Capitolo
26
François Furet
(1927-1997)*
François Furet, morto il 12 luglio di quest’anno a settant’anni, è stato fra gli uomini più influenti della Francia contemporanea. Può sembrare una strana osservazione da fare a proposito di una persona che ha dedicato buona parte della sua vita all’insegnamento universitario e i cui scritti consistono per la maggior parte di una serie di studi accademici sulla Rivoluzione francese. È un omaggio a Furet, il fatto che la sua influenza sia stata così forte, e illustra bene il posto che l’intellettuale continua a occupare nella moderna cultura francese.
Ma François Furet non era un intellettuale come gli altri, e neppure uno storico come gli altri. In gioventù, come tanti altri autori e storici francesi della sua generazione, aderì al Partito comunista francese. Ne uscì nel 1956, in segno di protesta per l’invasione sovietica dell’Ungheria; come ebbe in seguito a riconoscere: «È stata la cosa più intelligente che abbia mai fatto». La sua esperienza nel Partito comunista francese influenzò i temi, sia personali sia accademici, dei quali si interessò per tutto il resto della sua vita. Laureatosi alla Sorbona, Furet indirizzò il suo impegno accademico allo studio della rivoluzione del 1789, pubblicando nel 1965 La Révolution française, uno studio generale dell’epoca della rivoluzione in due volumi, scritto con il compianto Denis Richet, che fu ampiamente recensito e commentato. In questo libro, Furet affrontava la storia della Francia rivoluzionaria dal punto di vista, allora di moda, della scuola delle Annales, sottolineandone la continuità con il passato del paese, in particolar modo con i suoi processi sociali ed economici di lungo periodo.
Il nuovo studio dedicato all’epoca della rivoluzione si dipartiva già radicalmente dalle interpretazioni correnti consolidate. Nella tradizione di Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel, l’impatto dell’approccio delle Annales, rivolto alle strutture profonde e di lunga durata e poco interessato ai sommovimenti politici, si stava facendo potentemente sentire sulla storiografia della Francia medievale e della prima età moderna. L’interpretazione degli eventi del 1789-1799 era però profondamente condizionata dai marxisti che avevano dominato lo studio del passato rivoluzionario della nazione dopo la seconda guerra mondiale. Ma nei due decenni successivi, Furet avrebbe continuato a pubblicare una serie di saggi di estrema originalità, assai diversi da tutto ciò che era stato scritto fin lì, da lui o da altri, che hanno trasformato la nostra lettura del passato rivoluzionario della Francia. In una serie di libri di grande spessore, iniziata con Penser la Révolution française (1978) e culminata in La Révolution 1770-1880 (1988), Furet demolì quello che egli stesso chiamava il «catechismo rivoluzionario»: la versione marxista e neomarxista della Rivoluzione francese come caso modello e precursore delle rivoluzioni borghesi nel resto del mondo, fondata sull’interpretazione degli anni tra il 1789 e il 1794 come esempio classico del conflitto di classe1.
Il contributo personale di Furet all’interpretazione della Rivoluzione francese è stato questo: ha tolto dalle nostre preoccupazioni di storici la vecchia insistita centralità delle categorie e dei conflitti sociali, per sostituirla con la sottolineatura dei dibattiti intellettuali e politici e dei loro esiti nel passato rivoluzionario della Francia, ricordando ai suoi lettori che la rivoluzione era stata sopra ogni altra cosa un radicale spostamento dell’equilibrio del potere politico e filosofico, non degli interessi economici delle classi. Come Alexis de Tocqueville, Furet si rendeva conto del fatto che gli uomini di quell’epoca, specialmente i teorici e i portavoce della prima rivoluzione, dal 1789 al 1791 – Antoine Barnave, Emmanuel Joseph Sieyès, Jean-Joseph Mounier – si erano impegnati in qualcosa di straordinariamente nuovo. Dato che avevano bisogno di giustificare e legittimare non solo un rovesciamento dell’autorità costituita, ma anche la propria pretesa di prenderne il posto, si trovarono obbligati a immaginare e sfruttare una nuova versione del passato, dello Stato e del popolo francese, dotando ciascuno di essi di caratteri appropriati alle ambizioni della nuova classe politica che aveva preso il potere in Francia. In breve, dovettero inventare la politica moderna.
