Introduzione
In buona fede
di Jennifer Homans

Posso scrivere questa introduzione soltanto se separo l’uomo dalle idee. Altrimenti mi lascio assorbire dall’uomo, che ho amato e con il quale sono stata sposata dal 1993 fino alla sua morte nel 2010, invece di concentrarmi sulle idee. Spero che anche voi, leggendo questi saggi, vi concentrerete sulle idee, perché sono buone idee e sono state scritte in buona fede. «In buona fede» era forse l’espressione preferita e il principio più nobile di Tony, al quale si atteneva in ogni suo scritto. Quello che intendeva, penso, è una scrittura scevra di calcoli e manovre, intellettuali o di altra natura. Una narrazione pulita, chiara, onesta.

Questo è un libro sul nostro tempo. La parabola è discendente: dal colmo delle speranze e delle possibilità, con le rivoluzioni del 1989, alla confusione, la desolazione e lo smarrimento dell’11 settembre, poi la guerra in Iraq, l’inasprimento della crisi in Medio Oriente e – per come la vedeva Tony – il pericoloso declino della repubblica americana. Via via che i fatti cambiavano e gli avvenimenti si susseguivano, sempre più spesso Tony si ritrovava suo malgrado ad andare controcorrente, lottando con tutto il suo vigore intellettuale per mutare, anche di poco, la rotta delle idee. La storia si interrompe bruscamente, con la sua morte prematura.

Questo libro, per me, è anche un libro molto personale, perché il «nostro tempo» è stato anche il «mio tempo» con Tony: i saggi iniziali risalgono ai primi anni del nostro matrimonio e alla nascita di nostro figlio Daniel e accompagnano i periodi trascorsi a Vienna, Parigi, New York, la nascita di Nicholas e la crescita della nostra famiglia. La nostra vita insieme cominciò – e non fu una coincidenza – con la caduta del comunismo nel 1989: ero dottoranda alla New York University, dove Tony insegnava. Nell’estate del 1991 feci un viaggio in Europa centrale e al ritorno volevo saperne di più su quella regione. Mi consigliarono un corso individuale con Tony Judt.

Seguii il consiglio, e la nostra storia d’amore ebbe inizio, attraverso i libri e le conversazioni sulla politica, la guerra, la rivoluzione, la giustizia e l’arte in Europa. Non era il consueto calendario di incontri: la nostra seconda «lezione» si svolse in un ristorante, durante la cena. Tony spinse di lato i libri, ordinò del vino e mi parlò del periodo che aveva trascorso a Praga durante il comunismo e poi nel 1989, quando attraversava piazze e vie silenziose sotto la coltre di neve, nel buio della notte, subito dopo la Rivoluzione di velluto, chiaramente meravigliato della svolta del destino storico – e dei sentimenti che già si palesavano fra noi. Guardavamo film, visitavamo mostre, mangiavamo cibo cinese, a volte cucinava lui (male). Infine – la chiave di volta del nostro corteggiamento – mi portò in viaggio in Europa: Parigi, Vienna, Budapest, un tragitto in auto terrificante attraverso il passo del Sempione durante un temporale (guidavo io, lui aveva l’emicrania). Prendevamo il treno e lo guardavo immergersi in orari, annotare partenze e arrivi, felice come un bambino in un negozio di caramelle: Zermatt, Brig, Firenze, Venezia.

È stata una grande storia d’amore, ed è stata una storia d’amore europea, parte di una più grande storia d’amore con l’Europa, che ha definito la vita di Tony e tutta la sua opera. A volte credo pensasse perfino di essere europeo. Ma non lo era veramente. Certo, parlava francese, tedesco, italiano, ebraico, ceco e un po’ di spagnolo, ma non si sentiva mai «a casa» in quei paesi. Apparteneva più all’Europa centrale, ma neanche questo è del tutto vero: non aveva affatto quella storia, al di là dell’impegno professionale e delle radici familiari (ebrei russi, polacchi, rumeni e lituani). Era anche molto inglese, per abitudini e per educazione (poteva passare senza difficoltà dal cockney della sua infanzia alla prosa sicura degli anni a Oxbridge), ma non era nemmeno veramente inglese: troppo ebreo, troppo mitteleuropeo. Non che fosse alieno a tutti questi posti, anche se in alcuni casi lo era; più che altro era affezionato a qualcosa di ciascuno di essi, e per questo motivo non poteva abbandonarne nemmeno uno.

