Capitolo 17
Antiamericani all’estero*

I

Se volete capire come l’America si presenti oggi al mondo, osservate un Suv. Sovradimensionato e sovrappeso, il Suv disdegna gli accordi negoziati per contenere l’inquinamento atmosferico. Consuma quantità esorbitanti di risorse già scarse per dotare i suoi privilegiati occupanti di servizi superflui ed espone gli estranei a rischi micidiali per garantire la loro sicurezza illusoria. In un mondo affollato, il Suv si presenta come un pericoloso anacronismo. Come la politica estera statunitense, il Suv si vende confezionato in dichiarazioni d’intenti reboanti, ma in fondo non è altro che un furgoncino sovradimensionato con un motore eccessivamente potente.

La similitudine può essere moderna, ma l’idea di fondo non lo è. L’«America» suscita diffidenza all’estero da ancora più tempo di quanto sia stata un faro e un porto sicuro per i poveri e gli oppressi del mondo. I commentatori del diciottesimo secolo – sulla base di pochissime osservazioni dirette – ritenevano che la flora e la fauna d’America fossero rachitiche e di scarso interesse o impiego. Il paese non si sarebbe mai potuto civilizzare, sostenevano, e più o meno lo stesso valeva per i suoi rozzi nuovi cittadini. Come osservò Talleyrand, il diplomatico (e vescovo) francese, anticipando di due secoli le cronache europee: «Trente-deux réligions et un seul plat» ([trentadue religioni e un solo piatto], che gli americani tipicamente e comprensibilmente tendevano a consumare in fretta). Dal punto di vista di un conservatore europeo cosmopolita come Joseph de Maistre, che scriveva nei primi anni del diciannovesimo secolo, gli Stati Uniti erano un’incresciosa aberrazione, troppo grezza per durare a lungo.

Come Alexis de Tocqueville, Charles Dickens fu colpito dal conformismo della vita pubblica americana. Stendhal fece commenti sull’«egoismo» del paese; Baudelaire lo paragonò con sdegno al Belgio (!) per la sua mediocrità borghese; tutti facevano osservazioni sul puerile e pomposo patriottismo statunitense. Ma nel corso del secolo successivo, i commenti europei mutarono palpabilmente di tono e da sdegnosi si fecero risentiti. Negli anni Trenta del Novecento la potenza economica degli Stati Uniti stava imprimendo una svolta minacciosa alla loro grezza immaturità. Per una nuova generazione di critici antidemocratici, i sintomi destabilizzanti della vita moderna – la produzione in serie, la società e la politica di massa – potevano tutti essere ricondotti all’America.

Come l’antisemitismo, al quale era spesso legato, l’antiamericanismo era una comoda scorciatoia per esprimere l’insicurezza culturale. Per citare le parole del francese Robert Aron, che scriveva nel 1935, Henry Ford, F.W. Taylor (il profeta del ritmo di lavoro e dell’efficienza nelle fabbriche) e Adolf Hitler erano, che piacesse o meno, i «fari della nostra epoca». L’America era l’«industrialismo». Minacciava la sopravvivenza dell’individualità, della qualità e della specificità nazionale. «L’America moltiplica i suoi termitai, ove rischiano di perire i valori occidentali», scriveva Emmanuel Berl nel 1929. Gli europei avevano il dovere di difendere la loro storia e le loro tradizioni resistendo in ogni modo all’americanizzazione, esortava Georges Duhamel nel 1930: «Noi occidentali dobbiamo denunciare con fermezza tutto ciò che è americano nella nostra casa, nel nostro abbigliamento, nella nostra anima»1.

La seconda guerra mondiale non attenuò il fastidio. L’antiamericanismo radicale durante i primi anni della guerra fredda riecheggiava i sentimenti dell’antiamericanismo conservatore di vent’anni prima. Quando Simone de Beauvoir proclamò che l’America stava «diventando fascista», Jean-Paul Sartre affermò che l’America maccartista «era impazzita», il romanziere Roger Vailland sostenne che il frigorifero era un complotto americano per distruggere la cultura nazionale francese e «Le Monde» dichiarò che «la Coca-Cola è la Danzica della cultura europea», denunciavano tutti lo stesso «nemico» americano che una generazione prima aveva tanto allarmato i loro oppositori politici2. Il comportamento americano in patria e all’estero alimentava questo pregiudizio, ma non lo aveva creato. Con la loro ira nei confronti degli Stati Uniti, gli intellettuali europei da molti decenni manifestavano l’inquietudine che provavano per i cambiamenti più vicini a casa.

