Capitolo
18
Il nuovo ordine mondiale*
I
Chi fra noi si oppose sin dall’inizio all’invasione americana dell’Iraq non può trovare conforto nelle sue conseguenze catastrofiche. Al contrario, ora dovremmo porci alcune domande decisamente scomode. La prima riguarda la legittimità dell’intervento militare «preventivo». Se la guerra in Iraq è sbagliata – «la guerra sbagliata nel momento sbagliato»1 – perché allora la guerra condotta dagli Stati Uniti contro la Serbia nel 1999 era giusta? Anche quella guerra, in fondo, fu combattuta senza l’imprimatur del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Anche in quel caso si trattò di un attacco non autorizzato e non richiesto contro uno Stato sovrano – intrapreso per motivi «preventivi» – che causò numerose vittime civili e suscitò astioso risentimento nei confronti degli americani che lo avevano effettuato.
La differenza lampante – e il motivo per cui molti di noi applaudirono quando gli Stati Uniti e gli alleati andarono in Kosovo – era che Slobodan Milošević aveva avviato una campagna contro la maggioranza albanese della provincia serba del Kosovo che presentava tutte le caratteristiche di un preludio al genocidio. Perciò, non solo gli Stati Uniti erano dalla parte giusta, ma intervenivano in tempo reale: le loro azioni avrebbero davvero potuto prevenire un crimine atroce. Con il ricordo ignominioso della Bosnia e del Ruanda nel recentissimo passato, le probabili conseguenze dell’inazione parevano ovvie e superavano di gran lunga i rischi dell’intervento. Oggi l’amministrazione Bush – in mancanza di «armi di distruzione di massa» che giustifichino la sua corsa alle armi – propone di «portare la libertà in Iraq» come se fosse una specie di ripensamento. Ma salvare gli albanesi kosovari era stato sin dall’inizio il solo scopo della guerra del 1999.
Eppure non è così semplice. Saddam Hussein (come Milošević) era una minaccia costante per molti suoi sottoposti: non solo ai tempi in cui massacrava i curdi e gli sciiti mentre noi stavamo a guardare, ma fino alla fine dei suoi giorni. Chi di noi è favorevole, in linea di principio, agli interventi umanitari – non perché esaltano le nostre buone intenzioni, ma perché fanno del bene o prevengono il male – se è coerente non può rammaricarsi di vedere Saddam Hussein spodestato. Chi di noi si oppone all’esercizio unilaterale della forza bruta, dovrebbe ricordare che dieci anni fa saremmo stati lieti di vedere qualcuno – chiunque – intervenire unilateralmente per salvare i tutsi in Ruanda. E chi di noi, giustamente a mio parere, mette in luce le conseguenze nefaste comportate dall’intromettersi, anche con le migliori intenzioni del mondo, negli affari di altri paesi, non sempre ha mostrato lo stesso acume nei casi in cui eravamo impazienti di vedere cominciare l’intromissione.
David Rieff non ha soluzioni da offrire per questi dilemmi – la nota dominante del suo ultimo libro è il pessimismo disincantato. Ma la nuova raccolta dei suoi recenti saggi e reportage ha la funzione salutare di ricordarci fino a che punto questi dilemmi possano essere angoscianti. Per molti anni Rieff è stato uno strenuo difensore dell’intervento umanitario ovunque – non solo come cerotto per le ferite del mondo, ma perché, come Paul Wolfowitz fra gli altri, era sinceramente convinto dell’auspicabilità e della possibilità di favorire un cambiamento in senso democratico nei luoghi in cui era necessario. In questa selezione l’autore ha incluso alcuni suoi primi saggi, nei quali sosteneva in modo commovente la tesi dell’intervento occidentale: in Africa, nei Balcani e altrove. Ora, come Rieff ammette nelle considerazioni aggiunte a posteriori ad alcuni di quei saggi, non ha più tutte quelle certezze.
Le cose vanno male, e non solo in Iraq. Il diritto internazionale – come l’Onu stessa – è stato concepito in un mondo di Stati sovrani, un mondo in cui le guerre scoppiavano tra paesi, la pace era debitamente negoziata fra gli Stati e una grande preoccupazione negli accordi successivi alla seconda guerra mondiale era garantire l’inviolabilità dei confini e della sovranità. Le guerre di oggi tipicamente si svolgono all’interno degli Stati. Le distinzioni tra peacemaking e peacekeeping – tra intervento, assistenza e coercizione – sono poco chiare e altrettanto lo sono i diritti delle parti in conflitto e le circostanze nelle quali gli organismi esterni possono fare ricorso alla forza. In questo nuovo mondo disorientante, diplomatici e osservatori occidentali animati da buone intenzioni talvolta si sono dimostrati incapaci di distinguere tra Stati belligeranti – che operano secondo le norme diplomatiche convenzionali – e tiranni sanguinari che godono di potere a livello locale, come i leader del Sudan. I negoziati con questi ultimi troppo spesso equivalgono a collaborazione e persino complicità.
