Capitolo
27
Amos Elon
(1926-2009)*
Ho conosciuto Amos Elon in Germania, negli anni Novanta. Prendevamo parte a una serie di incontri, generosamente ospitati dalla Bertelsmann Foundation, in cui ebrei, israeliani e tedeschi si riunivano per scambiarsi banalità. La maggior parte dei presenti cercava proseliti e protagonismo (nel caso degli ebrei e degli israeliani) o stava ben attento a non dar motivo di offesa (i tedeschi). Amos, lui solo, non faceva né l’una né l’altra cosa. Lì, come poi in ogni occasione in cui l’ho sentito parlare, riusciva a essere da un lato esplicito ma dall’altro, e per così dire senza sforzo, assennato: dominava le conversazioni con la forza della ragione. Aveva la battuta mordace e l’occhiata sprezzante; spregiava gli sciocchi e i pedanti; sorrideva soltanto di rado, ma quando lo faceva sorrideva davvero. Ne restai durevolmente colpito.
Che fossimo in Germania era del tutto appropriato. Amos, nato a Vienna e autore di un’autorevole biografia di Theodor Herzl, non perse mai il suo attaccamento alla cultura e alla storia tedesca, argomento sul quale ha scritto spesso e con penetrante empatia. The Pity of It All, uno studio del 2002 sulla presenza ebraica in Germania dall’Illuminismo a Hitler, mostra una fine sintonia con la tragedia degli ebrei tedeschi, rimasti, nel bene e nel male, profondamente legati alla propria patria culturale, anche quando da tempo erano stati costretti a lasciarla per Israele, l’America, o altri paesi: più che gli ebrei di ogni altro paese d’Europa, ne avrebbero sentito la perdita1.
Ma è per i suoi scritti sul sionismo e su Israele, e per l’impegno che ha dedicato per tutta la vita a quel paese e ai suoi dilemmi, che sarà soprattutto ricordato Amos Elon. In The Israelis: Founders and Sons (1971) ha proposto una storia critica del sionismo, dei suoi esponenti e dei suoi eredi, affrontando in maniera diretta i limiti del progetto sionista e il suo esito. Oggi queste ricostruzioni critiche sono moneta corrente nel dibattito israeliano; in quei giorni erano davvero assai rare. L’adesione attiva di Amos Elon a Israele, il paese in cui ha vissuto e lavorato per la massima parte della sua vita, non è mai stata in discussione. Ma proprio per questo motivo il suo difficile atteggiamento di instancabile attenzione per le mancanze del proprio paese lo ha posto in una posizione a parte. Il suo coraggioso rifiuto di aderire ai luoghi comuni con cui i difensori di Israele rispondono a ogni critica contrasta non solo con la postura difensiva degli attuali commentatori israeliani di sinistra, ma anche, e specialmente, con la pusillanime apologetica della claque che applaude Israele in America.
Così Amos, a differenza dei tanti commentatori ossessionati dalla terra presenti fra i suoi compatrioti, fu tra i primi a riconoscere che gli insediamenti nei territori che Israele occupa dal 1967 erano una catastrofe autoimposta: «Gli insediamenti [...] hanno legato le mani di Israele in ogni negoziato che cerchi di arrivare a una pace duratura. [...] Ne hanno semplicemente ridotto la sicurezza»2. Che un paese con il più forte apparato bellico della sua regione, e con alle spalle una serie ininterrotta di vittorie militari, dovesse essere tanto ossessionato dal rischio per la sua sicurezza posto dalla rinuncia a qualche chilometro quadrato di territorio potrebbe in effetti sembrare strano. Ma testimonia i cambiamenti sopraggiunti nella patria di Elon negli ultimi decenni.
Come prevedeva nel 2003, l’insistenza israeliana sul predominio da esercitare su una popolazione araba che finirà per diventare maggioritaria nei confini del paese non può che condurre a un singolo Stato autoritario fatto di due nazioni reciprocamente ostili: una di oppressori, l’altra asservita. Con quali esiti? «Se Israele persiste nella sua attuale politica di insediamento, [...] il risultato finale ha più probabilità di somigliare allo Zimbabwe che al Sud Africa post-apartheid»3. Molti, da allora, sono giunti a questa deprimente conclusione; ritengo che Amos sia stato il primo a esprimerla.