Nelle mani di Furet, dunque, la Rivoluzione francese tornò a essere ciò che era stata negli scritti di Mignet, di Thiers, di Guizot e degli altri grandi storici liberali del primo diciannovesimo secolo: una lotta tra affermazioni filosofiche e argomentazioni politiche in competizione e spesso incompatibili fra loro. In questa lotta, l’incapacità dei francesi di trovare e consolidare un accordo, entro il 1792, su una nuova forma di legittimazione istituzionale diede origine non solo al radicalismo instabile e autodistruttivo degli anni dei giacobini, ma anche al ciclo di dittatura, controrivoluzione, autoritarismo, restaurazione, rivoluzione e reazione che avrebbe caratterizzato la storia francese nel diciannovesimo secolo e spaccato in due il paese per quasi due secoli.
Come Marx, Tocqueville e gli altri studiosi del passato francese che tanto ammirava, Furet guardava con una certa soggezione ai protagonisti della rivoluzione, in cui tutti loro vedevano i padri fondatori della politica moderna; si rifiutò di credere, però, che essi o i loro seguaci non facessero altro che agire una versione locale di un conflitto di classe, o fra interessi, o fra i sessi, la cui vicenda e il cui senso più ampi fossero già in qualche modo iscritti nella storia. Come osserva Furet in uno degli ultimi saggi pubblicati:
La grandiosità della loro avventura, e il segreto della sua risonanza storica, discende dal fatto che si battono, sulla scena reale della storia, con una questione filosofica, resa classica dai grandi libri del secolo: la fondazione del Contratto sociale2.
È un’osservazione che sarebbe risultata ovvia per François Guizot e per gli altri storici liberali della rivoluzione, la cui reputazione Furet ha tanto contribuito a risollevare da un’ingiustificata emarginazione; la dice lunga, sulla storiografia di un’epoca più tarda, il fatto che l’affermazione e le preoccupazioni di Furet siano sembrate tanto eversive.
In Francia, la comparsa dell’opera di Furet ha coinciso con il declino del marxismo come tendenza dominante nei circoli intellettuali e accademici francesi, e ha contribuito a portarlo a compimento. Inoltre, smantellando i luoghi comuni da tempo consolidati sulle origini della Francia moderna in una rivoluzione sociale, Furet ha aiutato i suoi contemporanei a riflettere sulla politica stessa, e su come la Francia è governata oggi e come potrebbe essere governata negli anni futuri. Non sta scritto nel codice genetico della storia francese, sosteneva, che la nazione debba essere divisa a tempo indeterminato tra una sinistra miope e ideologica e una destra offesa e intransigente. Questa divisione non dice più nulla di reale sulla Francia: la Rivoluzione francese è finita. La ridefinizione, operata da Furet, della nostra concezione della Rivoluzione francese è stata di per sé un fattore significativo nel contribuire a dissolvere il lascito della rivoluzione fin lì onnipresente nel dibattito politico francese. Il risultato è che in Francia è di nuovo possibile discutere di politica, di filosofia politica e del ruolo dello Stato nella società senza dover continuamente ricorrere alle vecchie categorie: la borghesia, il proletariato, la lotta di classe, il «processo storico», la rivoluzione o la riforma, e via dicendo.
