Capitolo
24
Che cosa è vivo e che cosa è morto
nella socialdemocrazia?*
Gli americani vorrebbero che le cose andassero meglio. Secondo i sondaggi d’opinione condotti negli ultimi anni, tutti vorrebbero che i propri figli avessero più probabilità di sopravvivere alla nascita. Sarebbero più contenti se le loro mogli o figlie avessero le stesse chance delle donne degli altri paesi avanzati di superare indenni il parto e apprezzerebbero una copertura sanitaria completa a costi inferiori, una speranza di vita più lunga, servizi pubblici migliori e meno criminalità.
Se però si sentono dire che tutte queste cose si possono avere in Austria, in Scandinavia e nei Paesi Bassi, ma come contropartita di tasse più elevate e di uno Stato «interventista», molti di quegli stessi americani rispondono: «Ma quello è socialismo! Noi non vogliamo che lo Stato si intrometta nei nostri affari. E soprattutto non vogliamo pagare più tasse».
Questa curiosa dissonanza cognitiva non è nuova. Un secolo fa, il sociologo tedesco Werner Sombart notoriamente si chiedeva: Perché in America non c’è il socialismo? Ci sono molte risposte a questa domanda. Alcune hanno a che fare con la vastità del paese: è difficile organizzare e mantenere finalità comuni su scala imperiale. Ci sono anche, com’è ovvio, i fattori culturali, non ultima la diffidenza tipicamente americana nei confronti del governo centrale.
In effetti, non è un caso che la socialdemocrazia e lo Stato sociale abbiano funzionato meglio in paesi omogenei e di piccole dimensioni, dove i problemi di sfiducia e diffidenza reciproca non emergono in maniera altrettanto acuta. La disponibilità a pagare per i servizi e i benefici offerti ad altre persone si basa sul presupposto che le altre persone, a loro volta, lo faranno per noi e per i nostri figli: perché sono come noi e vedono il mondo come lo vediamo noi.
Al contrario, là dove l’immigrazione e le minoranze visibili hanno alterato la demografia di un paese, di solito si riscontra una maggiore diffidenza verso gli altri e un minore entusiasmo per le istituzioni dello Stato sociale. Infine, è innegabile che la socialdemocrazia e lo Stato sociale oggi debbano affrontare gravi difficoltà pratiche. La loro sopravvivenza non è in discussione, ma non sono più solidi come un tempo apparivano.
Quel che mi interessa esaminare in questa sede, però, è: perché negli Stati Uniti abbiamo grandi difficoltà anche solo a immaginare un tipo di società diverso da quello che presenta le disfunzioni e le disparità che tanto ci inquietano? A quanto pare, abbiamo perso la capacità di mettere in discussione il presente, e ancor più di proporre alternative. Perché non riusciamo a concepire un assetto diverso, che sia vantaggioso per tutti?
La nostra lacuna, perdonate il gergo accademico, è discorsiva. Semplicemente non sappiamo come parlare di queste cose. Per capire il motivo di questa incapacità, bisogna interrogare la storia; come osservò Keynes: «Uno studio della storia del pensiero è premessa necessaria all’emancipazione della mente». Ai fini dell’emancipazione mentale, propongo un breve excursus sulla storia di un pregiudizio: l’adozione universale dell’«economismo» nella società moderna, il ruolo centrale dell’economia in ogni discussione riguardante gli affari pubblici.
Negli ultimi trent’anni, in quasi tutto il mondo anglofono (e in minor misura nell’Europa continentale e altrove), ogni volta che abbiamo valutato se sostenere o no una certa proposta o iniziativa, non ci siamo chiesti se fosse buona o cattiva. Ciò che ci chiediamo, invece, è se sia efficiente. Se sia produttiva. Se gioverà al prodotto interno lordo. Se favorirà la crescita. Questa tendenza a evitare le considerazioni di carattere morale, a limitarsi agli aspetti relativi ai profitti e alle perdite – alle questioni economiche nel senso più stretto – non è una condizione umana istintiva. È un gusto acquisito.
Non è una novità. Nel 1905 il giovane William Beveridge – il cui rapporto del 1942 avrebbe gettato le basi dello Stato sociale britannico – tenne una conferenza a Oxford nella quale si interrogava sul perché, nel dibattito pubblico, la filosofia politica fosse stata oscurata dall’economia classica. La domanda di Beveridge ha conservato tutta la sua validità, sebbene questa eclissi del pensiero politico non abbia alcun rapporto con le teorie dei grandi economisti classici. Nel diciottesimo secolo, quelli che Adam Smith chiamava «sentimenti morali» ricevevano attenzione prioritaria nei discorsi economici.
Anzi, l’idea di poter limitare le considerazioni di politica pubblica al puro calcolo economico era già allora fonte di preoccupazione. Il marchese di Condorcet, uno fra i più acuti osservatori del capitalismo commerciale agli esordi, prevedeva con disgusto che «la libertà altro non sia, agli occhi di una nazione avida, che la condizione per la sicurezza delle operazioni finanziarie». Le rivoluzioni dell’epoca rischiavano di favorire una confusione tra la libertà di fare soldi... e la libertà stessa. Ma come siamo giunti, nella nostra epoca, a ragionare esclusivamente in termini economici? La predilezione per un linguaggio economico anemico non è sbucata fuori dal nulla.
Al contrario, viviamo nell’ombra lunga di un dibattito con il quale la maggior parte della gente non ha alcuna familiarità. Se ci chiedessimo chi abbia esercitato la maggiore influenza sul pensiero economico anglofono contemporaneo, penseremmo a cinque pensatori nati altrove: Ludwig von Mises, Friedrich Hayek, Joseph Schumpeter, Karl Popper e Peter Drucker. I primi due sono stati gli eminenti «patriarchi» della scuola di Chicago di macroeconomia del libero mercato. Schumpeter è noto soprattutto per la sua descrizione entusiastica delle forze «creatrici e distruttrici» del capitalismo, Popper per la sua difesa della «società aperta» e la sua teoria del totalitarismo. Quanto a Drucker, i suoi scritti in materia di gestione hanno esercitato un’enorme influenza sulla teoria e sulla pratica dell’attività imprenditoriale nei prosperi decenni del boom economico postbellico.