Gli esempi che ho citato provengono dalla Francia, ma anche l’ambivalenza degli inglesi nei riguardi dell’America è una vecchia storia; la generazione tedesca degli anni Sessanta rimproverava agli Stati Uniti soprattutto il consumismo crasso e l’amnesia politica della Repubblica federale postbellica dei propri genitori; e persino nella «nuova» Europa di Donald Rumsfeld gli Stati Uniti, che rappresentano la tecnologia e il progresso «occidentali», in alcune occasioni sono stati biasimati per il vuoto etico e l’impoverimento culturale che il capitalismo globale porta come conseguenza3. Ciononostante l’antiamericanismo, almeno in Europa, ha sempre avuto un sapore squisitamente francese. È a Parigi che l’ambivalenza europea riguardo all’America assume forma polemica.

Philippe Roger ha scritto una magnifica storia dell’antiamericanismo francese, elegante, colta, spiritosa. Questo godibile esercizio, nella migliore tradizione della dottrina francese, merita abbondantemente di essere pubblicato in traduzione inglese, in edizione integrale. La tesi del libro è troppo sottile e intricata per poterla riassumere in poche parole, ma il termine «genealogia» nel sottotitolo va preso sul serio. Non è esattamente una storia, dato che Roger tratta il suo materiale come un «blocco semiotico» e non presta grande attenzione alle testimonianze del «filoamericanismo» francese che andrebbero esaminate per presentare un resoconto equilibrato.

Invece, in quasi seicento pagine di serrata esegesi testuale, Roger dimostra non solo che l’anima dell’antiamericanismo francese è davvero molto antica, ma anche che esso è sempre stato fantasioso, solo vagamente collegato alla realtà americana. L’antiamericanismo è un récit, un racconto (o una favola), con alcuni temi, alcune speranze e paure ricorrenti. Se all’inizio si esprimeva sotto forma di avversione estetica per il Nuovo mondo, è poi passato attraverso l’antipatia culturale per sfociare nell’ostilità politica, ma le evidenze sedimentarie delle versioni precedenti non scompaiono mai del tutto.

Il libro di Roger è più convincente quando tratta il diciottesimo e il diciannovesimo secolo. L’analisi del ventesimo secolo si ferma alla generazione di Sartre – momento, come ci rammenta l’autore, a partire dal quale negli scritti francesi antiamericani divenne convenzionale esordire negando di esserlo. Sembra ragionevole: esistono alcune cronistorie soddisfacenti dell’antiamericanismo dei nostri giorni, e Roger è interessato a rivelare le origini, non le conseguenze4. Inoltre, fermandosi poco prima del presente, può permettersi una conclusione sardonica e ottimistica:

E se l’antiamericanismo oggi fosse solo una schiavitù mentale che si infliggono i Francesi, una pigrizia masochistica, una routine di risentimento, un pavlovismo senza passione? Forse ci sarebbe ancora una speranza. Esistono pochi vizi, anche intellettuali, che resistono alla noia che suscitano.

Sfortunatamente la storia ha preso un’altra piega. L’antiamericanismo oggi è alimentato da una nuova considerazione, e non è più circoscritto all’ambiente intellettuale. Gran parte delle persone in Europa e altrove oggi non ha problemi con i prodotti americani, molti dei quali sono comunque fabbricati e commercializzati all’estero. Quasi tutti hanno dimestichezza con lo «stile di vita» americano, che tanti detestano e invidiano in egual misura. Non disprezzano l’America, e di sicuro non odiano gli americani. A sconcertarli è la politica estera degli Stati Uniti, e non si fidano dell’attuale presidente americano. Questa è una novità. Persino durante la guerra fredda molti nemici politici dell’America in effetti ne apprezzavano i leader e si fidavano di loro. Oggi il presidente Bush non piace nemmeno agli amici dell’America: in parte per la politica che persegue e in parte per il modo in cui la persegue.

Questo è il contesto che fa da sfondo alla recente esplosione di pubblicazioni antiamericane a Parigi. Quella più bizzarra è un libro di tale Thierry Meyssan che pretende di dimostrare che l’attacco al Pentagono l’11 settembre non sia mai avvenuto. Nessun aereo di linea si è mai schiantato sull’edificio, scrive: l’intera faccenda è una montatura costruita dall’establishment americano della difesa per promuovere i propri interessi. L’approccio di Meyssan riecheggia quello dei negazionisti dell’Olocausto. Parte dal presupposto che un fatto ben documentato non esista, poi ci rammenta che nessun tipo di prova – soprattutto le testimonianze dirette – può dimostrare il contrario. Il metodo è riassunto con efficacia nella frase con cui liquida la notevole quantità di dichiarazioni rese da testimoni oculari che contraddicono la sua tesi: «Ben lungi dall’accreditare il valore delle testimonianze, l’autorevolezza di questi testimoni non fa altro che sottolineare l’importanza dei mezzi usati dall’esercito degli Stati Uniti per mascherare la verità»5.

L’aspetto più deprimente del libro di Meyssan è che è stato un best seller. C’è un pubblico in Francia per le frontiere più estreme della diffidenza paranoica nei confronti dell’America e l’11 settembre sembra averlo infervorato. Più emblematica è però la lista di lamentele contenuta in libri con titoli come Pourquoi le monde déteste-t-il l’Amérique?, Le Livre noir des États-Unis e Dangereuse Amérique. Gli autori dei primi due sono rispettivamente britannici e canadese, anche se le edizioni francesi hanno venduto meglio; coautore del terzo è un eminente politico ecologista ed ex candidato alla presidenza francese.