Perciò forse non sorprende che, pur essendoci stabiliti sin dall’inizio a New York, passammo gran parte della nostra vita insieme a progettare di vivere – o a vivere – in qualche altro posto. Eravamo esperti nel preparare i bagagli e ci scherzavamo sopra, dicendo che avremmo scritto un libro insieme intitolato qualcosa tipo: A proprio agio in Europa: tutto quello che bisogna sapere sugli istituti scolastici e sulle proprietà immobiliari. Il regalo di gran lunga più bello che abbia mai fatto a Tony è l’abbonamento all’orario ferroviario Thomas Cooks.

Tony prese stabilmente dimora solo dopo il 2001. In parte, fu per motivi di salute: quell’anno gli avevano diagnosticato una grave forma di cancro e aveva dovuto sottoporsi a un delicato intervento chirurgico, alla radioterapia e ad altri trattamenti. In parte fu anche a causa dell’attacco al World Trade Center. Viaggiare diventava sempre più difficile e l’orrore del fatto in sé, associato alla malattia, ebbe un effetto accasante: voleva stare qui, con me e i ragazzi. Quali che fossero le ragioni, a poco a poco negli anni successivi diventò sempre più americano, anche se mai del tutto e, per ironia della sorte, proprio nel momento in cui si ritrovava ad avere i più importanti motivi per essere critico nei riguardi della politica statunitense. Ottenne la cittadinanza: «interrogatemi», diceva ai ragazzi durante le settimane precedenti l’esame, e loro lo accompagnavano entusiasti un passo dopo l’altro, benché avesse insegnato politica americana a Oxford per anni. Intorno al 2003 notai un mutamento nel suo pensiero, nei suoi scritti, da «loro» passò a «noi»: «Come viviamo oggi».

Furono anche gli anni dell’Istituto Remarque, che Tony fondò nel 1995 e diresse fino alla morte. Poggiava sugli stessi due pilastri che erano al centro dei suoi scritti: unire l’Europa e l’America, la storia e la politica contemporanea. In quello stesso periodo scriveva Postwar (2005), un’impresa titanica che metteva quotidianamente alla prova la sua forza fisica e intellettuale, soprattutto perché si stava rimettendo dal cancro. Ricordo bene quanto fosse esausto e determinato e come si ostinasse a scrivere anche i saggi raccolti in questo volume, nonostante si trovasse (per citare le sue parole) «nelle miniere di carbone» di un grande libro sull’Europa. Mi preoccupava lo sforzo eccessivo cui si sottoponeva, ma col senno di poi mi rendo conto che non poteva farne a meno. Mentre si immergeva in Postwar, sentiva i canarini cantare nelle miniere del nostro tempo: questi saggi, che invitano – soprattutto «noi» americani – a volgere lo sguardo verso il ventesimo secolo mentre ci avventuriamo nel ventunesimo, sono uno dei risultati.

Questa è dunque una raccolta di saggi, ma è anche una raccolta di ossessioni. Le ossessioni di Tony. Sono tutte qui: l’Europa e l’America, Israele e il Medio Oriente, la giustizia, la sfera pubblica, lo Stato, le relazioni internazionali, la memoria e l’oblio e, soprattutto, la storia. Quando suonava il campanello d’allarme perché stavamo assistendo al collasso di un’«era economica» in un’«era della paura»1 e all’ingresso in «una nuova era dell’insicurezza»2 – un monito che riecheggia in queste pagine – rivelava lo sconforto e la preoccupazione che provava per la piega che stava prendendo la politica. Aveva grandi aspettative ed era un acuto osservatore. In questi saggi penso incontrerete sia un lucido realista che credeva nei fatti, negli avvenimenti, nei dati, sia un idealista che aspirava a niente meno che una vita vissuta pienamente, non solo per sé, ma per l’intera società.