Tre di questi studiosi erano nati a Vienna, il quarto (Mises) nella Leopoli austriaca e il quinto (Schumpeter) in Moravia, poche decine di chilometri a nord della capitale imperiale. Tutti e cinque rimasero profondamente scossi dalla catastrofe che aveva colpito la nativa Austria nel periodo tra le due guerre. In seguito al cataclisma della prima guerra mondiale e a un breve esperimento di socialismo municipale a Vienna, il paese fu travolto da un colpo di Stato reazionario nel 1934 e poi, quattro anni dopo, dall’invasione e dall’occupazione nazista.
Questi eventi costrinsero i cinque studiosi all’esilio e tutti – Hayek in particolare – avrebbero poi elaborato i propri scritti e insegnamenti intorno alla questione al centro della loro vita: perché la società liberale era crollata e aveva lasciato il posto, almeno nel caso austriaco, al fascismo? La loro spiegazione era che i tentativi infruttuosi della sinistra (marxista) di introdurre nell’Austria postbellica la pianificazione statale, i servizi municipalizzati e l’attività economica collettivizzata non solo si erano rivelati deludenti, ma erano stati la causa diretta di una reazione contraria.
La tragedia europea era stata dunque provocata dall’incapacità della sinistra: prima, di conseguire i suoi obiettivi e poi, di difendere se stessa e il suo patrimonio liberale. Ognuno di loro, sebbene in chiavi contrastanti, trasse la stessa conclusione: il modo migliore di difendere il liberalismo, la migliore difesa per una società aperta e le libertà che l’accompagnano, era tenere il governo ben lontano dalla vita economica. Se lo Stato fosse stato tenuto a distanza di sicurezza, se ai politici – per quanto animati da buone intenzioni – fosse stato impedito di pianificare, manipolare o dirigere gli affari dei loro concittadini, sarebbe stato possibile tenere a bada gli estremisti, sia di destra sia di sinistra.
La stessa sfida – comprendere che cosa era successo tra le guerre e impedirne il ripetersi – fu affrontata da John Maynard Keynes. Il grande economista inglese, nato nel 1883 (come Schumpeter), era cresciuto in una Gran Bretagna stabile, sicura, prospera e potente. Poi, dal suo punto di osservazione privilegiato al ministero del Tesoro e come delegato del governo ai negoziati di pace di Versailles, vide il proprio mondo crollare, assieme a tutte le rassicuranti certezze della cultura e della classe cui apparteneva. Anche Keynes si sarebbe posto la domanda che si erano fatti Hayek e i suoi colleghi austriaci. Ma propose una risposta assai diversa.
Keynes riconosceva che la dissoluzione dell’Europa tardo vittoriana era stata l’esperienza decisiva della sua epoca. In effetti, il suo contributo alla teoria economica era, in sostanza, l’insistenza sul problema dell’incertezza: in contrasto con la panacea ottimista propinata dall’economia classica e neoclassica, Keynes dava risalto alla fondamentale imprevedibilità delle vicende umane. Se c’era una lezione da trarre dalla depressione, dal fascismo e dalla guerra, era questa: l’incertezza, elevata a livello di insicurezza e di paura collettiva, era la forza corrosiva che aveva minacciato e avrebbe potuto minacciare di nuovo il mondo liberale.
Keynes auspicava quindi un ruolo più incisivo dello Stato assistenziale, compreso, ma non solo, l’intervento economico in funzione anticiclica. Hayek proponeva il contrario. Nel suo classico del 1944, La via della schiavitù, scriveva:
Nessuna descrizione in termini generali può dare un’idea adeguata della somiglianza di gran parte della letteratura politica in Inghilterra con le opere che distrussero in Germania la fede nella civiltà occidentale e crearono l’ambiente ideale in cui il nazismo ha potuto avere successo.
In altre parole, Hayek prefigurava esplicitamente un esito fascista qualora i laburisti avessero conquistato il potere in Gran Bretagna. In effetti, i laburisti vinsero. Ma continuarono ad attuare politiche che in buona parte venivano identificate direttamente con Keynes. Per i trent’anni successivi, la Gran Bretagna (come gran parte del mondo occidentale) fu governata sulla base delle preoccupazioni di Keynes.
In seguito, come sappiamo, gli austriaci si sono presi la loro rivincita. Il motivo preciso per cui ciò sia accaduto – e sia accaduto in certi paesi – è una questione interessante che esamineremo in un’altra occasione. Ma qualunque sia stato il motivo, oggi viviamo nella tenue eco – come la luce di una stella che si sta spegnendo – di un dibattito condotto settant’anni fa da uomini nati quasi tutti alla fine del diciannovesimo secolo. Certo, i termini economici in cui siamo incoraggiati a pensare non sono tradizionalmente associati a queste lontane divergenze politiche. Eppure, se le ignoriamo, è come se parlassimo una lingua della quale non abbiamo piena padronanza.
Lo Stato sociale poteva vantare notevoli risultati. In alcuni paesi era socialdemocratico, fondato su un programma ambizioso di legislazione socialista; in altri – per esempio in Gran Bretagna – consisteva in una serie di politiche pragmatiche volte ad alleviare gli svantaggi e a contenere i livelli estremi di ricchezza e di indigenza. Il tema comune e il risultato universale dei governi neo-keynesiani del dopoguerra era il notevole successo ottenuto nel ridurre la disuguaglianza. Se confrontiamo il divario fra ricchi e poveri, in base al reddito o al patrimonio, vedremo che in tutti i paesi dell’Europa continentale, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si riduce drasticamente nella generazione successiva al 1945.
La maggiore uguaglianza era accompagnata da altri benefici. Col tempo, la paura di un ritorno dell’estremismo politico – la politica della disperazione, la politica dell’invidia, la politica dell’insicurezza – si attenuò. Il mondo occidentale industrializzato entrò in un’epoca felice di prospera sicurezza: una bolla, forse, ma una bolla confortevole in cui la maggior parte delle persone se la passava molto meglio di quanto potesse mai aver sperato in passato e aveva buone ragioni per guardare al futuro con fiducia.
