Capitolo
23
La forza distruttrice dell’innovazione*
Supercapitalismo è il termine con cui Robert Reich definisce il modo in cui viviamo adesso. La storia che racconta è nota, la diagnosi è superficiale; ma ci sono due motivi per prestare attenzione al libro. L’autore è stato il primo segretario del Lavoro del presidente Clinton. Reich sottolinea questa relazione, aggiungendo che «l’amministrazione Clinton – di cui sono fiero di aver fatto parte – è stata una delle amministrazioni più filo-aziendali nella storia americana». In effetti, è un libro decisamente «clintoniano» e le sue carenze sono forse un assaggio di ciò che ci si può aspettare (e non aspettare) da un’altra presidenza Clinton. Il tema di Reich – la vita economica nell’economia capitalista avanzata di oggi e i costi che comporta in termini di salute politica e civile delle democrazie – è importante e addirittura urgente, anche se i «rimedi» che l’autore propone sono poco convincenti.
L’argomento di Reich è il seguente: durante quella che definisce l’«età non proprio dell’oro» del capitalismo americano, dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni Settanta, la vita economica era stabile e godeva di un confortevole equilibrio. Un numero limitato di colossi industriali – come la General Motors – dominava i propri mercati prevedibili e garantiti; i lavoratori qualificati avevano posti di lavoro fissi e (relativamente) sicuri. Nonostante tutte le belle parole sulle virtù della concorrenza e del libero mercato, l’economia americana (sotto questo aspetto paragonabile alle economie dell’Europa occidentale) dipendeva fortemente dalla protezione contro la concorrenza estera, oltre che dalla normalizzazione, dalla regolamentazione, dalle sovvenzioni, dal sostegno ai prezzi e dalle garanzie pubbliche. Le disparità proprie del capitalismo erano attenuate dalla certezza del benessere immediato e della prosperità futura e da un sentimento diffuso, per quanto illusorio, di interesse comune. «Mentre gli europei istituivano cartelli e flirtavano col socialismo democratico, l’America andò dritta al cuore del problema, creando un capitalismo democratico in un’economia pianificata diretta dagli industriali»1.
Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Settanta, e con crescente intensità negli ultimi anni, i venti del cambiamento – il «supercapitalismo» – hanno spazzato via tutto. Grazie alle tecnologie inizialmente sostenute o sviluppate nell’ambito dei progetti di ricerca condotti durante la guerra fredda – come i computer, la fibra ottica, i satelliti e Internet – i beni di consumo, le comunicazioni e le informazioni oggi viaggiano a una velocità notevolmente superiore. I sistemi di regolamentazione istituiti nel corso di un secolo o più sono stati soppiantati o smantellati nell’arco di pochi anni. Al loro posto è arrivata una più accesa concorrenza per conquistare i mercati globali e un profluvio di fondi internazionali a caccia di lucrosi investimenti. I salari e i prezzi sono diminuiti e i profitti aumentati. La concorrenza e l’innovazione hanno generato nuove opportunità per alcuni ed enormi ammassi di ricchezza per pochi; parallelamente, hanno distrutto posti di lavoro, fatto fallire aziende e impoverito le comunità.
Rispecchiando le priorità della nuova economia, l’arena politica è dominata da industriali e finanzieri («Wal-Mart e Wall Street», nella sintesi di Reich) che esercitano pressioni a favore di vantaggi settoriali: «Il supercapitalismo ha invaso la politica, e inghiottito la democrazia». In qualità di investitori – e soprattutto di consumatori – gli americani, in particolare, hanno goduto di benefici che i loro genitori non avrebbero neppure potuto immaginare. Nessuno però si occupa dell’interesse pubblico più generale. Il valore degli investimenti è salito alle stelle, ma «le istituzioni che un tempo aggregavano le volontà dei cittadini si sono indebolite». I dibattiti sulla politica pubblica negli odierni Stati Uniti, come osserva Robert Reich, «a un più attento esame, sono questioni di banale vantaggio competitivo ai fini del profitto aziendale». La nozione di «bene comune» è scomparsa. Gli americani hanno perso il controllo della loro democrazia.
Reich ha buon occhio per gli esempi istruttivi. Il divario fra ricchi e poveri negli Stati Uniti oggi è il più ampio mai registrato dal 1929: nel 2005, il 21,2 per cento del reddito nazionale statunitense era appannaggio di appena l’uno per cento dei percettori di reddito. Nel 1968 l’amministratore delegato della General Motors portava a casa, tra stipendio e benefici, una cifra equivalente a circa 66 volte quella percepita dal lavoratore medio della GM; nel 2005 l’amministratore delegato di Wal-Mart guadagnava una cifra 900 volte superiore allo stipendio del suo dipendente medio. In effetti, le fortune della famiglia dei fondatori di Wal-Mart nello stesso anno erano stimate intorno a novanta miliardi di dollari, grossomodo pari alla ricchezza combinata del 40 per cento più povero della popolazione statunitense: centoventi milioni di persone. Se l’economia generale è cresciuta «a dismisura», ma «il reddito medio per famiglia è rimasto immutato negli ultimi trent’anni, [...] dove sono finiti i soldi? Quasi tutti nelle tasche di coloro che siedono in cima alla piramide». Quanto all’intrepida disinvoltura dei «creatori di ricchezza» di ultima generazione, Reich elenca le agevolazioni fiscali, i fondi pensione, le reti di sicurezza, i «superfondi» e i bailout offerti negli ultimi anni alle casse di risparmio e prestiti, ai fondi hedge, alle banche e ad altri «soggetti che assumono il rischio», per poi concludere beffardamente che «una situazione che offre tutti i benefici agli investitori privati e delega tutte le responsabilità al Governo è destinata a generare investimenti azzardati».