Ho presentato i saggi in ordine cronologico oltre che tematico, perché la cronologia era una delle sue più grandi ossessioni. In fondo era uno storico e aveva poca pazienza per le mode postmoderne della frammentazione testuale o dell’interruzione narrativa, soprattutto negli scritti storici. Non era veramente interessato all’idea che non esista una sola verità (non è forse ovvio?), o alla decostruzione di questo o quell’altro testo. Era convinto che il vero compito non fosse dire ciò che qualcosa non è bensì ciò che è: raccontare una storia convincente e ben scritta sulla base delle informazioni disponibili, e farlo tenendo presente ciò che è giusto e onesto. La cronologia non era soltanto una convenzione professionale o letteraria, era un presupposto indispensabile – e, per quanto riguarda la storia, anche una responsabilità morale.

A proposito di fatti concreti, non ho mai incontrato una persona tanto votata ai fatti quanto Tony, un aspetto che i suoi figli hanno imparato sin dall’inizio: è a Daniel, ora diciannovenne, che si deve il titolo di questo volume, tratto da una citazione (probabilmente apocrifa) di Keynes che era fra i motti preferiti di Tony: «Quando i fatti cambiano, io cambio opinione. Lei cosa fa?». L’ho conosciuto presto, questo aspetto di Tony, in una di quelle situazioni familiari che tanto contribuiscono a gettare luce su un uomo. Appena sposati acquistammo una casa a Princeton, nel New Jersey (idea sua), ma era una dimora più teorica che pratica. In teoria, Tony voleva vivere là, ma in pratica vivevamo a New York, oppure eravamo in visita in Europa, o in viaggio da qualche altra parte. A un certo punto volevo vendere la casa: era un salasso per le nostre finanze e in tutta sincerità avevo orrore di andarci a vivere prima o poi. Ne scaturì una lunga e complicata discussione su cosa fare della casa, che si trasformò in un acceso dibattito e infine in una situazione di stallo silenzioso e furente sul significato emotivo, storico e geografico delle case e della casa di famiglia e sul perché questa in particolare era o non era quella giusta per noi.

Discutere con Tony era un’impresa davvero ardua, perché aveva una dialettica formidabile e riusciva a ribaltare qualsiasi argomento e volgerlo contro di te. Alla fine elaborai un prospetto – una mossa strategica disperata da parte mia – nel quale erano esposti i fatti: aspetti finanziari, orari dei treni pendolari, costo dei biglietti, ore totali da trascorrere alla Penn Station, c’era tutto. Lo studiò con attenzione e in un istante acconsentì a vendere la casa. Nessun pentimento, nessun rimpianto, nessuna recriminazione, nessun bisogno di nuove discussioni. Pensava già ad altro. Per me era una qualità sbalorditiva e ammirevole. Gli conferiva una sorta di lucidità di pensiero: non era attaccato alle sue idee o, come ebbi modo di scoprire in seguito, alla sua prosa. Quando i fatti cambiavano – quando gli veniva proposto un argomento migliore e più convincente – cambiava davvero opinione e passava ad altro.

Aveva una grande sicurezza interiore. Non era un attributo esistenziale, l’aveva acquisita con impegno e fatica: leggeva, assorbiva, assimilava, memorizzava informazioni e conosceva «cose reali», come amava dire, più di qualsiasi persona io abbia mai conosciuto. Per questo motivo, non gli piacevano gli eventi mondani o le feste; era timido, in un certo senso, e preferiva restare a casa e leggere: riusciva a trarre maggiore piacere dai libri, diceva, lontano dalle chiacchiere distratte degli «intellettualoidi». Aveva una memoria simile a quella di una macchina e perveniva alle sue posizioni in modo rapido e risolutivo, passando ogni questione al vaglio della sua mente analitica e della straordinaria mole di conoscenze che possedeva. Non che avesse fiducia assoluta in se stesso: come tutti, aveva vuoti emotivi da colmare e momenti in cui la ragione e il buon senso lo disertavano, ma questo avveniva perlopiù nella sua vita privata, non nei suoi scritti. Quando si trattava di idee, non aveva esitazioni; era dotato di una specie di padronanza intellettuale naturale ed era capace di raccogliere le idee e gli argomenti senza complicazioni.