Il paradosso dello Stato sociale, e in realtà di tutti gli Stati socialdemocratici (e democratico-cristiani) d’Europa, era, molto semplicemente, che il loro successo nel corso del tempo ne avrebbe indebolito l’attrattiva. Per ragioni comprensibili, la generazione che ricordava gli anni Trenta era quella più impegnata a preservare le istituzioni e i sistemi di tassazione, i servizi sociali e la previdenza pubblica, che vedeva come baluardi contro un ritorno agli orrori del passato. Ma quella successiva – persino in Svezia – cominciò a dimenticare perché, innanzitutto, si era cercato di garantire tale sicurezza.
Fu la socialdemocrazia a saldare il legame tra i ceti medi e le istituzioni liberali (uso qui «ceti medi» nel senso europeo). In molti casi beneficiavano della stessa assistenza e degli stessi servizi sociali offerti ai poveri: istruzione gratuita, cure mediche gratuite o poco costose, pensioni pubbliche, e così via. Di conseguenza la classe media, negli anni Sessanta, si ritrovò con un reddito disponibile di gran lunga superiore a quello di qualsiasi periodo precedente, con tantissime necessità della vita pagate in anticipo sotto forma di tasse. Così, quella stessa classe sociale che era stata tanto esposta alla paura e all’insicurezza negli anni interbellici adesso era stabilmente integrata nel consenso democratico del dopoguerra.
Alla fine degli anni Settanta, tuttavia, queste considerazioni venivano sempre più trascurate. A partire dalle riforme fiscali e del lavoro introdotte nel periodo Thatcher-Reagan, seguite a distanza ravvicinata dalla deregolamentazione del settore finanziario, la disuguaglianza è tornata a essere un problema nella società occidentale. Dopo il notevole calo registrato tra gli anni Dieci e gli anni Settanta del Novecento, negli ultimi tre decenni l’indice di disuguaglianza è sistematicamente aumentato.
Oggi negli Stati Uniti il «coefficiente di Gini» (che misura il divario tra ricchi e poveri) è paragonabile a quello della Cina1. Se consideriamo che la Cina è un paese in via di sviluppo, dove è inevitabile che si aprano ampi divari tra i pochi ricchi e i numerosi poveri, il fatto che negli Stati Uniti si registri un coefficiente di diseguaglianza simile la dice lunga su quanto siamo rimasti indietro rispetto alle nostre aspirazioni iniziali.
Pensiamo alla legge del 1996 sulla «responsabilità personale e le opportunità lavorative» (un titolo più orwelliano di così sarebbe difficile da immaginare), la legge dell’amministrazione Clinton che cercò di demolire il sistema del welfare negli Stati Uniti. Le disposizioni di questo provvedimento richiamano alla mente un’altra legge, approvata in Inghilterra quasi due secoli prima: la New Poor Law del 1834, della quale conosciamo bene i meccanismi grazie alla descrizione fornita da Charles Dickens in Oliver Twist. Quando Noah Claypole sbeffeggia il piccolo Oliver chiamandolo Work’us («Workhouse»), sottintende, nel 1838, precisamente lo stesso messaggio che si trasmette oggi in America quando si parla sprezzantemente di welfare queens.
La New Poor Law era un abominio che costringeva gli indigenti e i disoccupati a scegliere tra lavorare in cambio di qualsiasi salario, non importa quanto fosse basso, e l’umiliazione dell’ospizio per poveri. In questo caso, come in gran parte delle altre forme di assistenza pubblica del diciannovesimo secolo (ancora considerate e definite «carità»), il livello degli aiuti e del sostegno era calibrato in modo da essere meno allettante della peggiore alternativa disponibile. Il sistema si ispirava alle teorie economiche classiche che negavano la possibilità stessa della disoccupazione in un mercato efficiente: se i salari fossero scesi a sufficienza e non fossero state offerte alternative interessanti al lavoro, tutti avrebbero trovato un impiego.
Per i centocinquant’anni successivi, i riformatori cercarono di raddrizzare queste pratiche degradanti. Col tempo, la New Poor Law e le leggi analoghe di altri paesi furono sostituite dall’offerta di assistenza pubblica intesa come un diritto. Chi non aveva un lavoro non era più considerato un cittadino indegno, non era criminalizzato per la sua condizione di disoccupato, né implicitamente denigrato per mettere in dubbio la sua piena appartenenza alla società. Più di ogni altra cosa, lo Stato sociale della metà del ventesimo secolo decretò che definire lo status civico di un individuo in funzione della sua partecipazione all’economia era una vera e propria indecenza.
Negli odierni Stati Uniti, in un periodo in cui la disoccupazione è in crescita, un uomo o una donna senza lavoro non sono membri a pieno titolo della comunità. Anche solo per ricevere gli esigui assegni assistenziali disponibili, devono prima aver cercato e accettato, se sono riusciti a trovarla, un’occupazione a qualsiasi salario offerto, non importa quanto bassa sia la paga e disgustoso il lavoro. Soltanto in questo caso hanno diritto all’attenzione e all’assistenza da parte dei loro concittadini.
Perché pochissimi di noi condannano queste «riforme», attuate sotto un presidente democratico? Perché il marchio d’infamia affibbiato alle loro vittime non ci commuove? Lungi dal mettere in discussione questo ritorno alle pratiche del primo capitalismo industriale, ci siamo adattati fin troppo bene, esprimendo così il nostro tacito assenso, in eloquente contrasto con una generazione precedente. Del resto, come ci ricorda Tolstoj, non esistono «condizioni di vita alle quali un uomo non può abituarsi, soprattutto se vede che tutti attorno a lui le accettano».
Questa «disposizione ad ammirare e quasi a venerare il ricco e il potente, e a disprezzare – o almeno a trascurare – le persone di condizione povera e umile [...] è [...] la grande causa universale di corruzione dei nostri sentimenti morali». Queste parole non sono mie. Sono state scritte da Adam Smith, secondo il quale la probabilità che avremmo finito per ammirare la ricchezza e disprezzare la povertà, esaltare il successo e aborrire il fallimento, era il più grande rischio cui saremmo andati incontro nella società commerciale della quale preannunciava l’avvento. Ora incombe su di noi.