Tipicamente presentate con ostentato o autentico dispiacere («Non siamo antiamericani, ma ...»), queste opere sono un repertorio dei difetti comunemente attribuiti all’America. Gli Stati Uniti sono una società egoista e individualista dedita al commercio, al profitto e alla depredazione del pianeta. Sono tanto insensibili ai bisogni dei loro cittadini poveri e malati quanto sono indifferenti al resto dell’umanità. Gli Stati Uniti calpestano le norme e i trattati internazionali e minacciano il futuro morale, ambientale e fisico di tutto il genere umano. Sono incoerenti e ipocriti nelle relazioni estere e dispongono di un potere militare senza pari. In poche parole, sono un elefante nella cristalleria globale che provoca scompiglio6.

In buona parte si tratta di operazioni di riciclaggio di precedenti critiche rivolte all’America. Gli addebiti di Peter Scowen (fra i titoli dei suoi capitoli figurano Le atrocità di Hiroshima e Nagasaki e La cultura vuota), come quelli di Ziauddin Sardar e Merryl Wyn Davies (Hamburger e altri virus d’America) e di Noël Mamère e Patrick Farbiaz (L’américanisation du monde, Une croisade qui sent le pétrole [L’americanizzazione del mondo, Una crociata che puzza di petrolio]), associano i temi tradizionali a nuove accuse. Sono una mescolanza di repulsione culturale conservatrice (l’America è orribile, crassa, priva di radici), retorica contro la globalizzazione (l’America inquina il mondo) e riduzionismo neomarxista (l’America è governata dalle e per le imprese petrolifere). I critici americani in patria aggiungono al mix la razza: non contenti di mettere i piedi in testa a tutti, gli Stati Uniti calpestano la loro stessa storia7.

Alcune critiche riguardanti la politica e la prassi in America sono fondate. Altre sono puro vaniloquio. Nel loro repertorio di accuse contro l’America, Sardar e Davies attribuiscono agli Stati Uniti la responsabilità della guerra fredda, imposta a un’Europa occidentale riluttante: «Francia e Italia hanno entrambe importanti partiti comunisti, ma con una storia specifica alle spalle che non deve molto alla Russia». In altre parole, il «comunismo internazionale» era un’invenzione americana. Questo mito revisionista è morto molti anni fa. La sua riproposizione postuma induce a ritenere che un più antico antiamericanismo politico stia traendo nuovo slancio dalle ambizioni estere dell’amministrazione Bush8. Uno Stato canaglia sarà sempre uno Stato canaglia.

Secondo Emmanuel Todd, invece, non c’è da preoccuparsi. Nel suo ultimo libro, Après l’empire (anch’esso un best seller), sostiene che il sole sta tramontando sull’America imperiale. Stiamo entrando in un’era post-americana. Gli Stati Uniti continueranno a mettere a repentaglio la stabilità internazionale, ma gli europei (e gli asiatici) possono sentirsi rincuorati sapendo che il futuro è loro. La forza militare americana è reale, ma superflua; al contempo, la traballante economia del paese ha un bisogno vitale del resto del mondo e il suo modello sociale non attira per niente. Un tempo, dal 1950 al 1990, gli Stati Uniti erano una presenza benevola e necessaria nel mondo, ma adesso non più. La difficoltà, oggi, è gestire la crescente irrilevanza dell’America.

Todd non è affatto un tipico «antiamericano» e quel che ha da dire è in parte interessante – anche se i lettori inglesi che desiderano capire i motivi del declino americano farebbero meglio a leggere Charles Kupchan9. Todd ha ragione ad affermare che la globalizzazione asimmetrica – in cui gli Stati Uniti consumano ciò che altri producono e le sperequazioni economiche aumentano rapidamente – sta rendendo il mondo indifferente alle ambizioni americane. La Russia post-comunista, l’Iraq post-Saddam e altre società in via di ammodernamento potrebbero abbracciare il capitalismo («l’unica organizzazione economica ragionevole») e persino diventare democratiche, ma non imiteranno mai l’«iperindividualismo» americano e su molti aspetti condivideranno le preferenze degli europei. Gli Stati Uniti, secondo Todd, si aggrapperanno disperatamente a quel che rimane delle loro ambizioni e del loro potere; per conservare la loro influenza sempre più debole, cercheranno di mantenere «un certo grado di tensione internazionale, una situazione di guerra limitata ma endemica». Questo processo è già iniziato e l’11 settembre è stato l’elemento scatenante.