Era un grande scrittore perché cercava sempre di affinare le parole e di accordarle, come un artigiano, a questa chiave interiore. Aveva un proprio sistema di scrittura e tutti i saggi raccolti in questo volume sono stati scritti secondo lo stesso metodo, anche quelli tra il 2008 e il 2010, quando era malato e quadriplegico. Per prima cosa leggeva tutto il possibile su un determinato argomento, prendendo abbondanti appunti a mano, su taccuini con fogli gialli rigati. Quindi imbastiva uno schema, A, B, C, D in colori diversi, con sottocategorie dettagliate: A1 i, A1 ii, A 2 iii, ecc. (altri taccuini gialli). Poi sedeva per ore e ore, come un monaco, al tavolo della sala da pranzo e assegnava ad ogni riga dei suoi appunti, ogni fatto, data, spunto o idea, un posto nello schema. Dopodiché – e questa era la fase risolutiva – trascriveva tutti i suoi appunti iniziali nell’ordine stabilito nello schema. Quando finalmente si accingeva a scrivere il saggio, aveva copiato, ricopiato e memorizzato quasi tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Poi, con la porta chiusa, scriveva per otto ore filate al giorno, finché il pezzo non era pronto (con brevi pause, durante le quali si preparava tramezzini con il Marmite e un caffè forte). Infine, la «lucidatura».

Quando sopraggiunse la malattia, niente di tutto questo cambiò, diventò solo più complicato. Qualcuno doveva sostituire le sue mani e girare le pagine dei libri, raccogliere il materiale, fare ricerche su Internet e digitare il testo. Via via che il suo corpo deperiva, reimparava a pensare e scrivere – l’attività più intima che ci sia – assieme a qualcun altro, a riprova della flessibilità della sua mente straordinaria. Lavorava con un’assistente, ma doveva svolgere la maggior parte del lavoro a memoria, nella sua testa, di solito durante la notte: comporre, selezionare, catalogare e riscrivere gli appunti mentali secondo il suo schema (A, B, C, D), affinché la mattina potessero essere digitati da me, dai ragazzi, da un infermiere o dalla sua assistente.

Non era un semplice metodo, penso fosse una mappa mentale. La logica, la pazienza, l’intensa concentrazione e l’accurata costruzione dell’argomento, l’attenzione militare per i fatti e i dettagli, la fiducia nelle sue convinzioni: a differenza della maggior parte degli scrittori, di rado si discostava dal suo progetto iniziale. La difficoltà sorgeva quando si imbatteva in qualcosa dentro di sé che non vedeva o non conosceva del tutto: non i «fatti verificabili», ma i «fatti interiori», le cose che semplicemente erano lì, come oggetti d’arredo nella sua mente. Quello più ovvio riguardava l’essere ebreo.

Per Tony essere ebreo era un dato di fatto, il suo corredo più antico. Era la sola identità che possedeva inequivocabilmente. Non era religioso, non andava mai alla sinagoga, né praticava in casa; gli piaceva citare Isaac Deutscher (i cui libri gli erano stati regalati dal padre quando era ragazzo) a proposito degli «ebrei non ebrei». Se accennava al fatto di essere ebreo, si riferiva al passato: le cene del venerdì sera, quando era bambino, dai nonni che parlavano yiddish nell’East End di Londra, l’umanesimo laico (molto ebraico) del padre («non credo nella razza, credo nell’umanità») e la risoluta defezione della madre: si alzava in piedi quando la regina d’Inghilterra appariva in televisione e non voleva che i suoi nipoti fossero circoncisi nel timore che tornassero i «brutti tempi»; o il nonno Enoch, il proverbiale ebreo errante, che aveva sempre la valigia pronta e passò la maggior parte della vita in viaggio.

Un altro fatto: il cappello. Alcuni anni fa ci stavamo recando alla sinagoga dell’Upper East Side, a New York, per la bat mitzvah della figlia di cari amici. Eravamo in ritardo; il taxi aveva attraversato la città ed era quasi giunto a destinazione quando Tony fu letteralmente preso dal panico: aveva dimenticato il cappello. Chiesi se fosse davvero indispensabile, eravamo già in ritardo e si sarebbe perso parte della cerimonia se fosse tornato indietro. Non poteva farne a meno? No, davvero non poteva. L’acuta e inspiegabile agitazione che sembrava sopraffarlo mi lasciò sconcertata. Tornò a casa a prendere il cappello, un oggetto in buono stato, ma di foggia antiquata che non ricordavo di avere mai visto prima. Entrò in silenzio nella sinagoga, mi raggiunse e rimase sbalordito scoprendo di essere l’unico a indossarlo: gli altri invitati erano tutti in smoking. Era indignato e anche un po’ offeso, ma soprattutto confuso e palesemente fuori luogo. Che sorta di ebrei erano questi?