Per quanto riguarda l’Onu («quella vecchia bisbetica sdentata», per citare le parole di Rieff), non solo è incapace di prevenire i comportamenti criminali, ma con la sua ossessione per l’«imparzialità» e la difesa del proprio personale può rendersi complice e facilitare i massacri. A Srebrenica, nel luglio del 1995, quattrocento caschi blu olandesi si fecero garbatamente da parte per permettere a Ratko Mladić e ai suoi irregolari serbo-bosniaci di sterminare settemila uomini e ragazzi musulmani opportunamente riuniti in una zona «sicura» sotto l’egida delle Nazioni Unite. Questo può essere un caso estremo – ma è proprio in circostanze estreme come queste che gli organismi internazionali di ogni tipo, per quanto buone siano le loro intenzioni, non possono evitare di compromettersi, soprattutto quando le grandi potenze che siedono nel Consiglio di sicurezza rifiutano di autorizzare un adeguato sostegno armato. Quando le organizzazioni benefiche private e lo stesso Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati contribuiscono a trasportare, sistemare, ospitare e nutrire persone sfollate con la forza – che sia nei Balcani meridionali, nel Congo orientale o in Medio Oriente – prestano un’assistenza oltremodo necessaria o facilitano il progetto di pulizia etnica di qualcun altro? Troppo spesso la risposta è: entrambe le cose.
Rieff si spinge oltre. Molte agenzie umanitarie, pubbliche e private, sono per definizione orientate a rispondere alle emergenze. In una crisi la loro priorità è prestare assistenza immediata (e proteggere il proprio personale); non hanno tempo né propensione per la risoluzione duratura dei problemi o il calcolo politico. Di conseguenza si prestano a essere sfruttate: dalle vittime (Rieff è particolarmente acido nei riguardi dell’Uck, l’esercito di liberazione del Kosovo, che un tempo ammirava, ma ora gli sembra sia sempre stato incline alla violenza e intenzionato a espellere con la forza i serbi rimasti in Kosovo – di fatto, poco meglio delle controparti serbe), ma soprattutto dalle grandi potenze, dalle quali in pratica tali organizzazioni umanitarie vengono ingaggiate e della cui cooperazione hanno bisogno.
Nella misura in cui offrono una copertura per interventi armati la cui legalità è dubbia e i cui limiti sono inevitabili, i gruppi umanitari compromettono la propria reputazione e credibilità morale e a volte non raggiungono nemmeno gli obiettivi perseguiti. L’Onu, in particolare, rischia di diventare, secondo Rieff, un’«agenzia coloniale della potenza americana» che sgombra le macerie dopo le invasioni statunitensi ed è usata «come un Kleenex di lusso... come al solito», secondo la descrizione fornita da un disilluso funzionario delle Nazioni Unite in Iraq, citato con approvazione da Rieff. Questo giudizio può sembrare un po’ severo. Per amara esperienza, dopo tutto, le agenzie che prestano assistenza in luoghi pericolosi sanno che conservarsi la simpatia della potenza occupante, o di un capoclan o di un poliziotto locale corrotto – qualunque sia il costo a breve termine per la credibilità – è l’unico modo di restare presenti sul posto e riuscire così a fare almeno qualcosa di buono.
Il tono disincantato di Rieff può dunque sfiorare il cinismo: «I sogni imperiali dei neoconservatori statunitensi come [Max] Boot o [Robert] Kagan sono più sensati delle oscillazioni della sinistra umanitaria». E i suoi saggi mostrano i segni di una certa fretta, sia nella stesura originale sia nella ripubblicazione successiva: apprendiamo che in Kosovo «l’Occidente è stato finalmente preso nelle sue stesse reti, vittima del suo rispetto solo verbale per l’imperativo categorico dei diritti umani». Inoltre, ben poco di ciò che Rieff ha da dire sugli effetti aberranti dell’intromissione benintenzionata negli affari di altre nazioni giungerà nuovo a molti lettori. Ma c’è stato un tempo in cui Rieff avrebbe accettato tali effetti collaterali sgradevoli come la parte migliore del coraggio progressista: «al volgere del millennio la nostra scelta», scriveva qualche anno fa, «sembra ridursi a quella tra imperialismo o barbarie». Dopo l’esperienza dell’Iraq, tuttavia, le cose appaiono diverse ed egli ammette mestamente che «non mi ero accorto di quanto l’imperialismo sia barbarie, o almeno possa sempre diventarlo»2.
Oggi Rieff non è contrario agli interventi umanitari, ma pensa che ogni caso vada discusso nel merito con pragmatismo e senza farsi illusioni: soprattutto illusioni riguardo all’entità del cambiamento effettivo che possiamo sperare di apportare e al prezzo da pagare3. È tuttora convinto che saremmo dovuti intervenire prima in Bosnia e che siamo collettivamente responsabili di avere permesso il genocidio in Ruanda. Come dovremmo dunque decidere in futuro quando stare a guardare e quando intervenire? E chi è il «noi» che ha la responsabilità e la capacità di scongiurare queste catastrofi? La «comunità internazionale», che in pratica significa le Nazioni Unite e le loro varie agenzie di soccorso e forze di pace? Rieff, un amante deluso, è decisamente sprezzante nei riguardi dell’organizzazione – «Soltanto nel contesto africano si potrebbe chiamare ‘centro di potere’ un’istituzione in stato di abbandono come l’Onu, che i suoi più profondi conoscitori considerano un’organizzazione sottomessa» –, ma non ha niente di meglio da offrire.