L’esempio più significativo del tipo di problema con cui ci confrontiamo oggi si presenta in una forma che molti potrebbero considerare un semplice tecnicismo: il processo di privatizzazione. Negli ultimi trent’anni, il culto della privatizzazione ha estasiato i governi occidentali (e molti governi non occidentali). Perché? La risposta più breve è che, in un periodo di vincoli di bilancio, la privatizzazione apparentemente permette di risparmiare denaro. Se lo Stato possiede e gestisce un programma pubblico inefficiente o un servizio pubblico costoso (un acquedotto, una fabbrica automobilistica o una ferrovia), cerca di scaricarlo su acquirenti privati.
La cessione permette allo Stato di incassare denaro e, al contempo, il servizio o l’attività in questione, entrando a far parte del settore privato, diventa più efficiente grazie all’incentivo del profitto. Tutti ci guadagnano: il servizio migliora, lo Stato si libera di una responsabilità inopportuna e mal gestita, gli investitori realizzano profitti e il settore pubblico ricava un guadagno una tantum dalla vendita.
Questa è la teoria. La pratica è ben diversa. In questi ultimi decenni abbiamo assistito al sistematico trasferimento di responsabilità pubbliche al settore privato, senza alcun vantaggio evidente per la collettività. Innanzitutto, la privatizzazione è inefficiente. Quasi tutte le cose che i governi hanno ritenuto opportuno trasferire al settore privato operavano in perdita: che siano compagnie ferroviarie, miniere di carbone, servizi postali o società elettriche, i costi di esercizio e di manutenzione sono superiori agli introiti che possano mai sperare di ottenere.
Proprio per questo motivo, tali beni pubblici risultavano poco interessanti per gli acquirenti privati, a meno di offrirli a prezzi fortemente scontati. Ma quando lo Stato svende i propri beni, è la collettività a subire una perdita. È stato calcolato che, nelle privatizzazioni realizzate nel Regno Unito durante l’era Thatcher, il prezzo intenzionalmente basso al quale attività che lo Stato possedeva da lungo tempo sono state immesse sul mercato e cedute al settore privato si è tradotto in un trasferimento netto di 14 miliardi di sterline dai contribuenti agli azionisti e agli altri investitori.
A questa perdita vanno aggiunti altri tre miliardi di sterline in commissioni versate alle banche che si sono occupate delle transazioni. Lo Stato, dunque, ha di fatto trasferito al settore privato circa 17 miliardi di sterline (30 miliardi di dollari) per facilitare la vendita di attività per le quali altrimenti non avrebbe trovato compratori. Sono somme importanti, più o meno equivalenti ai fondi in dotazione alla Harvard University, per esempio, o al prodotto interno lordo del Paraguay o della Bosnia-Erzegovina2. Queste operazioni non possono certo essere considerate un uso efficiente delle risorse pubbliche.
In secondo luogo, si presenta il problema dell’azzardo morale. L’unico motivo per cui gli investitori privati sono disposti ad acquistare beni pubblici chiaramente inefficienti è che lo Stato riduce o elimina la loro esposizione al rischio. Nel caso della metropolitana di Londra, per esempio, era stato garantito alle società acquirenti che, qualsiasi cosa fosse successa, non avrebbero subìto perdite gravi (facendo così venire meno la giustificazione economica classica della privatizzazione, cioè che l’incentivo del profitto favorisce l’efficienza). L’«azzardo» in questione è che il settore privato, in queste condizioni privilegiate, si dimostri almeno altrettanto inefficiente della sua controparte pubblica e intanto intaschi gli eventuali profitti realizzati e addebiti le perdite allo Stato.
Il terzo argomento, e forse il più efficace, contro la privatizzazione è il seguente. Non ci sono dubbi sul fatto che molti beni e servizi che lo Stato cerca di dismettere siano stati gestiti male: in maniera incompetente, senza investimenti adeguati e così via. Ciononostante, per quanto mal gestiti, i servizi postali, le reti ferroviarie, le case di riposo, le carceri e altre attività destinate alla privatizzazione restano sotto la responsabilità delle autorità pubbliche. Anche dopo essere state cedute, non possono essere totalmente abbandonate ai capricci del mercato. Sono, per loro stessa natura, un tipo di attività che qualcuno deve regolamentare.
Questo trasferimento semiprivato e semipubblico di responsabilità essenzialmente collettive ci riporta a una storia davvero molto vecchia. Oggi, negli Stati Uniti, se una dichiarazione dei redditi è sottoposta a verifica, sebbene sia lo Stato ad avere deciso di effettuare i controlli, con ogni probabilità la verifica vera e propria sarà eseguita da una società privata, che ha vinto l’appalto per svolgere il servizio per conto dello Stato, più o meno come gli agenti privati ai quali Washington appalta la fornitura (a scopo di lucro) di servizi di sicurezza, trasporto e competenze tecniche in Iraq e altrove. In modo simile, il governo britannico oggi appalta a imprenditori privati la fornitura di servizi di cura residenziale per anziani, una responsabilità che un tempo era sotto il controllo dello Stato.
I governi, in breve, affidano le loro responsabilità ad aziende private che promettono di amministrarle meglio dello Stato e a costi inferiori. Nel diciottesimo secolo questa pratica riguardava la riscossione delle imposte. I primi governi dell’era moderna spesso non disponevano dei mezzi per riscuotere le tasse e quindi invitavano i singoli individui a presentare offerte per assumere tale compito. Il migliore offerente otteneva l’incarico e, una volta versato l’importo pattuito, era libero di riscuotere quanto riusciva e di conservare i proventi. Lo Stato accettava quindi di incassare un gettito fiscale inferiore al previsto in cambio di una liquidità immediata.