Tutto questo è vero. Ma che cosa bisogna fare? Su questo punto Reich non si sbilancia. I fatti che assomma sembrano indicare un crollo incipiente dei valori e delle istituzioni fondamentali della repubblica. I disegni di legge del Congresso sono scritti a vantaggio degli interessi privati, finanziatori influenti determinano le scelte politiche dei candidati alla presidenza, i singoli cittadini ed elettori vengono sistematicamente estromessi dalla sfera pubblica. Nei numerosi esempi descritti da Reich, è la moderna azienda internazionale, con i suoi dirigenti strapagati e i suoi azionisti «ossessionati dal profitto», che sembra incarnare il degrado dei valori civili. Il lettore potrebbe concludere che queste aziende, focalizzando con cura l’attenzione sulla crescita, il profitto e il breve termine, abbiano occultato e spiazzato i più ampi obiettivi comuni e interessi collettivi che un tempo ci tenevano legati gli uni agli altri.
Ma questa non è affatto la conclusione che Robert Reich ci suggerisce di trarre. Nella sua visione dei dilemmi attuali, nessuno è responsabile. «In quanto cittadini, probabilmente non riteniamo che una tale disparità giovi alla democrazia. [...] Ma i super ricchi non sono da incolpare.» «I dirigenti aziendali sono diventati più avidi?» No. «I consigli d’amministrazione delle corporation sono diventati più irresponsabili?» No. «Gli investitori più docili?» «Non c’è niente che supporti una di queste teorie.» Le grandi aziende non si comportano in modo socialmente responsabile, come Reich documenta. Ma non è compito loro. Non dovremmo aspettarci che gli investitori, o i consumatori, o le corporation siano al servizio del bene comune. Vanno semplicemente a caccia dell’affare migliore. L’economia non riguarda l’etica. Come osservò una volta il primo ministro britannico Harold Macmillan, «se la gente vuole la moralità, che la cerchi fra gli arcivescovi».
Nell’analisi di Reich, non esistono «malfattori di enorme ricchezza»2. In effetti, respinge con sdegno qualsiasi spiegazione basata sulla scelta o sulla volontà umana, sull’interesse di classe o persino sulle idee economiche. Tutte queste spiegazioni, per citare le sue parole, non sono «supportat[e] dai fatti». I cambiamenti registrati nel suo libro a quanto pare sono semplicemente «avvenuti», in una dimostrazione impersonale della distruzione creativa insita nelle dinamiche capitalistiche: Schumpeter semplificato, per così dire. Semmai, Reich è un determinista tecnologico: le nuove «tecnologie hanno permesso ai consumatori e agli investitori di fare affari sempre migliori», affari che hanno «eliminato la [...] uguaglianza [...] del sistema, e altri [...] valori sociali. [...] La storia che segue non ha né eroi né cattivi».
Qui siamo di fronte a una familiare triangolazione. L’autore riesce a mostrare indignazione per i lati negativi del capitalismo moderno, senza dover mai attribuire responsabilità («probabilmente non riteniamo», eccetera) o esprimere un proprio giudizio. Le corporation semplicemente fanno quello che fanno. Certo, se le conseguenze che questa situazione comporta per noi come società non ci piacciono, secondo Reich non dobbiamo fare altro che indossare il cappello da cittadini e cambiarla. Ma questo in realtà non quadra con la reiterata insistenza del libro sulla logica ferrea della tecnologia e dell’interesse personale. Non sorprende quindi che le soluzioni proposte da Reich per questi sviluppi epocali e i rischi che rappresentano siano curiosamente banali: qualche piccola correzione fiscale, accordi commerciali contenenti clausole sul salario minimo, una certa regolamentazione legislativa dell’attività delle lobby.
Ma anche queste piccole modifiche della prassi attuale sono in contrasto con la premessa che fa da cornice all’analisi di Reich: che i nostri interessi in qualità di «investitori» e «consumatori» hanno trionfato sulla nostra capacità di agire da «cittadini». Se la sua descrizione dei meccanismi della vita economica moderna è veritiera – se, per citare le sue parole, «[s]otto il supercapitalismo, il ‘lungo termine’ è il valore attuale dei guadagni futuri» –, rimaneggiare le leggi in materia di finanziamento delle campagne elettorali è irrilevante (perché nulla cambierebbe) oppure impossibile, perché verrebbe contrastato da quegli stessi «interessi concorrenti» delle aziende che per prime hanno provocato la distorsione. In ogni caso, perché noi o i nostri rappresentanti dovremmo scegliere improvvisamente, secondo la tesi di Reich, di agire come «cittadini» disinteressati invece che come i «consumatori» o «investitori» egoisti che siamo diventati? Quale sarebbe l’incentivo, per ogni singolo cittadino? Per ordine di chi opteremmo improvvisamente per la nostra identità «civile» invece che per quella «economica»?