Anche Tony aveva celebrato il suo bar mitzvah («abbiamo fatto il nostro dovere», spiegò poi suo padre) e da giovane appassionato (poi disilluso) sionista parlava un buon ebraico ed era stato traduttore in Israele durante la guerra del 1967. Quando i nostri figli erano piccoli, pensammo fosse bene che ricevessero qualche tipo di educazione religiosa. Io ero di origini protestanti, ma soprattutto atea, perciò scartammo subito l’idea della scuola domenicale e trovammo invece Itay, un dottorando presso il Jewish Theological Seminary, che una volta la settimana veniva nel nostro appartamento in Washington Square per insegnare ai ragazzi l’ebraico, la storia biblica, la cultura. Per decisione di Tony, non ci fu alcun bar mitzvah. A mio parere, il messaggio era chiaro: entro i limiti della loro educazione decisamente americana, Tony voleva che i ragazzi conoscessero i dove e i perché del cappello. Dopodiché spettava a loro decidere. Tempo dopo, quando entrambi sostennero che in realtà non si sentivano affatto ebrei, la conversazione si focalizzò subito sull’Olocausto. Nicholas non batté ciglio: non ho bisogno di essere ebreo per capire quanto sia stato triste e tragico. Tony fu sorpreso dalla loro ambivalenza, ma non turbato; in fondo, i ragazzi non avevano il suo passato.

E a proposito dell’Olocausto? Un amico che lo conosceva bene una volta mi disse che Tony non aveva mai scritto sull’Olocausto, che aveva concentrato i suoi studi sul diciannovesimo secolo e sull’inizio del ventesimo e poi era passato al dopoguerra. È vero, ma – ed è un ma soverchiante – la guerra e i campi di sterminio sono al centro di Postwar, e di molte altre sue opere, anche se non erano la sua materia di studio: l’epilogo di Postwar si intitola Dalla casa dei morti.

Inoltre, subito dopo l’uscita del libro, ringraziai Tony per avermelo dedicato, ma gli dissi che sapevo che in fondo era dedicato anche a un’altra persona: a Toni. Pianse, e non era un uomo che piangeva spesso o facilmente. Toni, della quale portava il nome, era una cugina di suo padre, morta ad Auschwitz. Era il fantasma del libro, e una sorta di presenza oscura perennemente nei suoi pensieri. Era forse senso di colpa? Non esattamente il senso di colpa del sopravvissuto (era nato nel 1948), penso piuttosto una specie di buco nero nella sua mente, gravoso, incomprensibile, come il male o il demonio, in cui giacevano quel momento della storia e quell’aspetto della sua ebraicità. Era torbido, di natura emotiva, ma mi pareva chiaro che la tragedia di Toni rappresentasse una responsabilità nella vita di Tony, legata in qualche modo all’idea di buona fede.

E questo ci porta a Israele. In una serie di articoli iniziata nel 2002, Tony esponeva le sue posizioni e mirava a trovare soluzioni pragmatiche. I saggi in questo volume danno un’idea, mi auguro, di come e perché si avventurò in quelle acque tumultuose. Dopo la pubblicazione di Israele, l’alternativa nel 2003, circolarono pesanti minacce e pestiferi vituperi ad hominem sulla stampa, che purtroppo dimostravano l’impossibilità di condurre una discussione aperta sull’argomento, almeno in America. Questo articolo e i saggi successivi parlano da soli. Posso soltanto testimoniare che le reazioni astiose suscitate dalle sue posizioni e la politica sempre più intransigente e razzista di Israele lo turbavano profondamente.

Dopo la pubblicazione sul «New York Times» dell’articolo sugli insediamenti nel giugno del 2009, un collega scrisse a Tony: che cosa bisogna fare? Intendeva rispondergli, ma a quel punto era ormai infermo e doveva fare i conti con le faticose complicazioni fisiche comportate dalla malattia in rapida progressione. Ciononostante, riprese l’argomento con ferma, se pur cupa, determinazione e scrisse una risposta energica e ambiziosa, con l’aiuto di un’assistente infaticabile che batteva il testo per intere giornate, spesso senza pause per mangiare o bere, perché Tony dettava e rivedeva il testo in maniera pressante. Lo intitolò Che fare?. Rivedemmo insieme il testo e lo discutemmo a lungo; non lo ritenevo all’altezza del suo livello abituale e glielo dissi. Frustrato dalla menomazione fisica e incapace di perfezionare l’argomento in modo soddisfacente, si scoraggiò e lo mise bruscamente da parte.