«In stato di abbandono»? «Sottomessa»? Il disprezzo di Rieff è ampiamente condiviso. Un noto avvocato che si occupa di tutela dei diritti umani e che operava con le Nazioni Unite in Africa accusa l’organizzazione – e il suo attuale Segretario generale, Kofi Annan – di «essersi arresa al male» in quella regione4. I neoconservatori hanno da tempo liquidato le Nazioni Unite come irrilevanti: «l’Onu è il garante del nulla. A malapena si può affermare che esista, se non a livello formale»5. L’amministrazione Bush ha nominato di proposito, quale suo prossimo ambasciatore presso il Palazzo di vetro, un uomo che disdegna l’organizzazione. Un «gruppo di esperti di alto livello», istituito di recente dal Segretario generale delle Nazioni Unite, riconosce la cattiva gestione delle operazioni post-conflitto da parte dell’organizzazione e i suoi trascorsi di coordinamento carente, spese sconsiderate e dispendiosa rivalità tra le varie agenzie. Il panel descrive in modo esplicito la tristemente nota Commissione per i diritti umani come un organismo che risente di «un deficit di legittimità», per usare la sua elegante definizione.
Il problema fondamentale delle Nazioni Unite, tuttavia, non è né l’inefficienza, né la corruzione, né la mancanza di «legittimità». È la debolezza. L’Onu non ha il potere di avviare un intervento internazionale senza l’approvazione unanime del Consiglio di sicurezza, i cui cinque membri permanenti hanno tutti diritto di veto – e, almeno nel caso degli Stati Uniti, non hanno mai esitato a esercitarlo. Per molto tempo le Nazioni Unite sono state tenute in scacco dalla guerra fredda, con la sola facoltà di adottare «risoluzioni» magniloquenti. Dal 1990, tuttavia, l’Onu e le sue agenzie hanno assunto un ruolo di maggior rilievo e trovato una particolare legittimazione internazionale quali mediatori, costruttori e garanti di pace – al punto (inimmaginabile pochi decenni fa) che per centinaia di milioni di persone nel mondo la legittimità dell’invasione americana dell’Iraq dipendeva dalla possibilità per Washington di ottenere l’avallo di una seconda risoluzione del Consiglio di sicurezza6.
Come fa notare il panel di Kofi Annan, «l’uso della forza autorizzato collettivamente oggi può anche non essere la regola, ma non è più un’eccezione». Ma questo mette in evidenza una seconda debolezza. In un mondo in cui la violazione dei diritti dei cittadini da parte dei governi è diventata il motivo principale per l’intervento armato, l’importanza attribuita all’inviolabilità degli Stati sovrani nella Carta delle Nazioni Unite presenta un dilemma. La necessità di bilanciare i diritti individuali e le prerogative degli Stati non è certo una sfida nuova (se ne occupò in particolare Dag Hammarskjöld, Segretario generale delle Nazioni Unite tra il 1953 e il 19617), ma l’Onu dispone tuttora di poche risorse, giuridiche o logistiche, con cui affrontarla. Soprattutto non ha un proprio esercito o una propria forza di polizia armata. Ha quindi preferito tenersi alla larga dai conflitti che richiedono l’uso della forza, fatto che ha indotto il gruppo di esperti a concludere che «la principale fonte di inefficienza nelle nostre istituzioni garanti della sicurezza collettiva è semplicemente la mancanza di volontà di pensare seriamente a prevenire la violenza omicida».
Il medesimo gruppo di esperti, tuttavia, descrive in modo molto chiaro ciò che le Nazioni Unite hanno nondimeno conseguito. Il loro più grande successo è stato convincere tanto i democratici quanto i dittatori della necessità di avere almeno una parvenza di legittimazione, ottenendo o richiedendo l’autorizzazione dell’Onu come foglia di fico per le loro azioni. Oggi la presenza delle forze di pace delle Nazioni Unite in tutto il mondo – dalla Bosnia alla Abcasia a Timor Est – in alcuni casi può avere un effetto perverso e paradossale, come Rieff e altri malinconicamente documentano; ma la loro assenza, o la loro presenza in numero insufficiente o con un mandato inadeguato, è quasi sempre catastrofica. Quando il mandato delle Nazioni Unite non può essere eseguito – perché uno Stato illiberale potente non tollera interferenze nei suoi affari interni (come in Cecenia, o tra gli uiguri nella Cina occidentale) – accadono cose terribili. Tutto sommato, i risultati conseguiti dalle Nazioni Unite non sono così riprovevoli. Come conclude il gruppo di alto livello:
Abbiamo constatato che l’Onu è stata molto più efficace nel rispondere alle grandi minacce per la pace e la sicurezza di quanto si creda.
I sedici esperti delle Nazioni Unite che ragionano così non sono una banda di idealisti umanitari di sinistra. Fra loro si contano quattro ex primi ministri, il presidente del prestigioso International Crisis Group (Gareth Evans, ex ministro degli Esteri australiano), un inviato britannico presso le Nazioni Unite in pensione e il generale Brent Scowcroft, consigliere per la sicurezza nazionale del primo presidente Bush. Per essere un comitato dell’Onu, le conclusioni degli esperti sono piacevolmente concrete e hanno quindi un peso inusuale. E ciò che concludono è questo: oggi c’è un «forte desiderio di un sistema internazionale fondato sul primato del diritto». Un sistema internazionale del genere può funzionare soltanto se è sostenuto da «risorse militari che sia possibile impiegare» e soltanto se gli Stati membri delle Nazioni Unite possono dotare l’organizzazione, le sue agenzie e il relativo personale di tali risorse. Se si ostinano a non farlo, diventerà presto evidente, come avvenne alla metà degli anni Novanta, che «l’Onu ha barattato le pastoie della guerra fredda con la camicia di forza del compiacimento degli Stati membri e dell’indifferenza delle grandi potenze».