Il modo in cui Reich cataloga il comportamento umano – come se le nostre simpatie e preferenze («consumatore», «investitore», «cittadino») potessero essere suddivise e incasellate in compartimenti stagni – non è convincente. Produce belle frasi ad effetto: «Come cittadini [siamo] sinceramente preoccupati dal riscaldamento globale; come consumatori e investitori, però, contribui[amo] ad alzare la temperatura». Ma non può spiegare perché i cittadini americani siano intrappolati in questo paradosso, mentre quelli in altri paesi hanno cominciato ad affrontarlo. Il problema è che le categorie di Reich riflettono fedelmente la sua visione della società piuttosto debole sotto il profilo epistemologico: per «cittadino» non intende altro che uomo economico più egoismo illuminato. Manca qualcosa. Non solo non ci sono né «eroi», né «cattivi», né qualcuno cui attribuire la responsabilità. Non c’è neanche un pensiero politico.
Viviamo in un’era economica. Per i due secoli successivi alla Rivoluzione francese, la vita politica occidentale è stata dominata da una lotta che contrapponeva la sinistra alla destra: i «progressisti» – liberal o socialisti – contro gli avversari conservatori. Fino a tempi recenti questi quadri di riferimento ideologici erano ancora molto vivi e determinavano la retorica, se non la realtà delle scelte pubbliche. Ma nel corso dell’ultima generazione i termini dello scambio politico sono mutati, fino a diventare irriconoscibili. Quello che restava del fatalismo rassicurante della vecchia narrazione della Sinistra – la suggestiva convinzione che la «Storia» fosse dalla nostra parte – è stato seppellito dopo il 1989, insieme con il «socialismo reale». La destra politica tradizionale ne ha subìto il contraccolpo. Dagli anni Trenta del diciannovesimo secolo alla fine degli anni Settanta del ventesimo, essere di destra significava opporsi alla visione della sinistra incentrata sull’ineluttabilità del cambiamento e del progresso: i «conservatori» conservavano, i «reazionari» reagivano. Erano «controrivoluzionari». Avendo fin lì tratto vigore dal rifiuto delle convinzioni progressiste ormai defunte, anche la destra politica oggi è disorientata.
La nuova grande narrazione – il modo in cui pensiamo al nostro mondo – ha abbandonato la prospettiva sociale a favore di quella economica. Parla di «sistema capitalistico globale integrato», crescita economica e produttività invece che di lotta di classe, rivoluzione e progresso. Come quelle che l’hanno preceduta nel diciannovesimo secolo, questa storia associa un’affermazione sul miglioramento («crescita è bello») a una presunzione sull’inevitabilità: la globalizzazione – o, per Robert Reich, il «supercapitalismo» – è un processo naturale, non il prodotto di decisioni umane arbitrarie. Se i teorici della rivoluzione di ieri fondavano la loro visione del mondo sull’inevitabilità di una radicale sollevazione sociale, gli apostoli della crescita di oggi invocano l’altrettanto ineluttabile dinamica della competizione economica globale. In comune hanno la fiduciosa individuazione della necessità nel divenire storico. Siamo rinchiusi, per citare le parole di Emma Rothschild, in un’incontrastata «società di scambi universali»3. O, come a suo tempo riassunse Margaret Thatcher: non c’è alternativa.
Come i loro progenitori politici, gli autori dei testi economici contemporanei spesso tendono al riduzionismo: «nel lungo periodo», scrivono tre eminenti economisti, «vi è un solo dato economico che conta davvero: la crescita della produttività»4. E il dogma di oggi (come altri dogmi del passato recente) è indifferente a quegli aspetti della vita umana che non si lasciano facilmente sussumere nei suoi propri termini di riferimento: come il vecchio pensiero poneva l’accento sul comportamento e sulle opinioni che si potevano categorizzare come un prodotto della «classe sociale», allo stesso modo il dibattito odierno mette in primo piano gli interessi e le preferenze che si possono esprimere in termini economici. Siamo inclini a pensare al ventesimo secolo come a un’epoca di estremismi e di illusioni dalla quale ora siamo fortunatamente usciti. Ma non siamo anche noi degli illusi?
Con il nostro nuovo culto della produttività e del mercato, non abbiamo semplicemente capovolto le convinzioni di una generazione precedente? Dopo tutto, non c’è nulla di più ideologico della proposizione che tutte le vicende e le politiche, private e pubbliche, debbano ruotare intorno all’economia globalizzata, alle sue leggi ineluttabili e alle sue esigenze insaziabili. Assieme alla promessa della rivoluzione e al suo sogno di trasformazione sociale, questa venerazione della necessità economica era anche la premessa di fondo del marxismo. Nel passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo, non abbiamo semplicemente abbandonato un sistema di credenze ottocentesco per sostituirlo con un altro?
