Capitolo
28
Leszek Kołakowski
(1927-2009)*
Ho assistito una sola volta a una conferenza di Leszek Kołakowski. Fu alla Harvard University, nel 1987, dove era ospite del seminario di teoria politica condotto dalla compianta Judith Shklar. Era appena uscita l’edizione inglese di Main Currents of Marxism [Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo] e Kołakowski era all’apice della notorietà. Tanti erano gli studenti che volevano sentirlo parlare che la conferenza era stata spostata in un grande auditorium pubblico, al quale potevano accedere anche ospiti esterni. Io mi trovavo a Cambridge per un convegno e ci andai con alcuni amici.
Il titolo, suggestivo e seducente, dell’intervento di Kołakowski era Il demonio nella storia. Per un po’ regnò il silenzio: studenti, docenti e visitatori ascoltavano assorti. Molti, nel pubblico, conoscevano bene gli scritti di Kołakowski e il suo penchant per l’ironia e il ragionamento serrato. Ciononostante, i presenti erano chiaramente in difficoltà nel seguire il discorso. Per quanto si sforzassero, non riuscivano a decodificare la metafora. Sull’auditorium prese a calare un’aria di smarrita perplessità. Fu allora, a un terzo, più o meno, del discorso, che il mio vicino – Timothy Garton Ash – si sporse verso di me. «Ci sono», bisbigliò. «Sta parlando veramente del demonio». Era proprio così.
Prendere il male estremamente sul serio è stato uno dei tratti distintivi della traiettoria intellettuale di Leszek Kołakowski. Tra le false premesse di Marx, a suo avviso, c’era l’idea che la radice di tutti i difetti umani stia nelle circostanze sociali. Marx aveva «interamente trascurato la possibilità che certe fonti di conflittualità e aggressione possano essere insite nei tratti permanenti della specie»1. O, per dirla come si espresse in quella conferenza ad Harvard: «Il male [...] non è contingente [...] ma un fatto ostinato e irredimibile». Per Leszek Kołakowski, passato per l’occupazione nazista della Polonia e l’avvento dei sovietici, «il demonio fa parte della nostra esperienza. La nostra generazione lo ha visto in faccia abbastanza da dover prendere il messaggio con la massima serietà»2.
Nella maggior parte dei necrologi seguiti alla sua recente dipartita, all’età di ottantun anni, questo aspetto di Kołakowski manca del tutto. E non c’è da stupirsene. Nonostante il fatto che buona parte del mondo continui a credere in un dio e a praticare una religione, gli intellettuali e i commentatori occidentali oggi provano disagio verso l’idea della fede rivelata. Il dibattito pubblico in materia beccheggia malamente tra la sicumera del diniego («dio» non esiste di sicuro, e comunque la colpa è tutta sua) e la cecità della devozione. Che un intellettuale e studioso del calibro di Kołakowski prendesse sul serio non solo la religione e le idee religiose, ma addirittura il demonio stesso è un mistero per molti suoi lettori, per il resto ammirati: una cosa che hanno preferito ignorare.
A complicare ancora la prospettiva assunta da Kołakowski c’è poi la distanza scettica che manteneva dalle formulette acritiche delle religioni ufficiali (non ultima la propria, quella cattolica) e la sua solitaria posizione di unico studioso di fama internazionale del marxismo a poter rivendicare un’analoga preminenza nella storia del pensiero religioso3. La padronanza di Kołakowski dello studio delle eresie e degli scismi del cristianesimo e dei relativi scritti dona profondità e arguzia alla sua descrizione, poi largamente ripresa, del marxismo come canone religioso, con scritture maggiori e minori, strutture gerarchiche di autorità testuali, eretici e dissidenti. Con Isaiah Berlin, suo collega a Oxford e come lui mitteleuropeo, Leszek Kołakowski condivideva la disincantata diffidenza verso tutte le certezze dogmatiche e una dolente insistenza sulla necessità di riconoscere il costo di ogni significativa scelta politica o etica. Ci sono buone ragioni per limitare la libertà dell’attività economica a vantaggio della sicurezza, e la possibilità per il denaro di produrre automaticamente altro denaro. Ma sono appunto limitazioni della libertà, e così vanno chiamate: non si può dire che siano una più alta forma di libertà4.