Al tempo stesso, il sistema internazionale, così come lo conosciamo oggi, non può sopravvivere se i singoli Stati membri scelgono invece di impiegare le rispettive risorse a livello unilaterale. In pratica c’è un solo Stato membro dell’Onu in grado di farlo, ripetutamente e su scala globale, e gli esperti delle Nazioni Unite dicono senza ambagi che cosa ne pensano:
In un mondo pieno di potenziali minacce8, il rischio per l’ordine mondiale e la norma di non intervento sulla quale esso continua a basarsi è semplicemente troppo grosso perché si possa ammettere la legalità dell’azione preventiva unilaterale, intesa come azione distinta da quella approvata a livello collettivo.
Il «noi» della mia domanda sugli interventi futuri, in altre parole, può essere soltanto la comunità internazionale delle nazioni. Ma il gruppo di alto livello di Kofi Annan non ha preso cantonate riguardo ai fatti della vita internazionale:
Se si vuole trovare una nuova intesa sul tema della sicurezza, bisogna partire dalla premessa che i soggetti in prima linea di fronte a tutte le minacce esistenti, vecchie e nuove, continuano a essere i singoli Stati sovrani.
II
E così il cerchio si chiude e torniamo al punto di partenza. Esistono tanti singoli Stati sovrani. Ma soltanto uno di essi, gli Stati Uniti d’America, ha sia la volontà sia i mezzi per sostenere gli interventi armati internazionali e aiutare ad attuarli. Questo fatto è ovvio da tempo, come ben sappiamo. Ma lungi dall’essere motivo di inquietudine a livello internazionale, per molti era fonte di rassicurazione. Non solo gli Stati Uniti sembravano condividere gli scopi umanitari e democratici delle varie agenzie e alleanze che avevano contribuito a istituire nel 1945, ma erano governati da una classe politica che capiva il vantaggio derivante dall’uso di un certa moderazione, convinta come Harry Truman che
tutti noi dobbiamo riconoscere – non importa quanto grande sia la nostra forza – che non possiamo permetterci di fare sempre ciò che ci piace9.
Le grandi potenze, com’è ovvio, non sono enti filantropici. Gli Stati Uniti non hanno mai smesso di perseguire l’interesse nazionale, nel senso in cui le varie amministrazioni che si sono succedute l’hanno inteso. Ma nei dieci anni successivi alla fine della guerra fredda gli Stati Uniti e la «comunità internazionale» sembravano avere, se pur fortuitamente, un insieme di interessi e di obiettivi comuni; anzi, la preponderanza militare americana alimentava ogni genere di sogno progressista di miglioramento globale. A questo si devono gli entusiasmi e le speranze degli anni Novanta – e, anche, la furibonda delusione di oggi. Perché gli Stati Uniti del presidente George W. Bush decisamente non condividono gli interessi e gli obiettivi della comunità internazionale. Molti membri di quest’ultima direbbero che ciò è dovuto al fatto che gli Stati Uniti stessi sono cambiati in maniera senza precedenti e piuttosto allarmante. Andrew Bacevich sarebbe d’accordo con loro.
Bacevich si è laureato a West Point, è un veterano del Vietnam e un cattolico conservatore che ora dirige lo studio delle relazioni internazionali presso la Boston University. Si è quindi guadagnato il diritto a essere ascoltato anche in circoli tipicamente immuni dalle critiche. Ciò che scrive dovrebbe farli esitare. La sua tesi è complessa e si fonda su un’accurata descrizione dei cambiamenti intervenuti nell’esercito statunitense dopo il Vietnam, sulla militarizzazione del pensiero politico strategico e sul ruolo dell’esercito nella cultura americana. Ma la sua conclusione è chiara. Gli Stati Uniti, scrive, stanno diventando non solo uno Stato militarizzato, ma anche una società militare: un paese in cui la potenza armata è la misura della grandezza nazionale e la guerra, o la pianificazione della guerra, è il progetto comune esemplare (e anche l’unico).
Perché il dipartimento della Difesa americano mantiene attualmente 725 basi militari ufficiali statunitensi in altri paesi e 969 sul suolo nazionale (per non parlare delle numerose basi segrete)? Perché gli Stati Uniti spendono per la «difesa» più di tutto il resto del mondo messo insieme? In fondo, non hanno nemici attuali o potenziali del tipo che può essere intimidito o sconfitto da una difesa missilistica stile «guerre stellari» o dalle «armi nucleari» che penetrano nei bunker. Eppure questo paese è ossessionato dalla guerra: notizie di guerra, immagini di guerra, guerra «preventiva», guerra «chirurgica», guerra «profilattica», guerra «permanente». Come ha spiegato il presidente Bush il 13 aprile 2004, in occasione di una conferenza stampa: «Questo paese deve passare all’offensiva e restare all’offensiva».
Fra le democrazie, soltanto in America i soldati e altri militari in uniforme sono onnipresenti nelle foto dei politici in posa e nei film di successo. Soltanto in America i civili acquistano entusiasti costosi veicoli militari per andare a fare shopping nei quartieri eleganti. In un paese che non ha più la supremazia in buona parte degli altri ambiti delle attività umane, la guerra e i guerrieri sono diventati gli ultimi durevoli simboli della predominanza americana e dello stile di vita americano. «Nella guerra, a quanto pareva», scrive Bacevich, «stava il vero vantaggio comparato dell’America».