Amos scriveva con dolore, più che con rabbia. Tanti anni fa, quando pochi se ne occupavano fra i non specialisti, scriveva, scorato, delle «energie umane sprecate per più di una generazione in miopi programmi di insediamento. [...] Pensate a quanto si sarebbe potuto realizzare se i miliardi versati nelle sabbie mobili del Sinai, sulle alture del Golan e in Cisgiordania fossero stati spesi per fini più utili»4. Attribuiva questi sforzi mal diretti a quella che definiva «la stupefacente mediocrità dei politici israeliani». Parole scritte nel 2002. L’incompetenza e la codardia politica di una generazione di statisti laburisti israeliani, dall’intoccabile Golda Meir allo spudorato Shimon Peres, erano già manifeste. Ma il peggio doveva ancora venire: prima di andarsene, Amos Elon doveva ancora vedere la resurrezione di Benjamin Netanyahu e l’oscena ascesa di Avigdor Lieberman a ministro degli Esteri, a triste conferma della sua valutazione.
Amos era perfettamente consapevole del fatto che all’attuale garbuglio mediorientale si è arrivati con il contributo di tutte le parti coinvolte. La simpatia per i palestinesi «privi di Stato, espropriati e dispersi» non gli impediva di vedere l’inettitudine dei loro leader5. Di politici arabi e palestinesi ne aveva incontrati abbastanza da rendersi conto di quanto fossero inadeguati alla tragedia dei loro popoli e ai compiti che avevano di fronte. In tutti i suoi scritti, in particolare in un autorevole intervento del 1996 sulla «New York Review of Books» intitolato Israel and the End of Zionism [Israele e la fine del sionismo], riconobbe con chiara imparzialità gli errori di entrambe le parti. Ma gli errori storici dei palestinesi risalivano principalmente a prima del 1948, mentre su Israele ricadeva in misura schiacciante la responsabilità dei disastrosi passi falsi seguiti alla grande vittoria del 1967.
Il sionismo – è la conclusione cui giunse Amos – era sopravvissuto alla sua utilità. «Come misura di [...] ‘azione affermativa’, il sionismo è stato utile negli anni di formazione. Oggi è diventato superfluo»6. Quella che un tempo era l’ideologia nazionalista di un popolo senza Stato ha subìto una tragica transizione. È stata corrotta, per un crescente numero di israeliani, fino a diventare un inflessibile patto fondiario etnico-religioso stipulato con un Dio di parte, un patto che giustifica azioni di ogni tipo contro minacce vere o presunte, contro critici e nemici. Il progetto sionista, una dottrina che risale ai nazionalismi che hanno costruito gli Stati del tardo diciannovesimo secolo, ha da tempo smarrito la strada. Può significare ben poco – anche se può fare gran danno – in uno Stato democratico stabile che aspiri alla normalità. E in ogni caso è stato sequestrato dai suoi ultrà. Il sogno di Herzl di un «normale» paese degli ebrei è diventato un incubo settario ed escludente, un passaggio che Amos illustrava con una citazione, appena rivista, da Keats: «I fanatici hanno un sogno e con esso intrecciano un paradiso per una setta»7.
Per gran parte della sua vita lavorativa, Amos Elon ha fatto il giornalista, lavorando per il quotidiano progressista «Ha’aretz». Negli anni Cinquanta e Sessanta ha spesso avuto l’incarico di corrispondente estero, in sedi che vanno dall’Europa orientale sotto il comunismo a Washington. Si direbbe che abbia intervistato praticamente tutti, da John F. Kennedy (con il quale frequentava festini scatenati al culmine della sua parabola, quando la Casa bianca veniva paragonata al castello di Camelot) a Yasser Arafat. C’è una storia che era solito raccontare e che spiega tante cose. In un’intervista rilasciata a Washington da un alto diplomatico israeliano in procinto di lasciare la sede per tornare in patria, nei primi anni Sessanta, Elon mise alle strette il compatriota con le sue domande. «Cosa pensa di avere realizzato nel corso del suo incarico qui negli Stati Uniti?», gli chiese. «Oh, è semplice», replicò il diplomatico. «Credo proprio di essere riuscito a convincere gli americani che l’antisionismo è come l’antisemitismo». In quel momento, mi disse Amos, l’affermazione del diplomatico gli parve semplicemente bizzarra; avrebbe fatto fatica, allora, a immaginare che questa cinica equiparazione politica sarebbe poi diventata opinione corrente tra i suoi compatrioti e i loro sostenitori.