Dopo la caduta della monarchia in Francia, quasi tutti riconobbero che appaltare la riscossione delle imposte era un metodo grottesco e inefficiente. Primo, scredita lo Stato, che agli occhi della popolazione si presenta come un avido profittatore privato. Secondo, genera entrate notevolmente inferiori rispetto a un sistema di riscossione pubblico amministrato in modo efficiente, se non altro perché l’esattore privato deve avere il proprio margine di guadagno. Terzo, crea malcontento tra i contribuenti.
Oggi negli Stati Uniti abbiamo uno Stato screditato e risorse pubbliche inadeguate. Curiosamente, non abbiamo contribuenti scontenti o, perlomeno, di solito sono scontenti per i motivi sbagliati. Ad ogni modo, il problema che ci siamo attirati addosso è sostanzialmente analogo a quello con cui si cimentava l’ancien régime.
Come nel diciottesimo secolo, così oggi: svuotando lo Stato delle sue responsabilità e capacità, ne abbiamo indebolito l’immagine pubblica. Il risultato è la «gated community», la comunità recintata, in ogni senso del termine: sottogruppi della società che si illudono di essere funzionalmente indipendenti dalla collettività e dai funzionari statali. Se operiamo esclusivamente o in misura preponderante con organismi privati, nel corso del tempo allentiamo i nostri rapporti con un settore pubblico del quale apparentemente non sappiamo cosa farcene. Non è molto importante che il settore privato faccia le stesse cose meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, la nostra lealtà verso lo Stato si attenua e perdiamo qualcosa di vitale che dovremmo condividere – e che in molti casi un tempo condividevamo – con i nostri concittadini.
Questo processo è stato ben descritto da una grande esperta moderna in materia: Margaret Thatcher, la quale, stando a quel che si dice, avrebbe affermato che «non esiste una cosa chiamata società. Esistono solo singoli uomini e donne e le famiglie». Ma se non esiste una cosa chiamata società, soltanto gli individui e lo Stato in veste di «custode notturno», che controlla a distanza attività nelle quali non svolge alcun ruolo, che cosa ci legherà gli uni agli altri? Accettiamo già l’esistenza di forze di polizia private, servizi postali privati, agenzie private che forniscono servizi allo Stato in guerra e molto altro. Abbiamo «privatizzato» proprio quelle responsabilità che lo Stato moderno si era laboriosamente assunto nel corso del diciannovesimo secolo e della prima metà del ventesimo.
Che cosa, dunque, farà da ammortizzatore tra i cittadini e lo Stato? Di sicuro non la «società», che fa fatica a sopravvivere allo svuotamento della sfera pubblica. Ma lo Stato non sta per scomparire. Anche se lo spogliamo di tutti i suoi attributi di erogatore di servizi, continuerà a esistere, se non altro come forza di controllo e repressione. Tra lo Stato e gli individui non ci sarebbero più istituzioni o lealtà intermedie: nulla rimarrebbe della fitta rete di servizi e di obblighi reciproci che legano i cittadini gli uni agli altri attraverso lo spazio pubblico che occupano collettivamente. Rimarrebbero soltanto singoli individui e aziende in competizione fra loro che cercano di dirottare lo Stato a proprio favore.
Le conseguenze non sono più invitanti oggi di quanto lo fossero prima della nascita dello Stato moderno. In effetti, lo slancio verso la costruzione dello Stato così come lo abbiamo conosciuto scaturiva direttamente dalla comprensione che nessun gruppo di individui può sopravvivere a lungo senza finalità condivise e istituzioni comuni. L’idea stessa che il vantaggio privato potesse moltiplicarsi a beneficio della collettività appariva già manifestamente assurda ai critici liberali del capitalismo industriale nascente. Per citare le parole di John Stuart Mill, «ripugna essenzialmente l’idea di una società in cui tutti i servigi si pagano, e di cui tutte le relazioni e i sentimenti non nascono che da pecuniario interesse».
Che fare, dunque? Dobbiamo partire dallo Stato quale incarnazione degli interessi collettivi, delle finalità collettive e dei beni collettivi. Se non impareremo a «ripensare lo Stato», non andremo molto lontano. Ma che cosa dovrebbe fare esattamente lo Stato? Come minimo, dovrebbe evitare inutili duplicazioni; come scrisse Keynes: «La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto». E, dall’amara esperienza del secolo scorso, sappiamo che ci sono cose che gli Stati sicuramente non devono fare.
La narrazione dello Stato progressista del ventesimo secolo poggiava precariamente sulla presunzione che «noi» – riformatori, socialisti, radicali – avessimo la Storia dalla nostra parte: che i nostri progetti, nelle parole dello scomparso Bernard Williams, fossero «esaltat[i] dall’universo»3. Oggi non abbiamo una storia altrettanto rassicurante da raccontare. Siamo appena sopravvissuti a un secolo di dottrine che pretendevano con allarmante sicurezza di stabilire ciò che lo Stato dovesse fare, ricordando agli individui – con la forza, se necessario – che lo Stato sapeva cosa fosse meglio per loro. Non possiamo tornare a tutto questo. Perciò, se vogliamo «ripensare lo Stato», faremmo bene a cominciare prendendo atto dei suoi limiti.
Per motivi analoghi, sarebbe inutile riesumare la retorica socialdemocratica dell’inizio del ventesimo secolo. In quegli anni, la sinistra democratica emergeva come alternativa ai filoni più intransigenti del socialismo marxista rivoluzionario e – negli anni successivi – al loro successore, il comunismo. Insita nella socialdemocrazia c’era quindi una curiosa schizofrenia. Mentre marciava con fiducia verso un futuro migliore, continuava a lanciare occhiate nervose dietro la spalla sinistra. Noi, sembrava dire, non siamo autoritari. Noi siamo favorevoli alla libertà, non alla repressione. Noi siamo democratici che credono anche nella giustizia sociale, nei mercati regolamentati e via dicendo.
Finché l’obiettivo primario dei socialdemocratici era convincere gli elettori che rappresentavano una scelta radicale rispettabile all’interno della società liberale, questa posizione difensiva aveva senso. Oggi però quella retorica è incoerente. Non è un caso che Angela Merkel, democratico-cristiana, possa vincere le elezioni in Germania contro i rivali socialdemocratici – persino all’apice di una crisi finanziaria – con un insieme di politiche che ricalca, in tutti i suoi elementi essenziali, il loro stesso programma.