Bacevich descrive bene le radici intellettuali del culto dell’aggressione terapeutica – citando fra gli altri l’inimitabile Norman Podhoretz (l’America ha una missione internazionale da compiere e non deve mai «tornare a casa»). Riepiloga anche la tesi dei realisti a favore della guerra, radicata nella lotta del paese – che diventerà sempre più disperata – per il controllo delle risorse petrolifere. Gli Stati Uniti consumano il 25 per cento di tutto il petrolio prodotto ogni anno nel mondo, ma hanno riserve proprie accertate che ammontano a meno del due per cento del totale mondiale. Questa lotta per Bacevich è la quarta guerra mondiale: la competizione per la supremazia in regioni strategiche e ricche di risorse energetiche come il Medio Oriente e l’Asia centrale10. È cominciata alla fine degli anni Settanta, ben prima della conclusione ufficiale della «terza guerra mondiale» (cioè la guerra fredda).
In questo contesto, la «guerra globale al terrore» di oggi è una battaglia, forse solo di secondaria importanza, tra il numero potenzialmente illimitato di battaglie che gli Stati Uniti saranno chiamati (o si chiameranno) a combattere. Queste battaglie saranno tutte vinte, perché gli Stati Uniti hanno il monopolio degli armamenti più avanzati – e possono risultare accettabili per il popolo americano perché, secondo Bacevich, quegli stessi armamenti, in particolare la forza aerea, hanno di nuovo conferito alla guerra una «rispettabilità estetica». Ma la guerra in sé non ha una conclusione prevedibile.
Da ex militare, Bacevich è molto turbato dalla conseguente militarizzazione delle relazioni estere americane e dallo svilimento dei valori marziali tradizionali del suo paese in guerre di conquista e di occupazione. Ed è chiaro che ha poca pazienza per le avventure estere di Washington dettate dall’ideologia: i benefici incerti per i destinatari stranieri sono di gran lunga surclassati dai costi morali a carico degli stessi Stati Uniti11. Perché i timori più profondi di Bacevich sono più vicini a casa. In una società militarizzata la varietà di opinioni accettabili inevitabilmente si riduce. L’opposizione al «comandante supremo» è subito considerata lesa maestà, la critica diventa tradimento. Nessuna nazione, come Madison scrisse nel 1795 e Bacevich ricorda con approvazione, può «preservare la propria libertà in uno stato di guerra permanente»12. «La supremazia assoluta» comincia come cliché del Pentagono e finisce come progetto esecutivo.
Anche se penso che Bacevich abbia ragione a vedere la guerra come il nocciolo della questione, l’attuale clima politico negli Stati Uniti non è caratterizzato soltanto dal culto delle armi. La poco repubblicana venerazione del nostro «leader» presidenziale ha reso eccezionalmente difficile per gli americani vedere il comportamento del proprio paese come lo vedono gli altri. L’ultimo rapporto di Amnesty International – che non dice niente che il resto del mondo non sappia o non creda già, ma è stato smentito e messo in ridicolo dal presidente Bush – è un esempio calzante. Le «restituzioni» degli Stati Uniti (cioè i rapimenti e le consegne di soggetti in odore di terrorismo) hanno dirottato i sospettati verso paesi terzi per sottoporli a interrogatori e torture fuori dalla portata della legge e della stampa statunitensi. Fra i paesi ai quali affidiamo questo compito figurano l’Egitto, l’Arabia Saudita, la Giordania, la Siria (!), il Pakistan e l’Uzbekistan. Quando servirsi di Stati terzi non è praticabile, importiamo esperti di interrogatori dall’estero: nel settembre 2002 una «delegazione» cinese in visita fu invitata a partecipare all’«interrogatorio» di detenuti di etnia uiguri a Guantánamo.
Presso i centri di interrogazione e detenzione degli Stati Uniti in Iraq, Afghanistan e Guantánamo Bay, almeno ventisette «sospettati» sono stati uccisi durante la prigionia. La cifra non comprende gli «omicidi mirati» extragiudiziari ed extraterritoriali: una pratica inaugurata da Benito Mussolini con l’assassinio dei fratelli Rosselli in Normandia nel 1937, portata avanti con vigore da Israele e ora adottata dall’amministrazione Bush. Il rapporto di Amnesty elenca sessanta presunte tecniche di detenzione e di interrogatorio praticate regolarmente nei centri di detenzione statunitensi, in particolare a Guantánamo. Tali tecniche comprendono l’immersione in acqua fredda per simulare l’annegamento, la rasatura forzata della barba e dei peli corporei, l’applicazione di scosse elettriche a varie parti del corpo, l’umiliazione (per esempio, urinare sui detenuti), gli abusi a carattere sessuale, la derisione delle credenze religiose, la sospensione nel vuoto, lo sforzo fisico fino all’estenuazione (per esempio, trasporto di massi) e la finta esecuzione.
Ciascuna di queste pratiche risulterà familiare agli studiosi dell’Europa orientale negli anni Cinquanta o dell’America Latina negli anni Settanta e Ottanta – compresa la presenza segnalata di «personale medico». Ma gli esperti di interrogatori statunitensi hanno anche introdotto innovazioni. Una tecnica consiste nell’avvolgere con la forza i sospettati – e il loro Corano – in bandiere israeliane: un gesto generoso nei riguardi del nostro unico alleato senza riserve, ma destinato ad assicurare che una nuova generazione di musulmani nel mondo identificherà i due paesi come uno solo e odierà entrambi allo stesso modo.
Tutte queste tecniche – e molte, molte altre praticate normalmente a Guantánamo, a Kandahar e Bagram in Afghanistan, ad al-Qaim, Abu Ghraib e altrove in Iraq – violano la convenzione di Ginevra e la convenzione Onu contro la tortura, entrambe le quali sono state ratificate dagli Stati Uniti (nel gennaio del 2002 persino i servizi segreti britannici hanno raccomandato al proprio personale in Afghanistan di non prendere parte al «trattamento inumano e degradante» riservato ai prigionieri dagli alleati statunitensi onde evitare di incorrere in responsabilità penali)13.