Come la vecchia grande narrazione, anche quella nuova è parca di consigli su come prendere decisioni politiche difficili. Per fare un semplice esempio: la vera ragione per cui il «cittadino» di Robert Reich potrebbe essere confuso riguardo al riscaldamento globale non sta nel fatto che in parte è anche un investitore e un consumatore. Sta nel fatto che il riscaldamento globale è sia una conseguenza della crescita economica sia un elemento che la favorisce. Nel qual caso, se la «crescita» è un bene e il riscaldamento globale un male, come si fa a scegliere? La crescita è un bene ovvio? Se l’odierna creazione di ricchezza e la crescita della produttività indotta dall’efficienza realizzino realmente i benefici che proclamano – opportunità, mobilità verso l’alto, felicità, benessere, opulenza, sicurezza – forse è una questione più dubbia di quanto siamo disposti ad ammettere. E se la crescita aumentasse i rancori sociali invece di attenuarli?5 Dovremmo tenere conto delle implicazioni non economiche delle scelte di politica pubblica.
Prendiamo il caso della riforma del welfare, riguardo alla quale Reich stesso è stato molto attivo, sia in veste di segretario del Lavoro di Bill Clinton sia come autore, molti anni fa, di una proposta intesa a sostituire le prestazioni sociali con sovvenzioni a favore delle imprese che avessero assunto disoccupati6. Nel 1996 l’amministrazione Clinton di fatto eliminò gran parte dei diritti all’assistenza pubblica garantiti a livello federale. Ribaltando gli sviluppi del mezzo secolo precedente, il Congresso pose fine ai benefici universali e condizionò le prestazioni sociali alla dimostrazione della volontà di cercare e di accettare un lavoro. Ciò era in linea con gli sviluppi in corso altrove: il passaggio dal welfare al workfare caratterizzò le riforme in Gran Bretagna, Olanda e persino in Scandinavia (per esempio, in Norvegia la legge sui servizi sociali del 1991 autorizzava gli enti locali a imporre requisiti lavorativi ai beneficiari dell’assistenza pubblica). I diritti universali e le prestazioni basate sui bisogni sono stati sostituiti da un sistema di incentivi e premi «che permettono di lavorare»: l’obiettivo dichiarato di ridurre il numero di persone a carico del sistema assistenziale accompagnava la convinzione che l’esito sarebbe stato esemplare dal punto di vista morale ed efficiente sotto il profilo economico.
Ma quella che sembra una politica economica ragionevole ha un costo civile implicito. Uno degli obiettivi fondamentali dello Stato sociale del ventesimo secolo era assicurare che tutti fossero cittadini a pieno titolo: non solo cittadini elettori, nel senso limitato attribuito al termine da Robert Reich, ma cittadini titolari di diritti, tra cui il diritto incondizionato di ricevere attenzione e sostegno dalla collettività. Il risultato sarebbe stata una società più coesa, senza categorie di persone escluse o meno «meritevoli». Il nuovo approccio «discrezionale» torna però a vincolare i diritti di una persona nei confronti della collettività alla sua buona condotta. Reintroduce una condizione da soddisfare per ottenere la cittadinanza sociale: soltanto chi ha un lavoro è membro a pieno titolo della comunità. Gli altri possono ricevere l’aiuto necessario per una partecipazione completa, ma non prima di avere superato determinati test e dato prova di comportamento appropriato.
Spogliata dei suoi paludamenti retorici, la moderna riforma del welfare ci riporta quindi allo spirito della New Poor Law inglese del 1834, che introdusse il principio di ammissibilità minima, in base al quale il sussidio per il disoccupato e l’indigente doveva essere inferiore, in termini di qualità e quantità, ai salari e alle condizioni di impiego prevalenti al livello più basso. La riforma del welfare, soprattutto, ristabilisce una distinzione fra i cittadini attivi (o «meritevoli») e gli altri: quelli che, per qualsiasi motivo, sono esclusi dalla forza lavoro attiva. I vecchi sistemi di assistenza pubblica universale non erano certo attenti al mercato. Ma era proprio quello lo scopo: il welfare, per citare le parole di T.H. Marshall, era destinato «a rimpiazzare il mercato sottraendo alla sua influenza beni e servizi, o a controllare e modificare in qualche modo il suo operato al fine di produrre un risultato che di per sé non avrebbe prodotto»7.
L’ottimizzazione del mercato – che sostituisce le valutazioni di politica pubblica fondate su criteri sociali o politici con misure adottate principalmente in funzione della loro efficienza economica – è anche la giustificazione dichiarata delle frenetiche privatizzazioni degli ultimi anni. Ma in questo contesto, come per la riforma del welfare, l’assetto organizzativo che viene presentato come il futuro ha di fatto cominciato a somigliare al passato, con gli enti pubblici e collettivi dell’età moderna ripartiti in attività frammentate in mano ai privati che ricordano un’epoca molto più lontana. Con l’avvento dello Stato moderno (specialmente nel secolo scorso), i trasporti, gli ospedali, le scuole, le poste, gli eserciti, le carceri, le forze di polizia e l’accesso alla cultura – tutti servizi essenziali, che ovviamente mal si conciliavano con lo scopo del profitto – sono stati sottoposti alla regolamentazione o al controllo del settore pubblico. Ora vengono restituiti agli imprenditori privati (o, nel caso di molti bilanci culturali europei, ai capricci dell’illusione e della fragilità individuale sotto forma di lotterie nazionali semiprivate).