Rileggendolo ora, i motivi non mi sono del tutto chiari. Le idee, benché a tratti difettose – ma solo a tratti – rimangono vigorose. Perché si tirò indietro? Sbaglio a pubblicarlo ora? Non posso sapere che cosa farebbe, ma lo propongo qui perché colgo nel saggio – forse proprio perché è grezzo – una forma di autentico coraggio intellettuale. Lascia trasparire la tipica resistenza di Tony ai dogmi, alle diatribe strumentali, alle posizioni arroccate, la sua propensione a sbrogliare il filo politico ovunque gli avvenimenti lo attorcigliassero (per esempio il ritorno alla soluzione dei due Stati) e a cercare, con tutta l’immaginazione possibile, di far pesare la storia, la moralità, il pragmatismo – i fatti verificabili – in controversie apparentemente irrisolvibili. In una situazione impossibile, personale e politica, voleva esporre un ragionamento chiaro e onesto.

Durante lo stesso anno vennero a mancare due suoi importanti sostegni intellettuali: Amos Elon e Leszek Kołakowski. Scrisse su ciascuno di loro mentre pianificava e affrontava la propria morte, che sapeva essere imminente. «Nel lungo periodo saremo tutti morti», gli piaceva fare dello spirito, quando era in vena: ancora Keynes. In realtà, Tony non aveva eroi, ma aveva ombre, persone morte che aveva conosciuto o non aveva mai incontrato se non nei libri e che teneva intorno a sé, in ogni momento. Imparai a conoscerle bene. Keynes era fra queste. Fra gli altri (erano tanti) c’erano Isaiah Berlin, Raymond Aron, A.J.P. Taylor, Bernard Williams (un amico, oltretutto), Alexander Pope, Philip Larkin, Jean Renoir e Vittorio De Sica. C’erano, ovviamente, anche Karl Marx e – ancora più ovvio – i fratelli Marx, che comparivano in proiezioni rituali, al pari di Orson Welles in The Third Man [Il terzo uomo]. I due che teneva più vicino a sé e forse ammirava più di tutti erano Albert Camus, la cui foto risaltava sulla sua scrivania, e George Orwell, che era ovunque, o così mi è sempre sembrato. Erano le spalle dei giganti sulle quali saliva per vedere più lontano e gli uomini dei quali cercava di essere all’altezza, in buona fede.

Durante il suo ultimo mese di vita si dedicò a un altro argomento pressante e iniziò a scrivere un saggio intitolato The Afterlife. Comincia così: «Non ho mai creduto in Dio», una formulazione interessante per un uomo dell’Illuminismo, che è ciò che era veramente, dato che lascia la questione un po’ aperta. I fatti, dopo tutto, potrebbero cambiare una volta morti. Nel frattempo, cominciò a elaborare una tesi sui retaggi, i memoriali e ciò che possiamo lasciare dietro di noi, che era l’unica vita ultraterrena di cui sapesse qualcosa. Quel che poteva lasciare dietro di sé, naturalmente, erano i ricordi e i suoi scritti. Non finì mai il saggio: si interrompe a metà, con note e pensieri sparsi. Uno di questi dice:

Non si può scrivere pensando all’impatto o alla reazione che si provoca. Così facendo si falserebbe la reazione e si corromperebbe l’integrità dello scritto stesso. In questo senso, è come sparare alla luna: bisogna riconoscere che non sarà nello stesso punto quando il razzo giungerà a destinazione. È meglio sapere innanzitutto perché lo si manda lassù, senza preoccuparsi troppo del suo allunaggio sicuro. [...]

Tanto meno si può prevedere il contesto motivazionale dei lettori in futuri illimitati. L’unica cosa che si può fare, dunque, è scrivere quel che va scritto, qualunque cosa significhi. Un tipo di obbligo molto diverso.

 

1 Cfr. capitolo 23, La forza distruttrice dell’innovazione.

2 Cfr. capitolo 24, Che cosa è vivo e che cosa è morto nella socialdemocrazia?