Il problema di Emmanuel Todd, e suonerà immediatamente familiare a chiunque abbia letto qualsiasi suo scritto precedente, non sono tanto le conclusioni quanto il ragionamento. C’è qualcosa in questo autore che ricorda il Vecchio marinaio10. Ha una storia maniacale da raccontare e la racconta libro dopo libro, tenendo insistentemente avvinto il lettore come per dire: «Non l’hai ancora capito? Tutto ruota intorno alla fecondità!». Todd è un demografo antropologico di formazione. Nel 1976 pubblicò La Chute finale: Essai sur la décomposition de la sphère soviétique [Il crollo finale: saggio sulla decomposizione della sfera sovietica], nel quale profetizzava la fine dell’Urss: «Il lieve aumento della mortalità infantile in Russia tra il 1970 e il 1974 mi aveva fatto cogliere già dal 1976 il deterioramento dell’Unione sovietica e mi aveva permesso di prevedere il crollo del sistema». Stando a quanto racconta, il calo di natalità in Unione sovietica gli aveva rivelato «il verosimile emergere di russi normali, perfettamente in grado di far crollare il comunismo».

Emmanuel Todd non era l’unico negli anni Settanta a prevedere un futuro infelice per il comunismo. Ciononostante, il collegamento che sostiene di avere individuato tra fecondità e crollo del regime gli ha dato alla testa. Nel suo nuovo libro la storia del mondo è ridotta a una serie di correlazioni unidirezionali e monocausali che collegano tassi di natalità, tassi di alfabetizzazione, strutture familiari immutabili e tendenze politiche globali. Le guerre in Iugoslavia sono state il risultato di «divari di fecondità» tra slavi e musulmani. La guerra civile americana può essere ricondotta ai bassi tassi di natalità tra i coloni anglosassoni. E se le prospettive dell’America «individualista» oggi sono poco rassicuranti, è perché le «strutture familiari» nel resto del mondo favoriscono sistemi politici molto diversi.

Nell’universo parallelo di Emmanuel Todd, la politica – come il comportamento economico – è impressa nel «codice genetico» di una società. I sistemi familiari egualitari dell’Asia centrale rivelano una «base sociale antropologicamente comunitaria» che ha reso più accettabile il comunismo in quella regione (altrove ha attribuito le variazioni regionali nella distribuzione dei voti in Francia, Italia e Finlandia ad analoghe differenze nella vita familiare11). Oggi il «temperamento universalista russo», basato sulla famiglia russa allargata, offre un modello socioeconomico non individualistico che potrebbe essere la democrazia del futuro. «A priori, nulla vieta d’immaginare una Russia liberale e democratica che protegge il pianeta contro un’America impegnata nel rafforzare la sua posizione da impero globale». Da ciò consegue la furia scatenata delle tendenze «differenzialiste» – americane, israeliane e altrui.

Todd si spinge più in là. Ingigantisce fino all’assurdo i mali attuali dell’America, per quanto siano reali. Estrapolando dall’esempio Enron, conclude che tutti i dati economici americani sono altrettanto inattendibili di quelli sovietici: le reali condizioni di precarietà in cui versa l’economia statunitense sono tenute nascoste. E propone la sua variante sullo «scontro di civiltà». L’imminente conflitto tra l’islam e gli Stati Uniti contrappone la civiltà americana «effettivamente femminista», basata sulle donne, all’etica mascolinizzata delle società guerriere dell’Asia centrale e del mondo arabo. Anche in questo caso l’America rimarrà isolata, perché gli europei si sentiranno minacciati dagli Stati Uniti allo stesso modo dei loro vicini arabi. Ancora una volta, tutto si riduce alla vita familiare, con una nota tipicamente moderna: «La condizione della donna americana, castratrice e minacciosa (castratrice et menaçante), inquietante per i maschi europei quanto può esserlo l’onnipotenza dell’uomo arabo per le donne europee». Il divario atlantico comincia in camera da letto. Chi l’avrebbe immaginato.

Passare da Emmanuel Todd a Jean-François Revel equivale ad abbandonare lo scienziato pazzo per incontrare l’aristocratico sicuro di sé. Revel è un augusto immortale dell’Académie Française. È autore di molti libri (trentuno finora), come viene espressamente ricordato al lettore del suo ultimo saggio. Lo stile di Revel fa pensare a un uomo che non dubita mai di se stesso e non è avvezzo alle contraddizioni. Tende a fare generalizzazioni indiscriminate e infondate – a suo parere, i dirigenti politici e culturali d’Europa «non avevano mai capito niente del comunismo» – e la sua versione dell’antiamericanismo francese a tratti si avvicina alla caricatura. È un peccato, perché alcune cose che scrive sono sensate.

Revel infatti fa bene a richiamare l’attenzione sulla contraddizione al centro di molte critiche che i francesi rivolgono all’America. Se gli Stati Uniti sono un disastro nella sfera sociale, pigmei in ambito culturale, inesperti nel contesto politico e una bomba a orologeria in campo economico, perché preoccuparsi? Perché dedicare loro tutta questa attenzione rancorosa? In alternativa, se sono potenti e hanno successo come molti temono, non potrebbero fare anche qualcosa di buono? Revel ha perlopiù ragione ad accusare alcuni intellettuali francesi di malafede, quando affermano di non avere avuto niente da ridire sulle politiche anticomuniste dell’America nei decenni precedenti e che le loro obiezioni riguardano soltanto gli eccessi del presente. Le testimonianze lasciano supporre il contrario.