La socialdemocrazia, in una forma o nell’altra, è la prosa della politica europea contemporanea. Pochissimi politici in Europa, e di sicuro ancora meno fra quelli in posizioni di potere, dissentirebbero dagli assunti di fondo della socialdemocrazia riguardo ai compiti dello Stato, a prescindere da quanto marcate possano essere le differenze circa la loro ampiezza. Di conseguenza, i socialdemocratici nell’Europa di oggi non hanno nulla di particolare da offrire: in Francia, per esempio, nemmeno la loro tendenza impulsiva a privilegiare la proprietà pubblica riesce a distinguerli dagli istinti colbertiani della destra gollista. La socialdemocrazia deve riconsiderare le proprie finalità.
Il problema non è nelle politiche socialdemocratiche, ma nel linguaggio in cui sono formulate. Da quando la sfida autoritaria da sinistra è venuta meno, dare risalto alla «democrazia» è quasi sempre superfluo. Oggi siamo tutti democratici. Ma «sociale» ha ancora un significato, oggi forse più di qualche decennio fa, quando il ruolo del settore pubblico era inconfutabilmente riconosciuto da tutte le parti. Che cosa c’è di particolare, dunque, riguardo alla sfera «sociale», nell’approccio socialdemocratico?
Immaginiamo una stazione ferroviaria. Una vera stazione ferroviaria, non la Pennsylvania Station di New York: un centro commerciale fallito degli anni Sessanta, piazzato sopra un deposito di carbone. Intendo qualcosa tipo Waterloo Station a Londra, la Gare de l’Est a Parigi, la spettacolare Victoria Terminus di Bombay, o la nuova, imponente Hauptbahnhof di Berlino. In queste straordinarie cattedrali della vita moderna, il settore privato svolge perfettamente il proprio ruolo: in fondo non c’è alcun motivo per cui le edicole o i bar debbano essere gestiti dallo Stato. Chiunque ricordi i panini rinsecchiti, avvolti nella plastica, dei bar delle ferrovie britanniche riconoscerà che in questo ambito la concorrenza va incoraggiata.
Ma non si possono gestire i treni secondo le regole della concorrenza. Le ferrovie, come l’agricoltura o le poste, sono al contempo un’attività economica e un bene pubblico essenziale. Inoltre, è impossibile rendere più efficiente un sistema ferroviario facendo viaggiare due treni sullo stesso binario e aspettando di vedere quale offra le migliori prestazioni: le ferrovie sono un monopolio naturale. Senza alcun motivo plausibile, gli inglesi hanno addirittura introdotto questo tipo di concorrenza tra i servizi di autobus. Ma il paradosso dei trasporti pubblici è che, naturalmente, meglio funzionano, meno «efficienti» possono essere.
Un autobus che offre un servizio espresso per chi può permetterselo ed evita i paesini sperduti, dove a salire a bordo sarebbe solo un pensionato ogni tanto, farà guadagnare più soldi al suo proprietario. Ma qualcuno – lo Stato o il comune locale – dovrà comunque garantire il servizio locale, non redditizio e inefficiente. In caso contrario, i benefici economici ottenuti nel breve periodo riducendo l’offerta avranno come contrappeso il danno duraturo inflitto alla comunità nel suo insieme. È quindi prevedibile che le conseguenze dei servizi di autobus «competitivi» (tranne a Londra, dove la domanda è più che abbondante) siano un incremento dei costi a carico del settore pubblico, un drastico aumento delle tariffe fino al massimo livello sostenibile per il mercato e profitti interessanti per le società di servizi di trasporto espresso.
I treni, come gli autobus, sono soprattutto un servizio sociale. Chiunque sarebbe in grado di gestire una linea ferroviaria redditizia, se tutto quel che deve fare è instradare convogli che fanno la spola da Londra a Edimburgo, da Parigi a Marsiglia, o da Boston a Washington. Ma che fine farebbero i collegamenti ferroviari tra località in cui le persone prendono il treno solo una volta ogni tanto? Nessun singolo individuo accantonerà fondi sufficienti per sostenere i costi economici di un servizio del genere per le rare occasioni in cui ne usufruisce. Soltanto la collettività – lo Stato, il governo, gli enti locali – può farlo. La sovvenzione necessaria apparirà sempre inefficiente agli occhi di un certo tipo di economista: non sarebbe meno costoso svellere le rotaie e lasciare che ognuno usi la propria automobile?
Nel 1996, l’anno prima che le ferrovie britanniche fossero privatizzate, la British Rail vantava la sovvenzione pubblica più bassa fra le compagnie ferroviarie d’Europa. Nello stesso anno i francesi prevedevano un investimento nella rete ferroviaria nazionale pari a 21 sterline per abitante, gli italiani pari a 33 sterline, i britannici ad appena 94. Queste differenze erano perfettamente rispecchiate dalla qualità del servizio offerto dai rispettivi sistemi ferroviari nazionali. Servono anche a capire perché la rete ferroviaria britannica, date le pessime condizioni della sua infrastruttura, potesse essere privatizzata soltanto in forte perdita.
Ma la differenza fra gli investimenti dimostra la mia tesi. I francesi e gli italiani da lungo tempo trattano la loro rete ferroviaria come un servizio sociale. Portare un treno in una regione isolata, per quanto inefficiente in termini di costi, serve a sostenere le comunità locali. Riduce i danni all’ambiente offrendo un’alternativa al trasporto su strada. La stazione ferroviaria e il servizio che espleta sono quindi un sintomo e un simbolo della società come aspirazione comune.
Prima dicevo che offrire servizi ferroviari in zone isolate ha senso dal punto di vista sociale, anche se è economicamente «inefficiente». Ma questa affermazione ovviamente solleva un interrogativo importante. I socialdemocratici non arriveranno molto lontano proponendo lodevoli obiettivi sociali che, come essi stessi ammettono, sono più costosi delle alternative. Si finirebbe per riconoscere le virtù dei servizi sociali, denunciarne i costi... e non fare niente. Dobbiamo riconsiderare i criteri che adoperiamo per valutare tutti i costi: sia quelli sociali sia quelli economici.