Le stesse tecniche sono praticate anche in violazione delle leggi statunitensi. Il «buco nero del diritto» in cui queste cose avvengono è creato dalla pretesa incredibilmente cinica secondo cui, poiché sono inflitte a cittadini stranieri in territori sui quali gli Stati Uniti non hanno autorità definitiva (per questi scopi riconosciamo prontamente che Guantánamo Bay appartiene a Cuba), il diritto americano e i giudici americani non hanno alcuna giurisdizione. I settantamila prigionieri attualmente detenuti al di fuori del territorio degli Stati Uniti possono essere incarcerati e tenuti in isolamento finché la guerra globale al terrore sarà combattuta, il che potrebbe significare decenni.
Forse l’aspetto più deprimente di questa triste vicenda è la palpabile sdegnosità con cui l’amministrazione Bush risponde alle critiche. In parte, ciò è dovuto al fatto che la critica stessa è diventata inconsueta. Con rare eccezioni – in particolare il lodevole Seymour Hersh sul «New Yorker» – la stampa americana è stata clamorosamente incapace di comprendere, e tanto meno di affrontare, il pericolo rappresentato da questa amministrazione. Costretti all’acquiescenza, giornali e televisioni negli Stati Uniti hanno permesso al potere esecutivo di ignorare la legge e commettere abusi dei diritti umani indenni da controlli o contestazioni. Lungi dall’opporsi a un governo onnipotente, i giornalisti d’inchiesta sono stati complici attivi, prima della guerra in Iraq, nella diffusione di notizie sulle armi di distruzione di massa. Opinionisti e commentatori sbraitavano a favore della guerra e deridevano – e continuano a deridere – i critici all’estero o gli alleati dissidenti. Ora sono Amnesty International e altre organizzazioni di tutela dei diritti umani a svolgere il lavoro dei mezzi di informazione nazionali, diventati supini e sottomessi.
C’è poco da stupirsi, dunque, se l’amministrazione e i suoi burocrati riservano al pubblico (compresa l’assemblea legislativa) tanto disdegno. Alle audizioni del Senato nel gennaio 2005, prima della sua nomina a procuratore generale degli Stati Uniti, Alberto Gonzales spiegò con grande cura ai senatori riuniti che la convenzione internazionale contro la tortura è subordinata al diritto statunitense, pertanto il quattordicesimo emendamento della costituzione degli Stati Uniti si applica soltanto agli Stati, non al governo federale, e il quinto emendamento non si applica agli stranieri detenuti all’estero, ragioni per cui gli Stati Uniti non sono vincolati da alcun obbligo giuridico per quanto riguarda il «trattamento crudele, inumano o degradante riservato agli stranieri all’estero». Le razze inferiori14 fuori della Legge...
Nel marzo 2005 la strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti affermava espressamente che «la nostra forza in quanto Stato-nazione sarà sempre messa in discussione da chi segue la strategia del debole sfruttando i forum internazionali, i processi giudiziari e il terrorismo». Almeno questo chiarisce chi e che cosa consideriamo nostro nemico. Eppure, nel corso dello stesso mese, il 14 marzo 2005, il segretario di Stato Condoleezza Rice è riuscita a dichiarare che «troppo pochi nel mondo [...] sono a conoscenza del valore che attribuiamo alle istituzioni internazionali e allo Stato di diritto». E già.
III
Gli storici e gli esperti che si affrettano a salire sul carro dell’Impero americano hanno dimenticato un po’ troppo alla svelta che, perché nasca un impero, deve prima morire una repubblica. Nessun paese può pensare di potersi comportare a lungo in modo imperialistico – brutale, sprezzante, illegale – all’estero e preservare i valori repubblicani in patria. È un errore supporre che le sole istituzioni salveranno una repubblica dagli abusi di potere ai quali l’impero inevitabilmente conduce. Non sono le istituzioni a creare o distruggere le repubbliche, sono gli uomini. E oggi negli Stati Uniti gli uomini (e le donne) della classe politica del paese hanno fallito. Il Congresso sembra incapace di impedire la concentrazione del potere nel ramo esecutivo; in effetti, salvo poche eccezioni, ha contribuito attivamente a questo processo, persino con entusiasmo.
Il potere giudiziario è poco meglio15. L’«opposizione leale» è fin troppo leale. Nel Partito democratico sembra si possano davvero riporre poche speranze. Terrorizzati dall’idea di essere accusati di infrangere il consenso su «ordine» e «sicurezza», i suoi principali esponenti si sforzano di emulare e persino superare i repubblicani nell’assumere posizioni aggressive. La senatrice Hillary Clinton, probabile candidata del partito alle elezioni presidenziali del 2008, di recente è stata vista prostrarsi platealmente davanti all’assemblea dell’American Israel Political Action Committee16.