Essendo francese, Revel si trova nella posizione migliore per ricordare ai suoi concittadini che anche la Francia ha i suoi problemi sociali: il tanto decantato sistema di istruzione francese né assimila le minoranze culturali e religiose, né sostiene e incoraggia la differenza culturale. Anche la Francia conosce le baraccopoli, la violenza e la delinquenza. Il successo di Jean-Marie Le Pen alle elezioni presidenziali dell’anno passato è un perenne rimprovero rivolto all’intera classe politica francese per la sua incapacità di affrontare i problemi dell’immigrazione e della razza12. Revel si prende gioco, a ragione, degli amministratori culturali della Francia, capaci di vandalizzare il proprio patrimonio nazionale in maniera almeno altrettanto sconsiderata dei barbari americani. Neanche il più entusiasta sostenitore americano potrà mai eguagliare il progetto del ministro della Cultura Jack Lang del 1984, il «Projet Culturel Extérieur de la France», nel quale lo stesso Lang descrive le ambizioni culturali della Francia come «probabilmente ineguagliate nel resto del mondo». E che cosa ci dice riguardo alla levatura della stampa e della televisione francesi, la credulità con cui hanno dedicato tanto spazio alle elucubrazioni del signor Meyssan?

Si potrebbe andare avanti all’infinito. Prendere in giro i francesi per la loro pretenziosità (e i loro vuoti di memoria) è quasi altrettanto facile che smontare una a una le ipocrisie della politica estera statunitense. Revel ha ragione a descrivere i moderni attivisti antiglobalizzazione e la loro retorica contro il mercato come una «sorpresa divina» per la sinistra europea, una causa mandata dal cielo in un momento post-ideologico in cui i radicali d’Europa andavano alla deriva. Ma le sagaci osservazioni di Revel su quel che non funziona in Francia rischiano di essere screditate dalla sua incapacità di trovare una cosa qualsiasi che non vada in America. Il suo intero libro è un cieco inno di lode a un paese che purtroppo non esiste. Come gli antiamericani che disdegna, si è inventato il suo tema americano di sana pianta.

Nell’America di Revel il melting pot funziona «fort bien» e non si fa alcun cenno ai ghetti. A detta sua, gli europei interpretano male e ingigantiscono le statistiche sui reati commessi negli Stati Uniti, ma in realtà in America la criminalità non è un problema. La copertura sanitaria è efficace: la maggior parte degli americani è assicurata tramite l’azienda in cui lavora, il resto beneficia dei programmi Medicare e Medicaid finanziati con fondi pubblici. In ogni caso, le carenze del sistema non sono peggiori di quelle che viziano le prestazioni sanitarie erogate dalla Francia stessa. In America i poveri hanno lo stesso reddito pro capite del cittadino medio del Portogallo, perciò non si possono definire poveri (a quanto pare Revel non ha mai sentito parlare di indice del costo della vita). Non c’è alcuna «sottoclasse». Al contempo negli Stati Uniti la socialdemocrazia esiste da più tempo che in Europa e la copertura televisiva e giornalistica è di gran lunga migliore di quanto si pensi.

Per quanto riguarda la politica estera americana, in Revel-landia gli Stati Uniti sono rimasti pienamente impegnati nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese, sono risolutamente imparziali e la loro politica è efficace. Il programma di difesa missilistica americano preoccupa il signor Revel molto meno di quanto preoccupi alcuni generali in America. Al contrario del cinquanta per cento degli elettori statunitensi, l’académicien ritiene che non ci sia stato niente di scorretto nello svolgimento delle elezioni presidenziali del 2000. Quanto ai segnali di un crescente sentimento antifrancese tra gli americani, sono baggianate, assurdità: «pour ma part, je ne l’ai jamais constaté». In poche parole, qualsiasi cosa affermino i critici francesi, e di altri paesi, sugli Stati Uniti, Jean-François Revel sostiene il contrario. Voltaire non avrebbe potuto fare di meglio nel satireggiare i classici pregiudizi francesi: Pangloss nel Paese delle meraviglie.