Mi si consenta di fare un esempio. Offrire una benevola elemosina ai poveri costa meno di garantire loro una serie di servizi sociali in quanto diritto. Per «benevola» intendo la carità basata sulla fede religiosa, l’iniziativa privata o autonoma, l’assistenza in base al reddito sotto forma di buoni per l’acquisto di generi alimentari, sussidi per l’alloggio, per i vestiti e così via. Ma è notoriamente umiliante essere beneficiari di questa forma di assistenza. Il means test, l’accertamento delle condizioni economiche effettuato dalle autorità britanniche prima di concedere sussidi alle vittime della depressione degli anni Trenta, è ancora ricordato con disgusto e persino con rabbia da una generazione più anziana5.
Invece, essere beneficiario di un diritto non è umiliante. Se si ha diritto all’indennità di disoccupazione o di invalidità, alla pensione, all’alloggio popolare o a un’altra forma di assistenza pubblica prestata in quanto diritto – senza che qualcuno conduca accertamenti per stabilire se si è sprofondati abbastanza in basso da «meritare» aiuto –, non si proverà imbarazzo ad accettarla. Tuttavia questi diritti universali sono costosi.
E se trattassimo l’umiliazione stessa come un costo, come un onere per la società? Se decidessimo di «quantificare» il danno subìto da una persona quando viene umiliata dai suoi concittadini prima di poter soddisfare le semplici necessità della vita? In altre parole, se nelle nostre stime della produttività, dell’efficienza o del benessere tenessimo conto della differenza tra un’umiliante elemosina e un beneficio cui si ha diritto? Potremmo giungere alla conclusione che l’erogazione di servizi sociali universali, l’assicurazione sanitaria pubblica o i trasporti pubblici sovvenzionati in realtà siano una soluzione economicamente efficiente per conseguire i nostri obiettivi comuni. Ma è un calcolo di per sé controverso: come si fa a quantificare l’«umiliazione»? Come si misura il costo comportato dal privare i cittadini isolati dell’accesso alle risorse delle metropoli? Quanto siamo disposti a pagare per una società giusta? Non è chiaro. Ma se non ci poniamo queste domande, come possiamo sperare di trovare risposte?6
Che cosa intendiamo quando parliamo di una «società giusta»? Da un punto di vista normativo, potremmo cominciare con una «narrazione» morale in cui situare le nostre scelte collettive. Questa narrazione andrebbe poi a sostituire i termini strettamente economici che limitano i nostri attuali discorsi. Ma definire i nostri scopi generali in questo modo non è semplice.
In passato la socialdemocrazia si occupava innegabilmente del problema di cosa è giusto e cosa è sbagliato, tanto più che aveva ereditato un vocabolario etico pre-marxista imbevuto di disgusto cristiano per la ricchezza estrema e la venerazione del materialismo. Ma queste considerazioni erano spesso eclissate dagli interrogativi ideologici. Il capitalismo era destinato a fallire? In tal caso, una certa politica avrebbe favorito la sua fine precoce o rischiato di posticiparla? Se il capitalismo non era spacciato, le decisioni politiche dovevano essere prese da un punto di vista diverso. In un caso o nell’altro, nell’esaminare il problema in questione di solito si valutavano le prospettive del «sistema», più che le virtù o i difetti di una determinata iniziativa. Questi problemi non ci preoccupano più. Ci confrontiamo quindi in modo più diretto con le implicazioni etiche delle nostre scelte.
Di preciso, che cosa consideriamo ripugnante del capitalismo finanziario, o della «società commerciale», come la chiamavano nel Settecento? Che cosa consideriamo istintivamente sbagliato nel nostro sistema attuale e che cosa possiamo fare al riguardo? Che cosa consideriamo ingiusto? Che cosa offende il nostro senso della decenza quando assistiamo alle pressioni smodate esercitate dai ricchi a scapito di tutti gli altri? Che cosa abbiamo perduto?
Le risposte a queste domande dovrebbero assumere la forma di una critica morale delle inadeguatezze del mercato non regolamentato o dello Stato irresponsabile. Dobbiamo capire perché offendono il nostro senso della giustizia o dell’equità. Dobbiamo, in poche parole, tornare nel «regno dei fini». Qui la socialdemocrazia è di poco aiuto, perché la sua risposta ai dilemmi del capitalismo non è stata altro che un’espressione tardiva del discorso morale illuministico applicato alla «questione sociale». I nostri problemi sono molto diversi.
Stiamo entrando, credo, in una nuova era di insicurezza. L’ultima di queste ere, memorabilmente analizzata da Keynes nelle Conseguenze economiche della pace (1919), era stata preceduta da decenni di prosperità e progresso e da un drastico aumento dell’internazionalizzazione della vita: una «globalizzazione» di fatto, se non di nome. Secondo la descrizione di Keynes, l’economia commerciale si era diffusa in tutto il mondo. Le attività commerciali e le comunicazioni si intensificavano a una velocità senza precedenti. Prima del 1914, quasi tutti ritenevano che la logica degli scambi economici pacifici avrebbe trionfato sull’egoismo nazionale. Nessuno si aspettava che tutto questo sarebbe bruscamente cessato. Eppure è accaduto.
Anche noi abbiamo vissuto un’epoca di stabilità e certezza, nell’illusione di un miglioramento economico senza fine. Ma tutto questo è ormai alle nostre spalle. Il futuro prossimo sarà caratterizzato da insicurezza economica e incertezza culturale. Di sicuro la fiducia che riponiamo nei nostri fini collettivi, nel nostro benessere ambientale o nella nostra sicurezza personale non è mai stata così bassa dalla fine della seconda guerra mondiale. Non abbiamo idea del tipo di mondo che lasceremo in eredità ai nostri figli, ma non possiamo più cullarci nell’illusione che assomiglierà al nostro in maniera rassicurante.