In alcuni casi – specialmente nei settori dei trasporti e delle poste – questi servizi non promettono un rendimento economico (per esempio, quando devono essere forniti in località isolate) e i contribuenti devono finanziare o garantire il margine di profitto del settore privato perché lo Stato trovi degli acquirenti. Questa è pura e semplice sovvenzione vecchia maniera, ma con un altro nome, e (come riconosce Robert Reich) una fonte perenne di rischio morale, che favorisce l’irresponsabilità e spesso la corruzione. In altri casi, le imprese private sollevano lo Stato di una responsabilità fino a quel momento pubblica (la fornitura di carceri, di vagoni ferroviari o di assistenza sanitaria) e talvolta versano un corrispettivo per il privilegio e recuperano l’esborso addebitandolo ai cittadini o alle comunità che fruiscono del servizio in questione. Di solito, il settore pubblico incassa un guadagno una tantum e si sgrava di un onere amministrativo, ma rinuncia al reddito futuro e perde il controllo sulla qualità del servizio appaltato. In Gran Bretagna oggi questa forma di impresa è denominata Ppp, «partenariato pubblico-privato». Nella Francia dell’ancien régime si chiamava appalto dell’esazione delle imposte8.
Come per la riforma del welfare, la deregolamentazione, la rivoluzione tecnologica e la stessa globalizzazione, il vero impatto della privatizzazione è consistito nel ridurre il ruolo dello Stato nella vita dei cittadini: scrollarci lo Stato «dalle spalle» ed eliminarlo «dalla nostra vita» (un obiettivo comune dei «riformatori» economici di ogni paese) e rendere «filo-aziendale» la politica pubblica, per dirla con l’entusiasta Robert Reich. Lo Stato del ventesimo secolo, nella sua veste di «ingegnere dell’anima», ha sicuramente lasciato dei brutti ricordi. Era spesso inefficiente, talvolta repressivo, in certi casi genocida. Ma riducendo (e implicitamente screditando) lo Stato, abbandonando l’interesse pubblico a favore del vantaggio privato ovunque possibile, abbiamo anche sottratto valore a quei beni e servizi che rappresentano la collettività e i suoi scopi comuni, «riducendo [sistematicamente] gli incentivi che incoraggiavano le persone competenti e ambiziose a entrare o a restare nel settore dei servizi statali»9. E questo comporta un grandissimo rischio.
Il mercato richiede norme, abitudini e «sentimenti» esterni per rimanere integro e garantire la stabilità politica di cui il capitalismo ha bisogno per prosperare. Ma tende anche a corrompere quelle stesse pratiche e sentimenti. Questo è chiaro da molto tempo10. La benefica «mano invisibile» – il libero mercato non regolamentato – può essere stata una condizione favorevole inaugurale delle società commerciali. Ma non può riprodurre le istituzioni e le relazioni non commerciali – di coesione, fiducia, consuetudine, moderazione, obbligo, moralità, autorità – che ha ereditato e che il perseguimento dell’interesse economico privato tende a minare più che a rafforzare11. Per motivi analoghi, non si dovrebbe dare per scontata la relazione tra capitalismo e democrazia (o tra capitalismo e libertà politica): guardiamo la Cina, la Russia e forse anche Singapore. Efficienza, crescita e profitto potrebbero non essere tanto una condizione preliminare o persino una conseguenza della democrazia quanto un suo sostituto.
Se vogliono sopravvivere all’impatto del «supercapitalismo» di Reich, le democrazie moderne devono essere unite da scopi che vadano al di là del perseguimento del vantaggio economico privato, soprattutto quando a fruire di quest’ultimo è un numero sempre più esiguo di persone: l’idea di una società tenuta insieme unicamente dagli interessi pecuniari, secondo John Stuart Mill, è «essenzialmente repulsiva». Una società civilizzata richiede qualcosa di più del tornaconto personale, illusorio o illuminato che sia, per poter condividere una narrazione della sua ragion d’essere. «La qualità più preziosa dell’azione pubblica consiste nella sua capacità di soddisfare il confuso bisogno di uomini e donne di dare un senso alla loro vita attraverso obiettivi più alti»12.
Oggi il pericolo è dovuto al fatto che, avendo dequalificato l’azione pubblica, non sappiamo più che cosa esattamente ci leghi gli uni agli altri. Lo scomparso Bernard Williams, dopo avere descritto la «teleologia oggettiva della natura umana» nel pensiero etico greco – la credenza che vi siano delle circostanze relative all’uomo e al suo posto nel mondo per effetto delle quali egli è tenuto a condurre una vita di mutua collaborazione – conclude:
Una versione di questo punto di vista è stata in seguito sostenuta da moltissime teorie etiche; oggi forse noi siamo più consapevoli di chiunque, dopo che alcuni sofisti del V secolo lo avevano messo in dubbio, di doverne fare a meno.