II

Più o meno a metà strada fra Emmanuel Todd e Jean-François Revel, in Europa c’è un punto di vista interessante sull’America di George Bush. Le due sponde dell’Atlantico oggi sono veramente diverse. In primo luogo, l’America è una società ingenua e bigotta: dalla metà degli anni Cinquanta, gli europei hanno abbandonato le loro chiese a frotte, mentre negli Stati Uniti non si è osservato alcun calo significativo nelle presenze in chiesa e nella frequentazione delle sinagoghe. Da un sondaggio Harris del 1998 risulta che addirittura il 66 per cento degli americani non cristiani crede ai miracoli e il 47 per cento riconosce la nascita verginale di Gesù; le cifre relative a tutti gli americani sono rispettivamente l’86 e l’83 per cento. Circa il 45 per cento degli americani crede nell’esistenza del diavolo. In base a un sondaggio condotto di recente da «Newsweek», il 79 per cento degli americani interpellati ritiene che i miracoli biblici siano realmente avvenuti. Secondo un altro sondaggio di «Newsweek», risalente al 1999, il 40 per cento degli americani (il 71 per cento dei protestanti evangelici) crede che il mondo finirà con la battaglia di Armageddon tra Gesù e l’Anticristo. Un presidente americano che organizza gruppi di studio sulla Bibbia alla Casa Bianca e inizia ogni riunione del governo con una preghiera può sembrare un curioso anacronismo ai suoi alleati europei, ma è in sintonia con i suoi elettori13.

In secondo luogo, le disuguaglianze e le insicurezze della vita americana sono tuttora impensabili sull’altra sponda dell’Atlantico. Gli europei continuano a essere cauti riguardo alle disparità di reddito eccessive e le istituzioni e le scelte politiche in Europa riflettono questo sentimento. Inoltre è la prudenza, più che un residuo di «socialismo», a spiegare sia l’esitazione europea riguardo ai mercati non regolamentati e allo smantellamento del settore pubblico sia la resistenza locale al «modello» americano. È ragionevole: per la maggior parte delle persone in Europa, e altrove nel mondo, la concorrenza selvaggia rappresenta una minaccia almeno quanto un’opportunità.

Gli europei vogliono uno Stato più interventista rispetto agli americani e si aspettano di pagare per averlo. Persino nella Gran Bretagna post-thatcheriana il 62 per cento degli adulti intervistati nel dicembre 2002 preferirebbe pagare tasse più elevate in cambio di servizi pubblici migliori. Negli Stati Uniti la cifra era inferiore all’uno per cento. Questo dato è meno sorprendente se si considera che in America (dove le disparità fra ricchi e poveri sono più profonde che in qualsiasi altro paese del mondo sviluppato) ben il 19 per cento della popolazione adulta afferma di rientrare nell’uno per cento più ricco della nazione – e un ulteriore 20 per cento è convinto che ci entrerà nel corso della propria vita!14

Ciò che gli europei trovano sconcertante dell’America, dunque, è proprio quello che la maggior parte degli americani considera il migliore atout della propria nazione: il suo mix unico di moralismo religioso, offerta minima di servizi pubblici e massima libertà di mercato – lo «stile di vita americano» – abbinato a una politica estera missionaria apparentemente diretta a esportare quello stesso insieme di valori e pratiche. A questo proposito la globalizzazione gioca a sfavore degli Stati Uniti, evidenziando i costi dell’esposizione alla concorrenza economica per i paesi più poveri del mondo e ricordando agli europei occidentali, dopo il lungo sonno della guerra fredda, le vere linee di faglia che dividono in due un «Occidente» fino ad allora indifferenziato.

Queste differenze transatlantiche non passeranno in secondo piano, anzi acquisteranno maggiore importanza negli anni a venire: i contrasti sociali e culturali di antica data sono messi in evidenza ed esacerbati da divergenze politiche irrisolvibili. Lo scisma riguardo alla guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq ha già rivelato qualcosa di nuovo. Durante i primi anni della guerra fredda, le manifestazioni antiamericane in Europa prendevano lo spunto dai «movimenti pacifisti» finanziati dai sovietici, ma le élites politiche ed economiche erano fermamente schierate dalla parte degli americani. Oggi nessuno manipola le proteste di massa contro la guerra e i leader dell’Europa occidentale stanno prendendo le distanze dall’America su un’importante questione internazionale. Gli Stati Uniti sono stati costretti a ricorrere alla corruzione e alle minacce pubbliche in maniere senza precedenti, con risultati penosamente limitati (persino in Turchia, mentre scrivo, grazie agli imprevedibili meccanismi della democrazia).

La crisi irachena ha messo in luce tre tipi di debolezze presenti nel sistema internazionale moderno. Ci ha ricordato per l’ennesima volta la fragilità delle Nazioni Unite, la loro apparente inadeguatezza rispetto alle aspettative che suscitano. Eppure la recente posizione americana nei loro confronti – dateci quello che vogliamo o ce lo prenderemo comunque – ha paradossalmente rafforzato il riconoscimento dell’importanza di tale istituzione in quasi tutti gli altri paesi. Le Nazioni Unite possono anche non avere un esercito ma, nel corso degli ultimi cinquant’anni, hanno acquisito la loro specifica legittimazione, e la legittimità è una forma di potere. In ogni caso, le Nazioni Unite sono tutto ciò che abbiamo. Chi ne abusa per i propri fini rischia seriamente di perdere la propria credibilità di cittadino internazionale.