Non è il caso di dedurre, da questi cenni, che François Furet sia stato in politica una specie di reazionario, dedito alla vendetta contro l’eredità rivoluzionaria della Francia e le sue incarnazioni accademiche. A differenza di tanti ex comunisti, è passato, ed è rimasto, su posizioni politiche risolutamente liberali nel senso più classico. Come gli uomini del 1791, pensava che uno Stato limitato, diritti di proprietà e di libertà ben garantiti e l’accordo tra i cittadini sulla natura e sul posto che spetta alle istituzioni di governo fossero non solo fini desiderabili, ma quanto di meglio si possa prudentemente sperare. E al contrario di molti francesi delle ultime generazioni, capiva quanto danno avesse fatto al suo paese e ai suoi affari pubblici la mancanza di un tale accordo e di simili istituzioni. Per Furet, il «catechismo rivoluzionario» trovava sostegno nel sogno della rivoluzione finale, quella lasciata incompiuta dagli infelici eventi del 1794, il Terrore e la reazione termidoriana. Questa concezione, per lui, non era soltanto un errore accademico, ma un handicap civico; un impaccio che Furet si adoperò per superare.
Comunque evolva da ora in poi il nostro modo di concepire il passato della Francia, o il presente del paese stesso, l’opera compiuta da François Furet è incontrovertibile. Niente sarà più com’era prima del suo arrivo. Se si fosse limitato a questo, già così Furet avrebbe dato un contributo grandissimo allo studio del passato europeo e alla cultura politica del suo paese3. Ma non si fermò qui. Per otto anni, dal 1977 al 1985, ha diretto l’École des hautes études en sciences sociales. Sotto la sua presidenza, la scuola visse un rinnovamento intellettuale e molti giovani studiosi e autori carichi di immaginazione si posero al centro della vita accademica e culturale francese. Furet ebbe inoltre un ruolo di punta nella fondazione dell’Institut Raymond Aron. Dedicato alla memoria del più grande teorico della società francese contemporanea – perlopiù ignorato, in vita, dai suoi pari –, l’Istituto è diventato un punto focale dell’attuale rinascita del pensiero liberale francese.
Negli ultimi anni gli interessi di Furet si erano ancora più avvicinati al presente, fino alla pubblicazione, nel 1995, di Le Passé d’une illusion, un ampio saggio sul ventesimo secolo sotto forma di una storia del mito del comunismo4. Era un tour de force di polemica politica, e la Francia ne fu conquistata di slancio. Come descrizione del miraggio comunista nel nostro secolo, il libro di Furet non era particolarmente originale ed egli stesso riconosceva che Boris Souvarine, Hannah Arendt e tutta una scuola di brillanti studiosi tedeschi in esilio, come Franz Borkenau e Franz Neumann, avevano già detto prima di lui pressoché le stesse cose. Ma il genio di Furet sta nel congiungere l’indagine accademica di un passato pieno di contrasti con una polemica ragionata rivolta al presente. Il leninismo, sosteneva, ha trasferito nel nostro secolo la favola della palingenesi e della trascendenza rivoluzionaria che il mito della Grande rivoluzione aveva lasciato in eredità alla Francia. Era una distorsione patologica delle aspirazioni universaliste dell’Occidente; e la volontaria servitù intellettuale dei suoi ammiratori occidentali ha prodotto guasti profondi e duraturi nelle loro stesse società – non meno che in quelle, più a est, nelle quali ha prosperato tanto a lungo.
Furet era uno stilista sobrio ed efficace e parte del fascino del suo libro viene dall’abile demolizione delle formule del pensiero progressista del nostro tempo. Dell’entusiasmo intellettuale postbellico per la Iugoslavia di Tito (largamente risparmiata in buona parte delle storie del comunismo), Furet osserva: «Nel lavorio dell’immaginazione quel paese ritrova l’indispensabile esotismo: dopo la Russia dell’Ottobre, adesso è il momento degli sfortunati Balcani, battezzati come l’avanguardia della società europea». Della propaganda dei primi anni della guerra fredda, che cercava di mobilitare i sentimenti antifascisti contro de Gaulle, Adenauer e diversi successivi presidenti degli Stati Uniti insinuandone pretese tendenze «proto-fasciste», Furet osservava mestamente che «mai un regime disonorato avrà avuto tante incarnazioni postume nell’immaginazione dei vincitori».
