e più di 2 milioni. Nella seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti persero circa 420.000 effettivi in combattimento, il Giappone ne perse 2,1 milioni, la Cina 3,8 milioni, la Germania 5,5 milioni e l’Unione sovietica, si stima, 10,7 milioni. Il Vietnam Veterans Memorial a Washington D.C. rende onore a 58.195 americani che persero la vita nel corso di una guerra durata quindici anni, ma l’esercito francese perse il doppio dei suoi uomini in sei settimane di battaglia nel maggio-giugno del 1940. Nel combattimento dell’esercito statunitense più costoso del secolo – l’offensiva delle Ardenne del dicembre 1944-gennaio 1945 – furono uccisi 19.300 soldati americani. Nelle prime ventiquattro ore della battaglia della Somme (1° luglio 1916), l’esercito britannico perse più di 20.000 uomini. Nella battaglia di Stalingrado, l’Armata rossa perse 750.000 uomini e la Wehrmacht quasi altrettanti.

Fatta eccezione per la generazione di uomini che parteciparono alla seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti non hanno quindi alcun ricordo moderno di combattimento o perdita anche solo lontanamente paragonabile a quella delle forze armate di altri paesi. Ma sono le vittime civili a imprimere il segno più duraturo sulla memoria nazionale, e qui il contrasto è davvero stridente. Nella sola seconda guerra mondiale i britannici subirono 67.000 vittime civili. Nell’Europa continentale, la Francia perse 270.000 civili. La Iugoslavia contò più di mezzo milione di morti tra la popolazione civile, la Germania 1,8 milioni, la Polonia 5,5 milioni e l’Unione sovietica, si stima, 11,4 milioni. Queste cifre aggregate comprendono circa 5,8 milioni di ebrei. Più lontano, in Cina, la conta delle vittime supera i 16 milioni. Le perdite tra i civili americani (esclusa la marina mercantile) in entrambi i conflitti mondiali ammontano a meno di 2.000 vittime.

Di conseguenza, gli Stati Uniti oggi sono l’unica democrazia avanzata nella quale i personaggi pubblici celebrano ed esaltano le forze armate, un sentimento comune in Europa prima del 1945, ma quasi del tutto sconosciuto oggi. I politici statunitensi si circondano di simboli e orpelli del valore militare; anche nel 2008 i commentatori americani criticano aspramente gli alleati che esitano a partecipare a un conflitto armato. Credo sia questo ricordo discordante della guerra e del suo impatto, più di qualsia­si differenza strutturale tra gli Stati Uniti e altri paesi altrimenti paragonabili, a spiegare le loro reazioni diverse alle sfide internazionali di oggi. Per la verità, l’affermazione compiaciuta dei neoconservatori che la guerra e il conflitto sono cose che gli americani capiscono, al contrario degli ingenui europei con le loro fantasie pacifiste, mi pare vada esattamente ribaltata: sono gli europei (insieme con gli asiatici e gli africani) a capire fin troppo bene la guerra. La maggior parte degli americani ha avuto la fortuna di vivere nella beata ignoranza del suo vero significato.

Questo stesso contrasto forse spiega anche la peculiarità di molto di ciò che si scrive in America sulla guerra fredda e il suo esito. Nelle analisi europee della caduta del comunismo, da entrambe le parti dell’ex cortina di ferro, il sentimento prevalente è il sollievo per la fine di un lungo capitolo infelice. Negli Stati Uniti, invece, la storia è solitamente raccontata in chiave trionfalistica5. E perché no? Per molti commentatori e politici americani il messaggio del ventesimo secolo è che la guerra funziona. A questo si deve il grande entusiasmo per la guerra all’Iraq del 2003 (nonostante la forte opposizione di quasi tutti gli altri pae­si). Per Washington la guerra continua a essere un’opzione, in quell’occasione la prima. Per il resto del mondo avanzato è diventata l’ultima risorsa6.