La seconda presunta vittima della crisi è l’Unione europea. L’Europa appare ora amaramente divisa e la causa si può attribuire in egual misura alle scorrettezze americane e all’incompetenza degli stessi leader europei. Ma le crisi possono essere salutari. Una volta che la guerra in Iraq sarà finita, i britannici porranno domande scomode riguardo all’impegno assunto con gli americani in conseguenza di un precedente errore di calcolo in Medio Oriente, a Suez nel 1956. Gli europei dell’Est pregheranno che a Bruxelles, Berlino e Parigi abbiano la memoria corta quando sarà ora di definire il bilancio dell’Unione. In Turchia i politici stanno già mettendo in discussione la relazione del loro paese con gli Stati Uniti, un tempo sacrosanta. E Jacques Chirac potrebbe avere l’ultima buona occasione che il suo paese può cogliere per dare forma a un’Europa indipendente dall’America e sua pari sulla scena internazionale. L’«ora dell’Europa» può non essere scoccata, ma la totale indifferenza di Washington nei confronti dell’opinione europea ha fatto suonare il campanello dall’allarme in piena notte.

Il terzo tipo di debolezza riguarda gli Stati Uniti stessi: non malgrado la loro potenza militare soverchiante, ma proprio a causa di essa. Incredibilmente, il presidente Bush e i suoi consiglieri sono riusciti a dare l’impressione che l’America rappresenti la minaccia più grave per la stabilità internazionale; appena diciotto mesi dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti potrebbero essersi giocati la fiducia del mondo. Arrogandosi il monopolio dei valori occidentali e della loro difesa, gli Stati Uniti hanno spinto altri occidentali a riflettere su ciò che li distingue dall’America. Affermando con foga il proprio diritto di riconfigurare il mondo musulmano, Washington ha ricordato agli europei, in particolare, la crescente presenza musulmana all’interno delle loro stesse culture e le sue implicazioni politiche15. In breve, gli Stati Uniti hanno offerto a un sacco di gente l’occasione di riconsiderare la loro relazione con l’America.

Non c’è bisogno di essere un intellettuale francese per ritenere che un’America che mostra eccessivamente i muscoli, in un ambiente internazionale ostile, è più debole, non più forte, di quanto non fosse in passato. Ha anche maggiori probabilità di essere bellicosa. Quello che non sarà, invece, è irrilevante. La politica internazionale talvolta riguarda il bene e il male, ma ha sempre a che fare con il potere. Gli Stati Uniti hanno un potere considerevole e le nazioni del mondo hanno bisogno che gli Stati Uniti siano dalla loro parte. Un’America che oscilli imprevedibilmente tra guerre preventive unilaterali e indifferenza narcisistica sarebbe una catastrofe globale, motivo per cui un gran numero di paesi in seno alle Nazioni Unite ha disperatamente cercato di assecondare i desideri di Washington, a prescindere dalle perplessità dei loro leader.

Nel frattempo a Washington i «moderati» sostengono che tutte queste preoccupazioni saranno messe a tacere se la guerra contro Saddam Hussein si rivelerà rapida, vittoriosa e relativamente «pulita». Ma una campagna militare non si giustifica retroattivamente soltanto perché ha avuto successo, e in ogni caso molti danni collaterali sono ormai stati fatti. Il precedente della guerra preventiva contro una minaccia ipotetica, l’incauto e sporadico riconoscimento che questa guerra ha obiettivi che vanno ben al di là del disarmo di Baghdad, la disaffezione all’estero: questi sono danni di guerra, a prescindere dall’efficacia con cui gli Stati Uniti gestiscono la pace. La «nazione indispensabile» (Madeleine Albright) del mondo ha sbagliato i calcoli e ha fatto il passo più lungo della gamba? È quasi certo. Quando il terremoto cesserà, le placche tettoniche della politica internazionale si saranno irrimediabilmente spostate.

 

* Questo saggio – una recensione di L’Ennemi américain: Généalogie de l’antiaméricanisme français di Philippe Roger, Seuil, Paris 2002 [trad. it. di Marisa Ferrarini, Il nemico americano. Genealogia dell’antiamericanismo francese, Sellerio, Palermo 2008], 11 septembre 2001: L’Effroyable Imposture di Thierry Meyssan, Carnot, Chatou 2003 [trad. it. di Manuela Maddamma e Agnes Nobecourt, L’incredibile menzogna: nessun aereo è caduto sul Pentagono, Fandango, Roma 2002], Pourquoi le monde déteste-t-il l’Amérique? di Ziauddin Sardar e Merryl Wyn Davies, Fayard, Paris 2002 [trad. it. di Bruno Amato, Perché il mondo detesta l’America?, Feltrinelli, Milano 2003], Le Livre noir des États-Unis di Peter Scowen, Mango, Paris 2003 [trad. it. di Giuseppe Giaccio, Danni collaterali. Il libro nero degli Stati Uniti, Vallecchi, Firenze 2004], Dangereuse Amérique: Chronique d’une guerre annoncée di Noël Mamère e Patrick Farbiaz, Ramsay, Paris 2003, Après l’empire: Essai sur la décomposition du système américain di Emmanuel Todd, Gallimard, Paris 2002 [trad. it. di Gaia Amaducci, Dopo l’impero. La dissoluzione del sistema americano, Tropea, Milano 2003] e L’Obsession anti-américaine: Son fonctionnement, ses causes, ses inconséquences di Jean-François Revel, Plon, Paris 2002 [trad. it. di Marco Enrico Giacomelli, L’ossessione antiamericana, Lindau, Torino 2004] – è stato pubblicato per la prima volta nel maggio 2003 sulla «New York Review of Books».