Il libro ebbe grande successo. In Francia fu un best seller e venne letto ampiamente in tutta Europa; molti commentatori lo vedono come l’ultimo chiodo conficcato nella bara del leninismo (in una cultura politica in cui il cadavere era ancora caldo), grazie alla distruzione di un’illusione utopica intimamente dipendente dall’idea di rivoluzione diffusasi più in generale in Occidente negli ultimi due secoli. La reiterata insistenza di Furet sul rapporto tra il mito della Rivoluzione francese e il credito incautamente concesso ai suoi successori russi ha offeso alcuni suoi critici, che ritenevano ne avesse esagerato la portata. Ma non è affatto vero. Fu la Ligue des Droits de l’Homme, impeccabilmente francese e innegabilmente repubblicana, a istituire nel 1936 una commissione di indagine sui grandi processi di Mosca di quell’anno. Le conclusioni del suo rapporto illustrano perfettamente le argomentazioni di Furet in Le Passé d’une illusion e il più vasto discorso che portò avanti per due decenni: «Sarebbe negare [corsivo aggiunto] la Rivoluzione francese [...] voler rifiutare al popolo [russo] il diritto di colpire i fomentatori di guerra civile o i cospiratori in lega con lo straniero».
François Furet viene a mancare, purtroppo, a breve distanza dalla sua elezione all’Académie Française, che lo ha ammesso fra le glorie «immortali» del suo paese. Molti membri dell’accademia, oggi come in passato, hanno contribuito alla gloria del paese meno di quanto abbia mai amato ammettere l’augusta istituzione, e Furet era il primo a essere divertito dall’ironia della sua elevazione5. Ma nella misura in cui riconosce la distinzione dei risultati conseguiti dallo studioso e il durevole impatto della sua opera sul paese, è un onore abbondantemente meritato. Ad ogni modo, nulla di François Furet ricordava l’immagine tradizionale dell’accademico borioso e pieno di sé. Restava ancora, a settant’anni, l’uomo che era stato in tutto il suo percorso: uno studioso accessibile, impegnato e intensamente attivo, a suo agio in un seminario fra i ricercatori della University of Chicago come nello spiegare alle masse le sue vedute dalla televisione pubblica francese.
Furet tollerava ben poco la mediocrità e gli atteggiamenti pretenziosi e odiava perdere tempo; le difficoltà incontrate nei primi anni di vita lo avevano reso «melanconico», come ebbe a dire la sua collega Mona Ozouf nel suo elogio funebre, e aveva la consumata consapevolezza del passare del tempo e dei mali che potrebbe riservare il futuro di chi ha molto vissuto. Se si dava pensiero del domani, era per lavorare ancora di più oggi. La sua capacità di lavoro era stupefacente, e notevole la sua rapidità nell’apprendere, come attestano i suoi libri. Ma ha trovato anche il tempo per sostenere le sue idee con coraggio e franchezza, e non ha mai lesinato il suo sostegno agli studenti, ai colleghi e alle cause in cui credeva, dall’indipendenza dell’Algeria alle libertà civili, anche a costo (come in occasione delle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese) di farsi dei nemici fra gli studiosi e altri nostalgici del passato semplicistico del quale li aveva lasciati privi6.