Mal sopportava chi supponeva, a dispetto della storia del ventesimo secolo, che si potessero ottenere progressi politici radicali con bassi costi morali e umani, o che i costi, se significativi, si potessero dare per compensati dai benefici futuri. Da un lato, resisteva coerentemente a ogni semplicistico teorema che pretendesse di cogliere verità umane eterne. Dall’altro, considerava certi aspetti evidenti della condizione umana troppo ovvi per ignorarli, per quanto scomodi possano essere:
Non c’è nulla di sorprendente nel fatto che resistiamo con forza alle implicazioni di molte ovvie verità; accade in ogni campo del sapere, semplicemente perché i truismi sulla vita umana sono per la maggior parte sgradevoli5.
Ma questa considerazione non deve per forza – e non nel caso di Kołakowski – far pensare a una risposta reazionaria o quietista. Il marxismo potrà anche essere stato un errore categoriale nella visione storico-universale, ma non ne consegue che il socialismo sia stato un disastro completo; e neppure bisogna concludere che non si possa o non si debba lavorare per migliorare le condizioni del genere umano:
Quanto è stato fatto in Europa occidentale per migliorare la giustizia, la sicurezza, le opportunità di istruzione, la sicurezza sociale e la responsabilità dello Stato verso i poveri e i bisognosi mai avrebbe potuto ottenersi senza la pressione delle ideologie e dei movimenti socialisti, con tutte le loro ingenuità e illusioni. [...] L’esperienza passata parla in parte a favore dell’idea socialista e in parte contro di essa.
Questo attento equilibrio nell’apprezzamento della complessità della realtà sociale – l’idea che «l’umana fraternità è disastrosa come programma politico, ma indispensabile come segno e guida» – già pone Kołakowski in posizione tangenziale rispetto alla maggior parte degli intellettuali della sua generazione. A Est come a Ovest, la tendenza generale è stata piuttosto a ondeggiare tra l’eccessiva fiducia nelle possibilità di infinito miglioramento umano e un’infantile rimozione della nozione stessa di progresso. Kołakowski si è posto a cavallo di questo caratteristico fossato novecentesco. La fraternità fra gli uomini, nel suo pensiero, restava «un’idea normativa, più che costitutiva»6.
A essere chiamato in causa, qui, è quella sorta di compromesso pragmatico che oggi associamo alla socialdemocrazia, o, nell’Europa occidentale continentale, alla sua consorella democratico-cristiana. Salvo, ovviamente, che la socialdemocrazia – con lo sgradito fardello delle connotazioni assunte dal «socialismo» e dal suo passato novecentesco – è oggi fin troppo spesso l’amore che non osa dire il suo nome. Leszek Kołakowski non era affatto un socialdemocratico. Ma è stato decisamente attivo nella storia politica concreta del suo tempo, e più volte. Nei primi anni dello Stato comunista, Kołakowski (pur non ancora trentenne) era il massimo filosofo marxista polacco. Dopo il 1956 elaborò e articolò un pensiero dissenziente in una regione in cui ogni opinione critica era destinata prima o poi all’emarginazione. Da professore di storia della filosofia all’università di Varsavia tenne una famosa lezione aperta, nel 1966, accusando il Partito comunista di avere tradito il popolo: un atto di coraggio politico che gli costò la tessera. Due anni dopo veniva debitamente esiliato in occidente. D’allora in poi, Kołakowski è stato faro e riferimento per quei giovani dissidenti che avrebbero costituito il nucleo dell’opposizione politica polacca all’interno del paese dalla metà degli anni Settanta in poi, quelli che sono stati la spinta e l’energia intellettuale dietro il movimento di Solidarność e sono andati al potere nel 1989. Leszek Kołakowski è stato dunque, integralmente, un intellettuale impegnato, a dispetto del suo disprezzo per le vanesie pretese dell’engagement. Impegno e «responsabilità» dell’intellettuale, così discussi e idolatrati fra i pensatori dell’Europa continentale nella generazione seguita alla seconda guerra mondiale, gli parevano concetti essenzialmente vuoti:
Perché mai gli intellettuali dovrebbero essere specificamente responsabili, e in modo diverso dagli altri; e di cosa? [...] Il mero senso di responsabilità è una virtù formale che di per sé non dà luogo a obblighi specifici: è possibile sentirsi responsabili tanto per una buona causa quanto per una causa malvagia.