L’ignoranza della storia del ventesimo secolo non contribuisce soltanto a creare un deplorevole entusiasmo per il conflitto armato. Induce anche a identificare erroneamente il nemico. Abbiamo buone ragioni per occuparci del terrorismo e delle sfide che comporta. Ma prima di intraprendere una guerra centennale per eliminare i terroristi dalla faccia della terra, consideriamo quanto segue. I terroristi non sono una novità. Anche se escludiamo l’assassinio o il tentato assassinio di re e presidenti e ci limitiamo agli uomini e alle donne che uccidono a caso civili inermi per perseguire un obiettivo politico, i terroristi sono fra noi da ben più di un secolo.

Ci sono stati terroristi anarchici, russi, indiani, arabi, baschi, malesi, tamil e decine di altri. Ci sono stati e continuano a esserci terroristi cristiani, ebrei e musulmani. Ci sono stati terroristi («partigiani») iugoslavi che regolavano i conti durante la seconda guerra mondiale, terroristi sionisti che facevano saltare in aria mercati arabi in Palestina prima del 1948, terroristi irlandesi finanziati dagli americani nella Londra di Margaret Thatcher, terroristi mujaheddin armati dagli americani nell’Afghanistan degli anni Ottanta e così via.

A nessuno che abbia vissuto in Spagna, Italia, Germania, Turchia, Giappone, Regno Unito o Francia, per non parlare di paesi abitualmente più violenti, può essere sfuggita la presenza costante dei terroristi – armati di pistole, bombe, agenti chimici, a bordo di automobili, treni, aeroplani e altro ancora – nel corso del ventesimo secolo e oltre. L’unica novità negli ultimi anni è stato l’attacco terroristico del settembre 2001 all’interno dei confini degli Stati Uniti. E anche quell’attacco non era completamente senza precedenti: i mezzi erano nuovi e la carneficina inaudita, ma il terrorismo sul suolo americano non era certo un fenomeno sconosciuto nel ventesimo secolo.

Ma che dire della tesi secondo cui il terrorismo oggi è diverso, uno «scontro di culture» intriso di una mistura pestifera di religione e politica autoritaria: l’«islamofascismo»? Anche questa è un’interpretazione fondata in gran parte sulla lettura errata della storia del Novecento. In questo caso la confusione è triplice. La prima confusione consiste nell’accomunare i vari fascismi nazionali dell’Europa interbellica e i risentimenti, le pretese e le strategie diversissime delle insurrezioni e dei movimenti musulmani (altrettanto eterogenei) del nostro tempo e nell’attribuire la credibilità morale delle lotte antifasciste del passato alle nostre avventure militari dalle motivazioni più dubbie.

La seconda confusione deriva dall’associare una manciata di assassini senza Stato spinti dalla religione alla minaccia rappresentata nel ventesimo secolo da Stati ricchi e moderni in mano a partiti politici totalitari dediti all’aggressione all’estero e allo sterminio di massa. Il nazismo era una minaccia per la nostra stessa sopravvivenza e l’Unione sovietica occupava metà dell’Europa. Ma al-Qaeda? Il confronto è un insulto all’intelligenza, per non parlare della memoria di coloro che lottarono contro i dittatori. Persino chi sostiene queste similarità sembra non crederci. Dopo tutto, se Osama bin Laden fosse davvero paragonabile a Hitler o Stalin, avremmo veramente reagito all’11 settembre invadendo... Baghdad?

Ma l’errore più grave consiste nel confondere la forma con il contenuto: definire tutti i terroristi e i terrorismi del nostro tempo, con i loro obiettivi diversi e a volte contrastanti, soltanto in base alle loro azioni. È un po’ come accozzare le Brigate Rosse italiane, la banda Baader-Meinhof tedesca, il Provisional IRA, i baschi dell’Eta, i separatisti del Giura in Svizzera e il Fronte di liberazione nazionale corso, liquidare le differenze fra loro come insignificanti, battezzare il risultante amalgama di gambizzatori ideologici, bombaroli e assassini politici «estremismo europeo» (o «cristianofascismo», forse?)... e infine dichiarare guerra incondizionata e a tempo indeterminato al fenomeno.