Nel qual caso chi, oggi, si assumerà la responsabilità di quella che Jan Patočka chiamava l’«Anima della città»?13
Ci sono due ragioni imperative per preoccuparsi dell’anima della città e per temere che non possa essere rimpiazzata in maniera soddisfacente da una storia di crescita economica infinita, o anche dalla distruzione creatrice dell’innovazione capitalistica. La prima è che questa storia non è molto invitante. Lascia fuori un sacco di gente, all’interno e all’esterno dei confini nazionali, fa scempio dell’ambiente naturale e le sue conseguenze sono spiacevoli e poco entusiasmanti. L’abbondanza (come osservò Daniel Bell) può essere il surrogato americano del socialismo ma, per quanto riguarda gli obiettivi sociali comuni, fare acquisti è comunque un risultato inferiore alle attese. Nei primi anni della Rivoluzione francese, il marchese di Condorcet guardava costernato alla prospettiva di società commerciale che andava profilandosi davanti a sé (come oggi davanti a noi): l’idea che «la libertà altro non sia, agli occhi di una nazione avida, che la condizione per la sicurezza delle operazioni finanziarie»14. Dovremmo condividere il suo disgusto.
La seconda fonte di inquietudine è che la storia infinita potrebbe non durare. Anche le economie hanno una storia. L’ultima volta che il mondo capitalista ha attraversato un periodo di espansione senza precedenti e di grande creazione di ricchezza, durante la «globalizzazione» ante litteram dell’economia mondiale nei decenni imperiali precedenti la Grande guerra, in Gran Bretagna – come avviene oggi negli Stati Uniti e in Europa occidentale – molti davano per scontato di essere alle soglie di un’epoca senza eguali di pace e prosperità illimitata. Chi voglia farsi un’idea di questa fiducia – e di cosa ne è stato – può leggere Le conseguenze economiche della pace di John Maynard Keynes, un compendio delle illusioni di un mondo sull’orlo della catastrofe, scritto subito dopo la guerra che avrebbe messo fine a tutte queste fantasie di pace per i successivi cinquant’anni15.
Fu sempre Keynes a prevedere la «brama di sicurezza» che gli europei avrebbero provato dopo i trent’anni di guerra e di tracollo economico seguiti alla fine della Gilded Age, l’età dorata tra il 1870 e il 1914, e a contribuire a prepararsi ad affrontarla. Grazie in larga misura ai servizi pubblici erogati dallo Stato e alle reti di sicurezza sociale integrate nei sistemi di governo postbellici, i cittadini dei paesi avanzati persero lo straziante senso di insicurezza e paura che aveva dominato e polarizzato la vita politica dal 1914 fino ai primi anni Cinquanta e che era stato in gran parte responsabile del fascino tanto del fascismo quanto del comunismo in quegli anni.
Abbiamo però buoni motivi per ritenere che le cose stiano per cambiare. La paura sta riaffiorando come un ingrediente attivo della vita politica nelle democrazie occidentali. La paura del terrorismo, certo, ma anche, e forse in modo più insidioso, la paura della velocità incontrollabile del cambiamento, la paura di perdere il lavoro, di restare indietro rispetto agli altri in una distribuzione delle risorse sempre più iniqua, di perdere il controllo delle circostanze e delle consuetudini della nostra vita quotidiana. E, forse soprattutto, la paura che non siamo soltanto noi a non poter più decidere della nostra vita, ma che anche coloro i quali sono al potere abbiano perso il controllo in favore di forze al di sopra della loro portata.
Cinquant’anni di sicurezza e di prosperità hanno cancellato quasi del tutto il ricordo dell’ultima volta che un’«era economica» è precipitata in un’era della paura. Abbiamo finito per convincerci – nei calcoli economici, nelle pratiche politiche, nelle strategie internazionali, persino nelle priorità in materia di istruzione – che il passato abbia poco d’importante da insegnarci. Il nostro, affermiamo, è un mondo nuovo; i rischi e le opportunità che presenta sono senza precedenti. I nostri genitori e i nostri nonni, invece, avendo vissuto le conseguenze del disfacimento di un’era economica precedente, erano molto più consapevoli di cosa può succedere a una società quando gli interessi privati e settoriali sovrastano gli obiettivi pubblici e mettono in ombra il bene comune.
Dobbiamo recuperare un po’ di quella consapevolezza. In ogni caso, è probabile che riscopriremo lo Stato proprio grazie alla globalizzazione. Le popolazioni esposte a una maggiore insicurezza economica e fisica ripiegheranno sui simboli politici, sulle risorse legali e sulle barriere fisiche che soltanto uno Stato territoriale può offrire. Sta già accadendo in molti paesi: il protezionismo sta prendendo piede nel dibattito politico americano, i partiti «anti-immigranti» guadagnano favore in tutta l’Europa occidentale e ovunque si leva la richiesta di «muri», «barriere» e «test». Chi pensa di vivere in un «mondo piatto» potrebbe andare incontro a una sorpresa. Inoltre, può anche darsi che la globalizzazione e il «supercapitalismo» riducano le differenze tra i paesi, ma in genere amplificano le disparità al loro interno (in Cina, per esempio, o negli Stati Uniti), con conseguenze politiche destabilizzanti.