Questa semplice osservazione sembra essersi raramente affacciata a una generazione di esistenzialisti francesi e ai loro ammiratori anglo-americani. Può darsi che si debba aver provato in prima persona l’attrazione che possono esercitare certe cause totalmente malvagie (di sinistra o di destra) su certi intellettuali per altri versi responsabili, per poter capire in pieno il prezzo, oltre ai benefici, dell’impegno ideologico e dell’unilateralismo morale.
Come lascia capire quanto sopra, Leszek Kołakowski non era uno dei vari «filosofi continentali» nel senso solitamente dato all’espressione nell’uso accademico odierno, con particolare riferimento a Heidegger, Sartre e i loro epigoni. Ma neppure aveva granché in comune con il pensiero anglo-americano nella forma che è giunta a dominare le università di lingua inglese dopo la seconda guerra mondiale, e ciò indubbiamente spiega l’isolamento e la scarsa considerazione in cui fu tenuto nei decenni trascorsi a Oxford7. Le fonti della prospettiva particolare di Kołakowski, al di là della sua interrogazione di tutta una vita della teologia cattolica, vanno probabilmente ricercate nell’esperienza più che in un’epistemologia. Come egli stesso osservava nel suo magnum opus, «alla formazione di una visione del mondo contribuiscono varie circostanze, e [...] tutti i fenomeni sono dovuti a una inesauribile molteplicità di cause»8.
Nel caso dello stesso Kołakowski, della molteplicità delle cause fanno parte non solo i traumi di un’infanzia immersa nella seconda guerra mondiale e la catastrofica storia del comunismo negli anni seguenti, ma anche la particolarissima situazione della Polonia nel suo tragitto attraverso questi decenni di sconvolgimenti. Perché, se non è sempre chiaro dove, di preciso, vuole arrivare il particolare modo di pensare di Kołakowski, è sempre perfettamente evidente che non viene «da nessun dove».
Cosmopolita più di ogni altro moderno filosofo europeo – a suo agio in cinque grandi lingue e nelle relative culture – e in esilio per più di vent’anni, Kołakowski non è mai stato uno «sradicato». A differenza, per esempio, di Edward Said, si domandava anzi se fosse davvero possibile, in buona fede, sottrarsi a ogni forma di lealtà comunitaria. Mai proprio inserito, ma mai del tutto fuori posto, Kołakowski criticò per tutta la vita gli eccessi del nativismo, ma nella sua nativa Polonia è stato oggetto di adulazione, e a buon diritto. Europeo fino al midollo, Kołakowski non ha mai smesso di interrogare con distaccato scetticismo le ingenue illusioni dei paneuropeisti, la cui aspirazione all’omogeneizzazione gli ricordava gli squallidi dogmi utopistici di un altro tempo. La diversità, purché non fosse idolatrata come obiettivo in sé, gli pareva un’aspirazione più prudente, e assicurabile soltanto attraverso la preservazione delle distinte identità nazionali9. Sarebbe facile concludere che Leszek Kołakowski è stato un unicum. La sua caratteristica miscela di ironia e serietà morale, sensibilità religiosa e scetticismo epistemologico, impegno sociale e dubbio politico era davvero rara (e andrebbe aggiunto che l’uomo colpiva per il suo carisma: esercitava un magnetismo assai simile, in ogni pubblica occasione, a quello del compianto Bernard Williams, e in parte per gli stessi motivi10). Ma non pare irragionevole ricordare che proprio per queste ragioni – carisma compreso – era anche fermamente iscritto in una particolarissima linea di discendenza. La pura e semplice vastità della sua cultura e dei riferimenti cui attingeva, l’arguzia allusiva e disincantata, la paziente accettazione del provincialismo accademico delle fortunate lande occidentali in cui aveva trovato rifugio, l’esperienza e la memoria della Polonia nel ventesimo secolo incisa, per così dire, nei suoi lineamenti maliziosamente espressivi: tutto questo identifica Leszek Kołakowski come un vero intellettuale della Mitteleuropa, forse l’ultimo. Per due generazioni di uomini e donne nati fra il 1880 e il 1930, la tipica esperienza mitteleuropea del Novecento è consistita in un’educazione plurilingue nel centro e nel cuore stesso della raffinata civiltà urbana d’Europa, poi affinata, coronata e posta nell’ombra dall’esperienza di dittatura, guerra, occupazione, devastazione e genocidio vissuta da quello stesso cuore e centro.