Questa astrazione dei nemici e delle minacce dal loro contesto – la facilità con cui ci siamo persuasi di essere in guerra contro gli «islamofascisti», gli «estremisti» di una cultura estranea, che vivono in un lontano «Islamistan», che ci odiano per ciò che siamo e cercano di distruggere il «nostro stile di vita» – è un segno infallibile del fatto che abbiamo dimenticato la lezione del ventesimo secolo: la facilità con cui la guerra, la paura e i dogmi possono indurci a demonizzare gli altri, a negare loro un comune senso di umanità o la tutela delle nostre leggi e fare loro cose indicibili.

Come spiegare altrimenti la nostra attuale condiscendenza riguardo alla pratica della tortura? Perché la assecondiamo, questo è certo. Il ventesimo secolo iniziò con le convenzioni dell’Aia sulle leggi della guerra. Nel 2008 il ventunesimo secolo può vantare il campo di detenzione di Guantánamo Bay. Qui e in altre prigioni (segrete) negli Stati Uniti i terroristi o i presunti terroristi vengono sistematicamente torturati. Esistono abbondanti precedenti di questi metodi nel ventesimo secolo, certo, e non solo nei regimi dittatoriali. I britannici torturarono i terroristi nelle colonie in Africa orientale fino agli anni Cinquanta. I francesi torturarono i terroristi algerini catturati nella «guerra sporca» finalizzata a mantenere l’Algeria sotto il dominio francese7.

Al culmine della guerra in Algeria, Raymond Aron pubblicò due saggi poderosi nei quali esortava la Francia a lasciare l’Algeria e concederle l’indipendenza: era una guerra inutile, sosteneva, che la Francia non poteva vincere. Alcuni anni dopo fu chiesto ad Aron perché, quando si opponeva al dominio francese in Algeria, non aveva unito la sua voce a quella di chi denunciava le torture praticate dall’esercito francese. «Ma non avrei insegnato niente a nessuno, se avessi proclamato che sono contro la tortura», rispose. «Non ho mai incontrato nessuno che fosse favorevole alla tortura»8.

Be’, i tempi sono cambiati. Negli Stati Uniti oggi molte persone rispettabili e ragionevoli sono favorevoli alla tortura – nelle circostanze appropriate e se è applicata a chi la merita. Il professor Alan Dershowitz della Harvard Law School scrive che «la semplice analisi dei costi e benefici derivanti dall’impiego di una tortura non letale di questo genere [per estorcere a un prigioniero informazioni sensibili al fattore tempo] sembra dare un esito assolutamente indiscutibile». La professoressa Jean Bethke Elshtain della School of Divinity della University of Chicago riconosce che la tortura è sempre un orrore ed è «in generale [sic] [...] vietata». Ma quando si interrogano «prigionieri nel contesto di una guerra pericolosa e micidiale contro nemici che non conoscono limiti [...] ci sono momenti in cui questa norma può essere scavalcata»9.

Queste affermazioni agghiaccianti trovano eco nelle parole del senatore Charles Schumer di New York (un democratico), il quale a una seduta del Senato nel 2004 affermò che «probabilmente pochissime persone in quest’aula o in America affermerebbero che non si dovrebbe mai fare ricorso alla tortura». Di sicuro non il giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, che nel febbraio 2008 ha informato la Radio Four della BBC che sarebbe assurdo affermare che la tortura non può essere praticata. Per citare Scalia:

una volta che lo si riconosce, il gioco cambia. Quanto vicina deve essere la minaccia? Quanto acuto può essere il dolore inflitto? Non penso affatto che siano domande semplici [...] Ma so per certo che non si può arrivare con aria compiaciuta e soddisfatta di sé e dire, «oh, è tortura, perciò non va bene»10.