Dobbiamo riconsiderare le soluzioni adottate dalla generazione dei nostri nonni in risposta a sfide e minacce analoghe. La socialdemocrazia in Europa, il New Deal e la Great Society negli Stati Uniti erano risposte esplicite alle insicurezze e alle sperequazioni dell’epoca. Pochi in Occidente sono abbastanza vecchi per ricordare cosa significa vedere il proprio mondo crollare7. Per noi è difficile concepire un collasso completo delle istituzioni liberali, la dissoluzione totale del consenso democratico. Ma fu proprio un simile sfacelo a provocare il dibattito fra Keynes e Hayek, dal quale nacquero il consenso keynesiano e il compromesso socialdemocratico: il consenso e il compromesso in cui siamo cresciuti e il cui fascino è stato appannato dal loro stesso successo.
Se la socialdemocrazia ha un futuro, lo avrà come socialdemocrazia della paura8. Invece di cercare di recuperare il linguaggio ottimistico del progresso, dovremmo cominciare a riprendere familiarità con il passato recente. Il primo compito dei dissidenti radicali di oggi è ricordare al loro pubblico le conquiste del ventesimo secolo, e le verosimili conseguenze della nostra corsa insensata al loro smantellamento.
La sinistra, a essere schietti, ha qualcosa da conservare. È la destra ad avere ereditato l’ambizioso impulso modernista a distruggere e innovare in nome di un progetto universale. I socialdemocratici, tipicamente modesti quanto a stile e ambizioni, dovrebbero parlare delle conquiste del passato con maggiore convinzione. L’ascesa dello Stato sociale, la costruzione lungo un secolo di un settore pubblico i cui beni e servizi esemplificano e promuovono la nostra identità collettiva e i nostri fini comuni, l’istituzione dell’assistenza sociale come diritto e la sua prestazione come dovere sociale: tutte queste non sono conquiste da poco.
Il fatto che questi successi siano stati soltanto parziali non dovrebbe turbarci. Se non abbiamo imparato altro dal ventesimo secolo, almeno una cosa dovremmo averla capita: più una risposta è perfetta, più le conseguenze sono terrificanti. Un miglioramento imperfetto, rispetto a circostanze insoddisfacenti, è il massimo che possiamo sperare, e probabilmente l’unica cosa cui dovremmo aspirare. Altri hanno passato gli ultimi tre decenni a smantellarli e destabilizzarli metodicamente: questo dovrebbe renderci molto più arrabbiati di quanto non siamo. Dovrebbe anche preoccuparci, se non altro per motivi di prudenza: perché abbiamo avuto tanta fretta di demolire le dighe laboriosamente innalzate dai nostri predecessori? Siamo così sicuri di non andare incontro a inondazioni?
Una socialdemocrazia della paura è qualcosa per cui vale la pena di combattere. Abbandonare le conquiste di un secolo significa tradire coloro che sono venuti prima di noi e anche le generazioni che ci seguiranno. Sarebbe bello – ma fuorviante – affermare che la socialdemocrazia, o qualcosa di simile, rappresenta il futuro che desideriamo per noi in un mondo ideale. Non rappresenta nemmeno il passato ideale. Ma fra le alternative che oggi abbiamo a disposizione, è meglio di qualsiasi altra cosa raggiungibile. Per dirla con Orwell, che in Omaggio alla Catalogna riflette sulle sue esperienze recenti nella Barcellona rivoluzionaria:
C’erano anche parecchie cose che non capivo e parecchie che in qualche modo non mi piacevano, ma riconobbi subito una situazione per cui valeva la pena di combattere.
Credo che questo si possa affermare anche riguardo a qualunque cosa si possa ritrovare nella memoria della socialdemocrazia del ventesimo secolo.
* Questo saggio è un adattamento dell’ultima conferenza di Tony Judt, tenuta il 19 ottobre 2009 alla New York University. Il video della conferenza è disponibile sul sito Internet dell’Istituto Remarque, all’indirizzo: remarque.as.nyu.edu/object/io_1256242927496.html.
1 Si veda High Gini Is Loosed Upon Asia, «The Economist», 11 agosto 2007.
2 Si veda Massimo Florio, The Great Divestiture: Evaluating the Welfare Impact of the British Privatizations, 1979-1997, MIT Press, Cambridge (MA) 2004, p. 163. Per Harvard, si veda Harvard Endowment Posts Solid Positive Return, «The Harvard Gazette», 12 settembre 2008. Per il Pil del Paraguay e della Bosnia-Erzegovina, si veda www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/xx.html.
3 Bernard Williams, Philosophy as a Humanistic Discipline, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2006, p. 144 [trad. it. di Corrado del Bò, La filosofia come disciplina umanistica, Feltrinelli, Milano 2013, p. 173].
4 Per queste cifre si veda il mio articolo, ’Twas a Famous Victory, sul numero del 19 luglio 2001 della «New York Review of Books».
5 Per analoghe rievocazioni di questo tipo di elemosine umilianti, si veda The Autobiography of Malcolm X, Ballantine, New York 1987 [trad. it. di Roberto Giammanco, Autobiografia di Malcolm X, Bur, Milano 2004]. Sono grato a Casey Selwyn per avermelo fatto notare.
6 La Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, un organismo internazionale presieduto da Joseph Stiglitz che si avvale della consulenza di Amartya Sen, ha raccomandato di recente un diverso metodo di misurazione del benessere collettivo. Ma nonostante l’ammirevole originalità delle loro proposte, né Stiglitz né Sen si sono spinti al di là di suggerire modi migliori di valutare i risultati economici; le considerazioni di carattere non economico ricevono scarsa attenzione nel loro rapporto. Si veda www.stiglitz-sen-fitoussi.fr/en/index.htm.
7 L’eccezione, com’è noto, è la Bosnia, i cui cittadini sanno fin troppo bene che cosa significhi un simile tracollo.
8 Per analogia con il «liberalismo della paura» di cui parla Judith Shklar nel suo acuto saggio (The Liberalism of Fear) sulla disuguaglianza e il potere politico.