Ai margini esterni dell’impero statunitense, a Bratislava o Tbilisi, il sogno dell’America repubblicana continua a sopravvivere, come la luce di una stella morente che si affievolisce. Ma anche là le ombre del dubbio si allungano. Amnesty International cita diversi casi di detenuti che «non riuscivano a credere che gli americani potessero comportarsi così». Sono esattamente le stesse parole usate da un amico albanese in Macedonia – e gli albanesi macedoni hanno buone ragioni di contarsi fra i migliori amici e gli ammiratori incondizionati di questo paese. A Madrid, un diplomatico spagnolo di altissimo livello e piuttosto conservatore non molto tempo fa si è espresso in questi termini:
Siamo cresciuti sotto Franco con il sogno dell’America. Quel sogno ci ha incoraggiati a immaginare e poi a costruire una Spagna diversa, migliore. Tutti i sogni prima o poi svaniscono, ma non tutti si trasformano in incubi. Noi spagnoli ne sappiamo qualcosa, di incubi politici. Che cosa succede all’America? Come spiegate Guantánamo?17
Il popolo americano ha una fede commovente nell’invulnerabilità della propria repubblica. Alla maggior parte degli americani non verrebbe nemmeno in mente di considerare la possibilità che il loro paese cada nelle mani di un’oligarchia vistosa e pacchiana, che, per citare le parole di Andrew Bacevich, il loro sistema politico «sia fondamentalmente corrotto e funzioni secondo modalità incompatibili con lo spirito di una vera democrazia». Ma il ventesimo secolo ha insegnato alla maggior parte degli altri popoli del globo a essere meno presuntuosi. E quando gli stranieri oggi guardano oltreoceano agli Stati Uniti, ciò che vedono non è affatto rassicurante.
Esiste un precedente nella storia occidentale moderna di un paese il cui leader sfrutta l’umiliazione e la paura nazionale per limitare le libertà pubbliche; di un governo che fa della guerra permanente uno strumento di politica nazionale e preordina la tortura dei nemici politici; di una classe dirigente che persegue obiettivi sociali che creano divisioni spacciandoli per «valori» nazionali; di una cultura che afferma l’unicità del proprio destino e della propria superiorità e venera le prodezze militari; di un sistema politico in cui il partito dominante manipola le regole di procedura e minaccia di cambiare la legge per ottenere quello che vuole; in cui i giornalisti subiscono intimidazioni affinché confessino i loro errori e siano costretti a espiarli in pubblico. Gli europei, in particolare, hanno conosciuto un regime di questo tipo nel recente passato e hanno una parola per definirlo. Quella parola non è «democrazia».
Un’implicazione dell’ombra che si proietta sulla repubblica americana è che la breve epoca dell’intervento internazionale fondato sul consenso sta ormai tramontando. Questo non ha niente a che fare con le contraddizioni o i paradossi delle imprese umanitarie. È la conseguenza del discredito in cui sono caduti gli Stati Uniti. Gli americani possono fare fatica a comprenderlo, ma buona parte del mondo non vede più gli Stati Uniti come una forza a favore del bene. Fanno le cose sbagliate e hanno gli amici sbagliati. Anche durante la guerra fredda, certo, gli Stati Uniti appoggiavano regimi poco raccomandabili. Ma allora c’era una certa logica nelle loro scelte: Washington sosteneva i dittatori anticomunisti per condurre una guerra fredda contro il comunismo: raison d’état. Oggi ci allineiamo ai tiranni più crudeli e terrificanti del mondo in una guerra apparentemente condotta contro il terrore spietato e la tirannia. Stiamo spacciando un simulacro di democrazia da un furgone blindato lanciato a cento all’ora e la chiamiamo libertà. Stiamo passando il segno. Il mondo sta perdendo fiducia nell’America.
Queste, come David Rieff sarebbe il primo a riconoscere, non sono buone notizie. Perché esiste una verità fondamentale al centro della tesi neocon: il benessere degli Stati Uniti d’America riveste importanza inestimabile per la salute del mondo intero. Se gli Stati Uniti si svuotano e diventano un enorme guscio militare senza un’anima o un contenuto democratico, niente di buono potrà uscirne. Soltanto gli Stati Uniti possono farsi carico del lavoro grosso del sollievo umanitario (spesso in senso letterale). Abbiamo già visto che cosa succede quando Washington non fa altro che tergiversare, come avvenne in Ruanda e come sta accadendo oggi riguardo al Darfur. Se gli Stati Uniti smettono di essere credibili come forza a favore del bene, il mondo non si fermerà. Altri continueranno a protestare e a intraprendere opere di bene nella speranza di ottenere il sostegno americano. Ma il mondo diventerà molto più sicuro per i tiranni e i malviventi, dentro e fuori i confini statunitensi.
Oggi gli Stati Uniti non sono credibili: la loro reputazione e il loro prestigio hanno raggiunto i minimi storici e non si riprenderanno presto. E non c’è un sostituto all’orizzonte: gli europei non si dimostreranno all’altezza della sfida. L’esito sconfortante dei recenti referendum in Francia e nei Paesi Bassi ha buone probabilità di eliminare l’Unione europea quale attore politico reale sulla scena internazionale per qualche anno. La guerra fredda è davvero alle nostre spalle, ma lo è anche lo spiraglio di speranza che si è aperto alla sua fine. L’anarchia internazionale evitata con grande scrupolo da due generazioni di statisti americani illuminati potrebbe presto travolgerci di nuovo. Il presidente Bush vede la «libertà» in marcia. Vorrei poter condividere il suo ottimismo. Io vedo sorgere una cattiva stella.
* Questo saggio – una recensione di At the Point of a Gun: Democratic Dreams and Armed Intervention di David Rieff, Simon & Schuster, New York 2005 [trad. it. di Marina Astrologo, Sulla punta del fucile: sogni democratici e intervento armato, Fusi orari, Roma 2007], A More Secure World: Our Shared Responsibility, Report of the Secretary-General High-level Panel on Threats, Challenges and Change, United Nations, New York 2004, The New American Militarism: How Americans Are Seduced by War di Andrew J. Bacevich, Oxford University Press, New York 2005, e Guantánamo and Beyond: The Continuing Pursuit of Unchecked Executive Power, Amnesty International, 2005 – è stato pubblicato per la prima volta nel luglio 2005 sulla «New York Review of Books».