Se davvero assisteremo a un ritorno dello Stato, all’acuirsi del bisogno di sicurezza e di risorse che soltanto uno Stato può garantire, dovremmo considerare con maggiore attenzione le cose che gli Stati possono fare. Oggi parliamo con sdegno dello Stato: non come il benefattore naturale cui ricorrere in prima istanza, ma come fonte di inefficienza economica e di intrusione sociale che, ove possibile, è meglio escludere dagli affari dei cittadini. È stato proprio il successo degli Stati sociali a economia mista – nel garantire la stabilità sociale e la smobilitazione ideologica che hanno reso possibile la prosperità dell’ultimo mezzo secolo – a indurre una nuova generazione a considerare quella stabilità e quell’acquiescenza ideologica un fatto scontato e a pretendere la rimozione dell’«intralcio» rappresentato dalla tassazione, dalla regolamentazione e in generale dall’interferenza statale. Questa dequalificazione del settore pubblico è diventata parte integrante del discorso politico in buona parte del mondo industrializzato.
Ma se ho ragione e le attuali circostanze non dureranno all’infinito, forse faremmo bene a riesaminare il modo in cui i nostri predecessori hanno risposto alle sfide politiche poste dall’incertezza economica nel ventesimo secolo. Potremmo scoprire, come loro, che la prestazione universale di servizi sociali e una certa limitazione delle disparità di reddito e ricchezza sono variabili economiche importanti di per sé, che creano la coesione pubblica e la fiducia politica necessarie per una prosperità duratura, e che soltanto lo Stato ha le risorse e l’autorità per prestare tali servizi e imporre tali limitazioni in nome della collettività.
Potremmo scoprire che una democrazia sana, lungi dall’essere minacciata dallo Stato normativo, in realtà dipende da esso: che in un mondo sempre più polarizzato tra individui insicuri e forze globali incontrollate, l’autorità legittima dello Stato democratico potrebbe essere la migliore istituzione intermedia che siamo in grado di concepire. Dopo tutto, qual è l’alternativa? Il nostro attuale culto della libertà economica sfrenata, associato a un accresciuto senso di paura e di insicurezza, sta portando a servizi sociali limitati e a una regolamentazione economica ridotta al minimo, accompagnati però da una vigilanza dello Stato sempre più capillare sulle comunicazioni, gli spostamenti e le opinioni delle persone. Un capitalismo «cinese», per così dire, in stile occidentale. È questo che vogliamo?
1 Questa non è certo un’affermazione originale. Come osservava alcuni anni fa il premio Nobel per l’economia James Tobin, «fu una schiera di pianificatori – Truman, Churchill, Keynes, Marshall, Acheson, Monnet, Schuman, MacArthur in Giappone – a rendere possibile con la loro lungimiranza il mondo prospero del dopoguerra». World Finance and Economic Stability: Selected Essays of James Tobin, Edward Elgar, Northampton (MA) 2003, p. 210.
2 Né si parla del «volto inaccettabile del capitalismo», come Edward Heath descrisse una generazione precedente di uomini d’affari internazionali super ricchi. È significativo che un presidente repubblicano, Theodore Roosevelt, e un primo ministro conservatore fossero più inclini a condannare gli eccessi del capitalismo dell’ex segretario al Lavoro del presidente Clinton.
3 Emma Rothschild, Economic Sentiments: Adam Smith, Condorcet and the Enlightenment, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2002, p. 250 [trad. it. di Giovanni Grussu, Sentimenti economici. Adam Smith, Condorcet e l’Illuminismo, Il Mulino, Bologna 2003, p. 10]. Come osserva Rothschild, l’«idea dell’universalità dei commerci è [più] indiscussa» oggi di quanto lo sia mai stata nel diciannovesimo o nel ventesimo secolo (p. 10).
4 William J. Baumol, Robert E. Litan e Carl J. Schramm, Good Capitalism, Bad Capitalism, and the Economics of Growth and Prosperity, Yale University Press, New Haven 2007, p. 230 [trad. it. di Nanni Negro, Capitalismo buono, capitalismo cattivo. L’imprenditorialità e i suoi nemici, Università Bocconi, Milano 2009, p. 245].
5 Fra i contributi recenti a questa annosa discussione si veda, in particolare, Avner Offer, The Challenge of Affluence, Oxford University Press, New York 2006, recensito sulla «New York Review of Books» l’11 ottobre 2007; e Benjamin Friedman, The Moral Consequences of Economic Growth, Knopf, 2005 [trad. it. di Nanni Negro e Sonia Cambursano, Il valore etico della crescita. Sviluppo economico e progresso civile, Università Bocconi, Milano 2006], recensito sulla «New York Review of Books» il 12 gennaio 2006; si veda anche Fred Hirsch, Social Limits to Growth, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1976 [trad. it. di Luciano Aleotti, I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano 1981], e il classico di John Kenneth Galbraith, The Affluent Society, Houghton Mifflin, Boston 1958 [trad. it. di G. Badiali, S. Cotta e P. Maranini, La società opulenta, Boringhieri, Torino 1969]. Come osserva Hirsch (p. 66, nota 19 [trad. it., pp. 207-208, nota 19]), per esempio, non è possibile stabilire se la ridistribuzione «distrugge la ricchezza» sulla base dei soli criteri economici. Dipende da ciò che costituisce la «ricchezza», cioè da ciò cui attribuiamo valore.
6 Si veda Robert Reich, The Next American Frontier: A Provocative Program for Economic Renewal, Viking, New York 1984 [trad. it. di M.G. Bellone e G. Barile, La nuova frontiera americana, Giuffré, Milano 1993].
