Capitolo
8
Una lobby, non una cospirazione*
Nel numero del 23 marzo 2006, la «London Review of Books», un’autorevole rivista britannica, ha pubblicato un articolo intitolato The Israel Lobby. Gli autori, due illustri accademici americani (Stephen Walt di Harvard e John Mearsheimer della University of Chicago), hanno pubblicato una versione più lunga (ottantatré pagine) del loro saggio sul sito Internet della Kennedy School di Harvard.
Come devono avere previsto, il saggio è stato salutato da una tempesta di vituperi e contestazioni. Secondo i critici, i due accademici avrebbero una cultura mediocre e le loro affermazioni, per citare l’editorialista Christopher Hitchens, «emanano un tenue, ma inequivocabile odore». L’odore in questione, com’è immaginabile, è quello dell’antisemitismo.
Questa reazione piuttosto isterica è deplorevole. A dispetto del titolo provocatorio, il saggio si basa su una grande varietà di fonti ordinarie e per la maggior parte è inconfutabile. Ma contiene due precise e importanti affermazioni. La prima è che l’appoggio acritico dato a Israele nel corso dei decenni non ha favorito gli interessi dell’America. È un’affermazione che si può discutere nel merito. La seconda affermazione degli autori è più controversa: le scelte di politica estera degli Stati Uniti, scrivono, per anni sono state falsate da un gruppo di pressione interno, la «lobby israeliana».
Quando si cerca di spiegare i comportamenti americani all’estero, alcuni preferiscono puntare il dito contro la «lobby dell’energia». O altri magari se la prendono con l’influenza dell’idealismo wilsoniano, o quel che rimane delle pratiche imperiali risalenti alla guerra fredda. Ma chiunque sappia come funziona Washington non può certo negare l’esistenza di una potente lobby israeliana. Il suo nucleo è costituito dall’Aipac, l’American Israel Public Affairs Committee, e attorno ad esso gravitano varie organizzazioni ebraiche nazionali.
La lobby israeliana incide sulle scelte americane di politica estera? Certo, è uno dei suoi obiettivi. E ha notevole successo: Israele è il maggiore beneficiario degli aiuti esteri americani e le reazioni degli Stati Uniti al comportamento di Israele sono quasi totalmente acritiche e favorevoli.
Ma le pressioni a favore di Israele alterano le decisioni americane? È una questione su cui riflettere. Eminenti leader israeliani e i loro sostenitori americani hanno esercitato enormi pressioni a favore dell’invasione dell’Iraq, ma probabilmente gli Stati Uniti oggi sarebbero in Iraq anche se non ci fosse stata una lobby israeliana. Israele, per citare Mearsheimer e Walt, è «un ostacolo alla guerra al terrorismo e allo sforzo più ampio di affrontare gli Stati canaglia»? Penso di sì, ma anche questa è una questione su cui si può discutere.
Il saggio e le questioni che solleva per la politica estera americana sono stati oggetto di minuzioso esame e importanti discussioni all’estero. In America, invece, è successo tutt’altro: i media tradizionali lo hanno praticamente ignorato. Perché? Esistono diverse spiegazioni plausibili. Una è che un saggio accademico relativamente oscuro interessa poco i lettori con interessi generici. Un’altra è che i discorsi sull’eccessiva influenza pubblica esercitata dagli ebrei non sono molto originali e il dibattito al riguardo inevitabilmente richiama l’attenzione degli estremisti politici. E poi c’è il parere secondo cui Washington in ogni caso è inondata da «lobby» del genere, che esercitano pressioni sui politici e influenzano le loro scelte.
Ciascuna di queste considerazioni potrebbe ragionevolmente giustificare l’iniziale indifferenza del giornalismo tradizionale nei riguardi del saggio di Mearsheimer e Walt. Ma non spiegano in maniera convincente il silenzio protratto anche dopo che l’articolo ha dato vita a un acceso dibattito nei circoli accademici, all’interno della comunità ebraica, sulle riviste di opinione, sui siti Internet e nel resto del mondo. Penso entri in gioco un altro elemento: la paura. La paura di dare l’impressione di legittimare le voci su una «cospirazione ebraica», la paura di essere considerati ostili a Israele e quindi, in definitiva, la paura di avallare le manifestazioni di antisemitismo.
Il risultato finale – il fatto che un’importante questione di politica pubblica non sia presa in considerazione – è una grave mancanza. Cosa importa, potreste ribattere, se gli europei discutono l’argomento con tanto entusiasmo? L’Europa non è forse un covo di antisionisti (si legga antisemiti) sempre pronti a cogliere la possibilità di attaccare Israele e i suoi amici americani? Ma è stato David Aaronovitch, un editorialista del «Times of London» che, pur criticando Mearsheimer e Walt, ha nondimeno ammesso: «comprendo il loro desiderio di raddrizzare la situazione, dato il bieco rifiuto di capire il dramma dei palestinesi negli Stati Uniti».