Questa crescente incapacità – in America soprattutto, ma anche in Israele – di distinguere tra ebrei e Israele, Israele e sionismo, sionismo e fanatico esclusivismo teologico, contribuisce a spiegare perché un israeliano come Amos Elon nei suoi ultimi anni si sia trovato a vivere in Toscana (dove è venuto a mancare il 25 maggio). Molti israeliani, soprattutto fra i più giovani e istruiti, oggi vivono fuori dal paese, attratti dalle città cosmopolite dell’Europa e degli Stati Uniti. Qualcuno di loro ha preferito l’esilio al servizio in un esercito di occupazione. Ma per un uomo della generazione di Elon, già adulto quando il suo paese è venuto in essere e interamente dedito alla necessità e al successo del sionismo, la decisione di vendere la propria casa di Gerusalemme per stabilirsi permanentemente all’estero è stata assai più straziante e carica di profonde implicazioni. Moralmente in esilio nella sua stessa terra, Amos – israeliano, per tanti versi, fino al midollo – tornava a essere uno sradicato; o radicato, comunque, soltanto nel suo spavaldo e ostinato cosmopolitismo.
Una deplorevole conseguenza di questo esilio autoimposto di uno dei massimi giornalisti del suo paese è che molti israeliani hanno poca familiarità con i suoi scritti. I suoi libri, certo, sono disponibili in ebraico. E i suoi frequenti interventi sulla «New York Review of Books» e altrove erano letti con grande attenzione dai suoi ammiratori. Ma in Israele il pubblico per ciò che scriveva Elon è costantemente calato, decennio dopo decennio. Questo non toglie nulla al significato del suo decesso. Anzi. Il fatto che la maggior parte dei suoi compatrioti oggi non se ne dolga non fa che illustrare quanto sia grande la perdita che hanno – e abbiamo – subìto.
* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel luglio 2009 sulla «New York Review of Books».
1 The Pity of It All: A History of the Jews in Germany, 1743-1933, Metropolitan Books, New York 2002 [trad. it di Pia Pera, Requiem Tedesco. Storia degli ebrei in Germania, 1743-1933, Mondadori, Milano 2005]. Fra gli altri libri di Amos Elon vi sono The Israelis: Founders and Sons, Holt, Rinehart and Winston, New York 1971 [trad. it. di A.M. Falco Tedeschi e K. Bagnoli, Israeliani. Padri fondatori e figli, Editoriale viscontea, Pavia 1988]; Herzl, Holt, Rinehart and Winston, New York 1975 [trad. it. di Lydia Magliano, La rivolta degli ebrei, Rizzoli, Milano 1979]; Journey Through a Haunted Land: The New Germany, Holt, Rinehart and Winston, New York 1967; e A Blood-Dimmed Tide: Dispatches from the Middle East, Columbia University Press, New York 1997.
2 Amos Elon, No Exit, «The New York Review of Books», 23 maggio 2002.
3 Omer Bartov, Amos Elon et al., An Alternative Future: An Exchange, «The New York Review of Books», 4 dicembre 2003.
4 Amos Elon, Israel and the End of Zionism, «The New York Review of Books», 19 dicembre 1996.
5 Id., «Exile’s Return»: A Response to Justus Reid Wiener, «The New York Review of Books», 24 febbraio 2000.
6 Id., Israel and the End of Zionism, cit.
7 Id., «Exile’s Return», cit. I versi del poema The Fall of Hyperion di John Keats recitano: «Hanno i loro sogni i fanatici / e un paradiso poi con essi intrecciano / per una setta» [trad. it. La caduta di Iperione, a cura di Elido Fazi, Fazi, Roma 1995, Canto I, vv. 1-3].