7 T.H. Marshall, Value Problems of Welfare Capitalism, in «Journal of Social Policy», vol. 1, n. 1 (1972), pp. 19-20, citato in Neil Gilbert, Transformation of the Welfare State: The Silent Surrender of Public Responsibility, Oxford University Press, New York 2002, p. 135. Come conclude Gilbert, «le politiche interamente destinate a coltivare l’indipendenza e la responsabilità privata offrono scarse possibilità di condurre una vita di dipendenza dignitosa a chi potrebbe non essere in grado di lavorare».
8 Per farsi un’idea di come funziona la privatizzazione nel paese maggiormente esposto alle sue spoliazioni, si veda Christian Wolmar, On the Wrong Line: How Ideology and Incompetence Wrecked Britain’s Railways, Aurum, London 2005; e Allyson Pollock, NHS plc: The Privatisation of Our Health Care, Verso, Brooklyn (NY) 2004. Gordon Brown, il nuovo primo ministro britannico, di recente ha invitato alcune note aziende sanitarie americane che operano a scopo di lucro – tra cui Aetna e United HealthCare – a presentare offerte per la gestione delle attività ospedaliere in Gran Bretagna. Persino l’«Economist», difensore estremo del libero mercato, riconosce la stortezza della «privatizzazione»: commentando il fallimento della Metronet, una delle aziende che attualmente gestiscono la metropolitana di Londra, ha osservato che, dal momento che il governo ha «concesso a Metronet ‘centinaia di milioni di sterline’ per consentirle di svolgere il proprio lavoro, [...] saranno i contribuenti a dover pagare il conto». Si veda «The Economist», 21 luglio 2007.
9 Si veda Víctor Pérez-Díaz, Political Symbolisms in Liberal Democracies, ASP Research Papers, 67 (b) / 2007, p. 16.
10 Si veda, per esempio, Adam Smith, The Theory of Moral Sentiments [Teoria dei sentimenti morali] (1759). Si veda anche Daniel Bell, The Cultural Contradictions of Capitalism, Basic Books, New York 1976.
11 «Se non riusciremo a moderare gli eccessi di ricchezza generati dal mercato e perpetuati dall’eredità, la base consensuale dell’economia di mercato potrebbe non sopravvivere». Tobin, World Finance and Economic Stability, cit., p. 209. Per la «condizione favorevole inaugurale» si veda Hirsch, Social Limits to Growth, cit., p. 11 [trad. it., p. 21. Il ruolo decisivo delle istituzioni di coordinamento pubbliche nel creare le condizioni necessarie a garantire la stabilità dei mercati e la crescita economica è messo in evidenza anche nel recente studio del capitalismo europeo nel dopoguerra di Barry Eichengreen, The European Economy Since 1945: Coordinated Capitalism and Beyond, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2006 [trad. it. di Luca Fantacci, La nascita dell’economia europea. Dalla svolta del 1945 alla sfida dell’innovazione, Il Saggiatore, Milano 2009].
12 Albert O. Hirschman, Shifting Involvements: Private Interest and Public Action, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1982, 2002, p. 126 [corsivo aggiunto] [trad. it. di Joseph Sassoon, Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 150-151].
13 Bernard Williams, The Sense of the Past: Essays in the History of Philosophy, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2006, pp. 44-45 [trad. it. di Cesare De Marchi, Il senso del passato. Scritti di storia della filosofia, Feltrinelli, Milano 2009, p. 49]. Per quanto riguarda il quesito di Patočka, sono grato al dottor Jacques Rupnik per il suo saggio inedito The Legacy of Charter 77 and the Emergence of a European Public Space.
14 Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain in Oeuvres de Condorcet, VI, 191, citato in Rothschild, Economic Sentiments, cit., p. 201 [trad. it., p. 276].
15 John Maynard Keynes, The Economic Consequences of the Peace, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1920, capitolo 2: Europe Before the War [trad. it. di Franco Salvatorelli, Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano 2007, capitolo secondo, L’Europa anteguerra]. I miraggi economici non riguardano solo le capitali imperiali. Ecco come Ivo Andrić descrisse le illusioni ottimistiche dei suo connazionali bosniaci in quegli stessi tempi beati: «Erano quei tre decenni di relativo benessere e di apparente pace [...], quando molti [...] pensavano che si fosse trovata la formula infallibile per attuare il secolare sogno del pieno e felice sviluppo della personalità nella libertà e nel progresso, quando il secolo [...] dispiegava dinanzi agli occhi di milioni di uomini i molteplici e illusori suoi benefici e creava la propria fata morgana di comfort, di sicurezza e di felicità, per tutti e per ognuno, a prezzi accessibili e rateizzabili». Ivo Andrić , The Bridge on the Drina, University of Chicago Press, Chicago 1977, p. 173 [trad. it. dal serbo di Bruno Meriggi, Il ponte sulla Drina, Mondadori, Milano 2015, p. 218].
* Questo saggio – una recensione di Supercapitalism: The Transformation of Business, Democracy, and Everyday Life di Robert B. Reich, Knopf, New York 2007 [trad. it. di Thomas Fazi, Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, Fazi, Roma 2008] – è apparso per la prima volta nel dicembre 2007 sulla «New York Review of Books».