Ma era proprio questa affermazione, che «è tortura, perciò non va bene», a distinguere, fino a tempi molto recenti, le democrazie dalle dittature. Siamo orgogliosi di avere sconfitto l’«impero del male» dei sovietici. Proprio così. Ma forse dovremmo rileggere le memorie di chi ha sofferto per mano di quell’impero – le memorie di Eugen Loebl, Artur London, Jo Langer, Lena Constante e molti altri – e poi confrontare gli umilianti abusi che subirono con i trattamenti approvati e autorizzati dal presidente Bush e dal Congresso degli Stati Uniti. Sono davvero così diversi?11

La tortura di sicuro «funziona». Come rivela la storia degli Stati di polizia del ventesimo secolo, quasi tutte le persone sottoposte a torture estreme dicono qualunque cosa (a volte anche la verità). Ma a quale scopo? Grazie alle informazioni estorte ai terroristi con la tortura, l’esercito francese vinse la battaglia di Algeri nel 1957. Poco più di quattro anni dopo la guerra era finita, l’Algeria era indipendente e i «terroristi» avevano vinto. Ma la Francia conserva la macchia e il ricordo dei crimini commessi in suo nome. La tortura davvero non va bene, soprattutto per le repubbliche. E, come osservò Aron molti decenni fa, «la tortura, la menzogna accompagnavano la guerra. Bisognava innanzitutto porre un termine alla guerra»12.

Ci siamo messi su una china pericolosa. Le distinzioni sofistiche che operiamo oggi nella nostra guerra al terrorismo – tra Stato di diritto e circostanze «eccezionali», tra cittadini (che hanno diritti e tutele giuridiche) e non-cittadini ai quali si può fare qualsiasi cosa, tra persone normali e «terroristi», tra «noi» e «loro» – non sono nuove. Il ventesimo secolo le ha sentite invocare tutte. Sono le stesse, identiche distinzioni che hanno autorizzato le peggiori atrocità del passato recente: i campi di internamento, la deportazione, la tortura e l’assassinio – quegli stessi crimini che ci fanno mormorare «mai più». Che cosa, di preciso, pensiamo dunque di avere imparato dal passato? Quale utilità può avere il nostro culto moralistico della memoria e dei memoriali, se gli Stati Uniti possono costruire il proprio campo di internamento e torturarci le persone?

Invece di avere fretta di allontanarci dal ventesimo secolo, penso che avremmo bisogno di ritornarci e di esaminarlo con un po’ più di attenzione. Dobbiamo imparare di nuovo – o forse imparare per la prima volta – come la guerra disumanizzi e umili tanto i vincitori quanto gli sconfitti e che cosa accade quando, dopo avere avventatamente mosso guerra senza buone ragioni, siamo incoraggiati a ingigantire e demonizzare i nostri nemici per giustificare la continuazione di quella guerra all’infinito. E forse, in questa lunga stagione elettorale, potremmo porre una domanda ai nostri aspiranti leader: babbo (o, nel caso, mamma), che cosa hai fatto per scongiurare la guerra?

 

* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel maggio 2008 sulla «New York Review of Books».

1 Mai una simile innocenza, / mai prima o da allora, / si mutò in passato / senza una parola – gli uomini / a lasciare in ordine i giardini, / i mille matrimoni / a durare un pochino di più: / mai più una simile innocenza. Philip Larkin, MCMXIV, in Le nozze di Pentecoste e altre poesie, trad. it. di Renato Oliva e Camillo Pennati, Einaudi, Torino 1969.