Ed è stato lo scrittore tedesco Christoph Bertram, amico di vecchia data degli Stati Uniti in un paese in cui ogni figura pubblica fa estrema attenzione a muoversi con cautela su questo terreno, a scrivere sulla «Zeit» che «è raro incontrare studiosi con il desiderio e il coraggio di rompere i tabù».
Come si spiega il fatto che è proprio in Israele che le questioni scomode sollevate dai professori Mearsheimer e Walt hanno avuto la più vasta diffusione? È stato un commentatore israeliano sul quotidiano progressista «Ha’aretz» a descrivere i consiglieri per la politica estera americana Richard Perle e Douglas Feith come uomini che «camminano sul filo del rasoio tra la lealtà nei confronti dei governi americani [...] e gli interessi israeliani». È stato il «Jerusalem Post», il quotidiano irreprensibilmente conservatore di Israele, a descrivere il vicesegretario della Difesa Paul Wolfowitz come «convinto filoisraeliano». Vogliamo accusare anche gli israeliani di essere «antisionisti»?
Il danno cagionato dalla paura americana dell’antisemitismo quando si parla di Israele è triplice. Nuoce agli ebrei: l’antisemitismo è abbastanza reale (ne so qualcosa, da ebreo cresciuto nell’Inghilterra degli anni Cinquanta), ma questo non è un motivo per confonderlo con le critiche politiche mosse a Israele o ai suoi sostenitori americani. Nuoce a Israele: garantendole un sostegno incondizionato, gli americani la incoraggiano ad agire senza curarsi delle conseguenze. Il giornalista israeliano Tom Segev ha definito «arrogante» il saggio di Mearsheimer e Walt, ma ha anche riconosciuto, mestamente: «Hanno ragione. Se gli Stati Uniti avessero salvato Israele da se stessa, oggi la vita sarebbe migliore [...] la lobby israeliana negli Stati Uniti danneggia i veri interessi di Israele».
Ma l’autocensura nuoce soprattutto agli Stati Uniti. Gli americani si privano della possibilità di prendere parte a un discorso internazionale in rapida evoluzione. Daniel Levy (un ex negoziatore di pace israeliano) ha scritto su «Ha’aretz» che il saggio di Mearsheimer e Walt dovrebbe fare aprire gli occhi, mostrare i danni che la lobby israeliana sta arrecando a entrambe le nazioni. Io mi spingerei oltre. Penso che questo saggio, scritto da due studiosi di scienze politiche «realisti» senza alcun interesse particolare per i palestinesi, sia un segno premonitore.
Guardandoci alle spalle, vedremo la guerra in Iraq e le sue conseguenze catastrofiche non come l’inizio di una nuova era democratica in Medio Oriente, ma come la fine di un’era cominciata all’indomani della guerra del 1967, un periodo durante il quale l’allineamento degli Stati Uniti con lo Stato israeliano era dettato da due imperativi: i calcoli strategici della guerra fredda e una nuova sensibilità nazionale per il ricordo dell’Olocausto e il debito nei confronti delle vittime e dei sopravvissuti.
I termini del dibattito strategico stanno cambiando. Giorno dopo giorno l’Estremo Oriente acquista maggiore importanza. Nel frattempo la nostra goffa incapacità di riconfigurare il Medio Oriente – e le sue implicazioni durature per la posizione degli Stati Uniti nella regione – è sotto i riflettori. L’influenza americana in quella parte del mondo ora poggia quasi esclusivamente sulla nostra capacità di muovere guerra, e questo in fin dei conti significa non avere alcuna influenza. Forse, soprattutto, si sta concludendo il ciclo della memoria vivente dell’Olocausto. Agli occhi del mondo, il fatto che la bisnonna di un soldato israeliano sia morta a Treblinka non giustificherà il comportamento di quel soldato.
Di conseguenza, per le future generazioni di americani, il motivo per cui la potenza imperiale e il prestigio internazionale degli Stati Uniti sono strettamente allineati a un piccolo e controverso Stato satellite del Mediterraneo non sarà ovvio. Già oggi non lo è affatto per gli europei, i latino-americani, gli africani e gli asiatici. Perché, chiedono, l’America ha scelto di perdere il contatto con il resto della comunità internazionale su questa vicenda? Le implicazioni della domanda possono anche non piacere agli americani. Ma la questione è pressante. Incide direttamente sulla nostra posizione e il nostro prestigio internazionale, e non ha niente a che vedere con l’antisemitismo. Non possiamo ignorarla.
* Questa risposta alla pubblicazione di The Israel Lobby, di John Mearsheimer e Stephen Walt, sulla «London Review of Books» è stata pubblicata per la prima volta nell’aprile del 2006 sul «New York Times».