Nessuna persona di buon senso potrebbe voler ripetere una tale esperienza solo per riprodurre le qualità del pensiero, e dei pensatori, generati da una simile educazione sentimentale. C’è non poco di sgradevole nelle espressioni di nostalgia per il perduto mondo intellettuale dell’Europa dell’Est comunista, che sfumano fastidiosamente vicino al rimpianto dell’altrui repressione. Ma come Leszek Kołakowski sarebbe stato il primo a ricordare, il rapporto tra la storia novecentesca dell’Europa centrale e la stupefacente dovizia della sua cultura resta tuttavia un fatto; non lo si può semplicemente ignorare.
Ne è risultato quello che Judith Shklar, in un altro contesto, ha chiamato «liberalismo della paura»: la difesa senza compromessi della ragione e della moderazione che nasce dall’esperienza di prima mano delle conseguenze degli eccessi ideologici, la sempre presente consapevolezza della possibilità della catastrofe, al suo peggio quando malamente interpretata come opportunità o rinnovamento, e delle tentazioni del pensiero totalizzante in tutta la sua multiforme varietà. Sulla scia della storia del ventesimo secolo, questa è la lezione dell’Europa centrale. Se avremo molta fortuna, non ci toccherà reimpararla daccapo ancora per un po’; quando dovremo farlo, ci conviene sperare che ci sia in giro qualcuno che possa insegnarla. Fino ad allora, faremmo bene a rileggere Kołakowski.
* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel settembre 2009 sulla «New York Review of Book».
1 The Myth of Human Self-Identity, in The Socialist Idea: A Reappraisal, a cura di Leszek Kołakowski e Stuart Hampshire, Basic Books, New York 1974, p. 32.
2 The Devil in History, in My Correct Views on Everything, St. Augustine’s Press, South Bend (IN) 2005, p. 133.
3 Un esempio rappresentativo dell’approccio di Kołakowski alla storia del pensiero religioso può essere, per esempio, God Owes Us Nothing: A Brief Remark on Pascal’s Religion and on the Spirit of Jansenism, University of Chicago Press, Chicago 1995. Non sarebbe eccessivo dire che Kołakowski è stato un pascaliano del ventesimo secolo, che puntava con prudenza sulla ragione invece che sulla fede.
4 Leszek Kołakowski, Modernity on Endless Trial, University of Chicago Press, Chicago 1990, pp. 226-227.
5 Kołakowski e Hampshire, The Socialist Idea, cit., p. 17.
6 Kołakowski, Modernity on Endless Trial, cit., p. 144.
7 Altrove i suoi meriti sono stati copiosamente riconosciuti. Nel 1983 gli fu assegnato il premio Erasmus. Nel 2004 è stato il primo a essere insignito del premio Kluge della Biblioteca del Congresso statunitense, dove vent’anni prima era stato chiamato a tenere la prestigiosa Jefferson Lecture. Tre anni dopo è stato insignito del premio Gerusalemme.
8 Leszek Kołakowski, Main Currents of Marxism, Volume III: The Breakdown, Clarendon Press/Oxford University Press, New York 1978, p. 339 [trad. it. dal polacco di Paola Belmi, Nascita sviluppo dissoluzione del marxismo, vol. III, La crisi, SugarCo, Milano 1985, p. 306]. Ringrazio Leon Wieseltier per la segnalazione.
9 Kołakowski, Modernity on Endless Trial, cit., p. 59. Si veda, per Edward Said, Out of Place: A Memoir, Vintage, New York 2000 [trad. it. di Adriana Bottini, Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia, Feltrinelli, Milano 2009].
10 A un ricevimento in suo onore dopo la conferenza a Cambridge, ricordo di avere osservato con stupefatta ammirazione e non poca invidia la migrazione di praticamente tutte le giovani donne in sala verso l’angolo dove il filosofo sessantenne, già ingrigito e appoggiato a un bastone, teneva corte dinanzi ai loro occhi adoranti. Mai sottovalutare il magnetico potere di attrazione della pura intelligenza.