2 Si veda, per esempio, Lytton Strachey, Eminenti vittoriani, pubblicato nel 1918.

3 Si veda Vernichtungskrieg: Verbrechen der Wehrmacht 1941-1944, a cura di Hannes Heer e Klaus Naumann, Hamburger Edition, Hamburg 1995. Molti soldati tedeschi impegnati sul fronte orientale e in Iugoslavia raccontavano i loro crimini peggiori per sollazzare familiari e amici. Le guardie carcerarie americane ad Abu Ghraib sono i loro diretti discendenti.

4 In realtà il Sud sconfitto subì precisamente quelle conseguenze dopo la guerra civile. E l’umiliazione, il risentimento e l’arretratezza successivi sono l’eccezione americana che conferma la regola.

5 Si veda la mia analisi di The Cold War: A New History di John Lewis Gaddis, Penguin, New York 2005, sulla «New York Review of Books», 23 marzo 2006.

6 Va tuttavia rilevato che, nel Regno Unito, una generazione più giovane di leader politici – a partire da Tony Blair – si è rivelata quasi altrettanto indifferente alle lezioni del secolo scorso dei suoi contemporanei americani.

7 Si veda Caroline Elkins, Imperial Reckoning: The Untold Story of Britain’s Gulag in Kenya, Henry Holt, New York 2005; Marnia Lazreg, Torture and the Twilight of Empire: From Algiers to Baghdad, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2008; e Darius Rejali, Torture and Democracy, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2007.

8 Raymond Aron, La Tragédie Algérienne, Plon, Paris 1957; L’Algérie et la République, Plon, Paris 1958; e Le Spectateur engagé, Julliard, Paris 1981, p. 210 [trad. it. di Marc Le Cannu, L’etica della libertà. Memorie di mezzo secolo, Mondadori, Milano 1982, p. 201]. Per una descrizione in prima persona della tortura, si veda Henri Alleg, The Question, Bison, Lincoln (NE) 2006 (ed. or. La Question, 1958; trad. it. di Paolo Spriano, La Tortura, Einaudi, Torino 1958). La Torture dans la République dello scomparso Pierre Vidal-Naquet è un’acuta analisi del modo in cui la tortura corrompe il sistema politico che la autorizza. Pubblicato per la prima volta in inglese nel 1963, questo libro è da tempo esaurito. Dovrebbe essere ritradotto e diventare una lettura obbligatoria per ogni membro del Congresso e ogni candidato alla presidenza degli Stati Uniti.

9 Alan M. Dershowitz, Why Terrorism Works: Understanding the Threat, Responding to the Challenge, Yale University Press, New Haven 2002, p. 144 [trad. it. di Corradino Corradi, Terrorismo, Carocci, Roma 2003, p. 137]; Jean Bethke Elshtain, Reflections on the Problem of «Dirty Hands», in Torture: A Collection, a cura di Sanford Levinson, Oxford University Press, New York 2004, pp. 80-83.

10 Il senatore Schumer è citato sul «Wall Street Journal», 2 novembre 2007. Per le osservazioni del giudice Scalia, si veda www.usatoday.com/news/washington/2008-02-13-scalia_N.htm.

11 Lena Constante, The Silent Escape: Three Thousand Days in Romanian Prisons, University of California Press, Berkeley 1995 [trad. it. dal rumeno di Angela Tarantino, L’evasione silenziosa. Tremila giorni, sola, nelle prigioni rumene, Nutrimenti, Roma 2007]; Jo Langer, Une saison à Bratislava, Seuil, Paris 1979; Eugen Loebl, My Mind on Trial, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1976 [trad. it. di Rosanna Pelà, La mia mente sotto processo, Sperling & Kupfer, Milano 1979]; Artur Gerard London, L’Aveu, dans l’engrenage du Procès de Prague, Gallimard, Paris 1971 [trad. it. di Francesco Mennella, La confessione. Nell’ingranaggio del processo di Praga, Garzanti, Milano 1969].

12 Le Spectateur engagé, cit., pp. 210-211 [trad. it., p. 201].