Dietro di sé François Furet non ha lasciato teorie della rivoluzione, libri di testo sul metodo storico, o una scuola di storiografia francese7. I suoi interessi erano troppo disparati per questo. Ad ogni modo, era un entusiastico adepto di una più antica scuola di indagine storica e sociale, quella di Alexis de Tocqueville. C’è chi ha pensato che Furet in cuor suo aspirasse a fare per il nostro tempo ciò che Tocqueville fece per il proprio, e certo i due hanno in comune l’intuizione che la storia passata e la politica presente sono intimamente connesse e possono essere comprese e spiegate (ed esorcizzate) soltanto l’una in relazione all’altra. Ma come disse una volta André Maurois a proposito della semi-confessata ambizione di Raymond Aron di essere il Montesquieu della sua epoca, avrebbe potuto avvicinarsi assai di più all’obiettivo se avesse preso maggiormente le distanze dal corso degli eventi. Furet, come Aron, e ciò va a suo merito, era incapace di distacco dalla politica contemporanea e l’unità della sua opera forse ne ha risentito. Ma, come scrisse su queste stesse colonne a proposito di Tocqueville, il suo «grande risultato [...] non sta in una qualche singola dottrina, ma nel modo acuto e talora ambivalente in cui ha affrontato le questioni di uguaglianza, democrazia e tirannia che si sono poste ai suoi tempi e che continuano a porsi, irrisolte, nei nostri»8.
* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel novembre 1997 sulla «New York Review of Books».
1 Penser la Révolution française, Gallimard, Paris 1978 [trad. it. di Silvia Brilli Cattarini, Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 1980]; Marx et la Révolution française, Flammarion, Paris 1986 [trad. it. di Marina Valensise, Marx e la Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano 1989]; La Gauche et la révolution française au milieu du XIXe siècle, Hachette, Paris 1986; Dictionnaire Critique de la Révolution Française, Flammarion, Paris 1988, curato con Mona Ozouf [trad. it. Dizionario critico della Rivoluzione francese, a cura di Massimo Bocca, Bompiani, Milano 1988]; La Révolution: de Turgot à Jules Ferry, 1770-1880, Hachette, Paris.
2 L’idée française de la révolution, pubblicazione postuma in «Le Débat», n. 96 (settembre-ottobre 1996), pp. 13-33 [trad. it. di Carlo Alberto Brioschi, in Le due Rivoluzioni. Dalla Francia del 1789 alla Russia del 1917, UTET, Torino 2002, p. 61; la traduzione della frase citata è stata lievemente modificata].
3 Sulla comunità accademica americana, invece, l’impatto di Furet si è fatto sentire di meno. Anzi è stato ed è oggetto di risentimento da parte di molti specialisti della Rivoluzione francese. In parte ciò deriva dalla stessa ragione che lo aveva inizialmente reso sospetto, per alcuni, anche in Francia: il suo rifiuto della versione marxistizzante del passato del paese, con l’accento da essa posto sulle forze e i processi sociali, lasciava gli adepti della «vecchia» e convenzionale storia sociale privi della loro principale stampella interpretativa. Ma in anni più recenti molti fautori della «nuova» storia culturale lo hanno messo sotto accusa anche per la sua attenzione alle discussioni politiche e alle idee, e si sono infastiditi per il suo caustico rigetto dei loro tentativi di «decostruire» la Rivoluzione in una serie di «rappresentazioni». A qualcuno capita di essere profeta in patria.
4 Le Passé d’une illusion: Essai sur l’idée communiste au XXe siècle, Robert Laffont; Calmann-Lévy, Paris 1995 [trad. it. di Marina Valensise, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano 1995]. Le due citazioni da questo libro sono rispettivamente alle pp. 456-457 e p. 187.
5 Alla sua elezione all’Académie si sono opposti energicamente i superstiti accademici legati al regime di Vichy, nonché i gollisti e altri, ancora memori dell’impegno di Furet per l’indipendenza dell’Algeria nei tardi anni Cinquanta.
6 Fu in occasione del bicentenario celebrato nel 1989 che alcuni storici statunitensi delle fasi iniziali della Francia moderna, indispettiti dalla sua straordinaria influenza sull’idea collettiva della Francia del proprio passato, si distinsero per una serie di attacchi ad hominem contro Furet.
7 Un quotidiano francese una volta mi ha descritto come un esponente americano della «scuola di Furet», quindi immagino di dover dichiarare un conflitto di interessi. Ma la definizione, per quanto lusinghiera, è fuorviante: questa scuola non esiste.
8 The Passions of Tocqueville, «The New York Review of Books», 27 giugno 1985.