1 Tony Judt, The Wrong War at the Wrong Time, «The New York Times», 20 ottobre 2002.
2 Per una recente ricapitolazione delle nostre imprese in Iraq, si veda, per esempio, Zvi Bar’el, Why Isn’t Iraq Getting on Its Feet?, «Ha’aretz», 3 giugno 2005. L’autore conclude che «la reale entità della corruzione istituzionalizzata sotto il dominio americano, e ora sotto quello del nuovo governo iracheno, potrebbe restare ignota per sempre. Chi indaga non si avventura sul campo a verificare i dati, perché significherebbe rischiare la vita, e i ministri del nuovo governo iracheno distribuiscono le nomine tra i loro compari per essere certi della loro fedeltà».
3 Questo è anche il messaggio di The Dark Sides of Virtue: Reassessing International Humanitarianism di David Kennedy (Princeton University Press, Princeton (NJ) 2004), un giurista internazionale di Harvard. Kennedy accusa gli attivisti umanitari internazionali – avvocati, medici, organizzazioni di soccorso, osservatori elettorali e affini – di trasformare in feticci le loro stesse strutture e procedure. Cedono troppo facilmente alla tentazione, afferma, di idealizzare (e idolatrare) il loro operato, col risultato che ignorano o minimizzano sia gli esiti spesso perversi delle loro iniziative – che offrono copertura a dittatori e altri soggetti che perseguono obiettivi personali – sia le soluzioni e le politiche alternative e più radicali che esulano dal loro ambito di competenza.
4 Kenneth Cain, How Many More Must Die Before Kofi Quits?, «The Observer» (Londra), 3 aprile 2005. Che l’Onu si sia effettivamente arresa al male in Ruanda è fuori dubbio; si veda Roméo Dallaire, Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, Carroll and Graf, New York 2004, e la relativa recensione di Guy Lawson sulla «New York Review of Books», 26 maggio 2005. Ma Kofi Annan e i suoi colleghi alle Nazioni Unite non sono affatto gli unici da biasimare – di responsabilità ce n’è in abbondanza per tutti, a Bruxelles, Parigi e Washington.
5 Charles Krauthammer, The Unipolar Moment, «Foreign Affairs», vol. 70, p. 25, citato in Andrew Bacevich, The New American Militarism, cit., p. 84.
6 Avallo che gli Stati Uniti avrebbero potuto ottenere soltanto a patto di accogliere le raccomandazioni degli ispettori Onu e consentire la continuazione delle indagini, cosa che l’amministrazione Bush si rifiutò fermamente di fare.
7 Si veda, per esempio, Kennedy, The Dark Sides of Virtue, cit., p. 258.
8 Il gruppo di esperti elenca sei categorie di minacce per la comunità internazionale, tra le quali il «terrorismo» è soltanto una. Le altre cinque categorie comprendono le minacce economiche e sociali (per esempio la povertà e il degrado ambientale), i conflitti fra Stati, i conflitti interni (compreso il genocidio e altri crimini), la proliferazione, la dispersione o l’uso di armi nucleari, biologiche e chimiche e la criminalità organizzata transnazionale.
9 Public Papers of the Presidents of the United States: Harry S. Truman, 1945, U.S. Government Printing Office, 1961, p. 141.
10 Siamo in Medio Oriente, sostiene, pressoché per lo stesso motivo per il quale Winston Churchill esortava i suoi colleghi a far sì che la Gran Bretagna si insediasse nella regione cent’anni fa, quando la flotta britannica passò dalle caldaie a vapore a quelle a petrolio: «dominio». Winston S. Churchill, The World Crisis (1923), p. 136, citato da Bacevich, The New American Militarism, cit., p. 191.
11 Forse per questo motivo Bacevich è decisamente ingiusto nei confronti del generale Wesley Clark e gli attribuisce la responsabilità della conduzione e delle conseguenze di una guerra (in Kosovo) sulla quale aveva un controllo molto limitato. Per una prospettiva diversa si veda David Halberstam, War in a Time of Peace: Bush, Clinton and the Generals, Scribner, New York 2001.
12 «Gli apparati militari ipertrofici», come George Washington rammentò alla nazione nel suo messaggio di commiato, «sono di cattivo auspicio per la libertà [...] e devono essere considerati particolarmente ostili alla libertà repubblicana».
13 Si veda Guantánamo and Beyond: The Continuing Pursuit of Unchecked Executive Power, cit., p. 90.
14 Richiamo a Recessional (1897) di Rudyard Kipling [N.d.T.].
15 Il rapporto di Amnesty International documenta numerosi casi in cui giudici nominati dopo il 2000 si pronunciano sistematicamente a favore del trattamento riservato ai detenuti dall’amministrazione nella «guerra al terrore».
16 Nel discorso pronunciato il 24 maggio 2005 all’Aipac, Clinton ha colto l’occasione per condannare la Siria, l’Iran, Hamas, Hezbollah e le «strutture del terrorismo» palestinesi, mentre ha approvato con entusiasmo il tema della conferenza annuale dell’organizzazione: «Israele. Un valore americano».
17 Conversazione presso il Real Instituto Elcano, Madrid, 14 ottobre 2004.