1 Emmanuel Berl, Mort de la pensée bourgeoise, Bernard Grasset, Paris 1929, ristampa 1970, pp. 76-77; André Siegfried, Les États-Unis d’aujourd’hui, Colin, Paris 1930, citato in Michel Winock, Nationalisme, antisémitisme et fascisme en France, Seuil, Paris 1982, p. 56. Si veda anche Georges Duhamel, Scènes de la Vie future, Mercure de France, Paris 1930; Robert Aron e Arnaud Dandieu, Le Cancer américain, Rieder, Paris 1931 [trad. it. di G. Giaccio, Il cancro americano, Settimo Sigillo, Roma 2005], e il mio Past Imperfect: French Intellectuals, 1944-1956, University of California Press, Berkeley 1992, capitolo 10: America Has Gone Mad: Anti-Americanism in Historical Perspective, pp. 187-204.

2 Per Simone de Beauvoir, si veda il suo L’Amérique au jour le jour, Morihien, Paris 1948, pp. 99-100 [trad. it. di Adriana Dell’Orto, L’America giorno per giorno, Feltrinelli, Milano 1955]. Sartre commentava il processo e l’esecuzione dei Rosenberg. Le riflessioni di Vailland sul frigorifero, tratte dal suo articolo Le Ménage n’est pas un art de salon, «La Tribune des nations», 14 marzo 1952, sono esaminate da Philippe Roger in L’ennemi américain, cit., pp. 483-484 [trad. it. Il nemico americano, p. 438]. Si veda inoltre l’editoriale Mourir pour le Coca-Cola, «Le Monde», 29 marzo 1950.

3 Per le rappresentazioni tedesche del prezzo dell’americanizzazione, si veda Il matrimonio di Maria Braun, di Rainer Werner Fassbinder (1979), o Heimat: Eine deutsche Chronik, di Edgar Reitz (1984), nel quale l’effetto corrosivo dell’America sui valori della «Germania profonda» è presentato come molto più incisivo del passaggio attraverso il nazismo. E fu nientemeno Václav Havel a ricordare ai suoi compagni dissidenti, nel 1984, che il razionalismo, i metodi scientifici, l’attrazione esercitata dalla tecnologia e dal cambiamento erano tutte «esportazioni ambigue» dell’Occidente, i frutti perversi del sogno della modernità. Si veda Václav Havel, Svedomí a politika, «Svedectví», vol. 18, n. 72 (1984), pp. 621-635 (citazione p. 627).

4 Si veda Philippe Mathy, Extrême Occident: French Intellectuals and America, University of Chicago Press, Chicago 1993, e L’Amérique dans les têtes: Un siècle de fascinations et d’aversions, a cura di Denis Lacorne, Jacques Rupnik e Marie-France Toinet, Hachette, Paris 1986.

5 «Loin de créditer leurs dépositions, la qualité de ces témoins ne fait que souligner l’importance des moyens déployés par l’armée des États-Unis pour travestir la vérité», si veda 11 septembre 2001, cit., p. 23 [trad. it. L’incredibile menzogna, p. 20].

6 Si veda anche Clyde V. Prestowitz, Rogue Nation: American Unilateralism and the Failure of Good Intentions, Basic Books, New York 2003 [trad. it. di Irene Floriani, Stato canaglia. La follia dell’unilateralismo americano, Fazi, Roma 2003].

7 Secondo Mark Hertsgaard (The Eagle’s Shadow: Why America Fascinates and Infuriates the World, Farrar, Straus and Giroux, New York 2002 [trad. it. di Fabio Paracchini e Francesca Mazzantini, L’ombra dell’aquila: perché gli Stati Uniti sono così amati e così odiati, Garzanti, Milano 2003]), gli americani rifiutano di ammettere che le origini della loro costituzione risalgono alle pratiche della Confederazione irochese, nei confronti della quale avremmo un debito non riconosciuto per le nozioni di diritti delle nazioni e separazione dei poteri. In barba a Locke, Montesquieu, alla Common Law inglese e all’Illuminismo europeo.

8 Nel maggio del 1944, Hubert Beuve-Méry, futuro fondatore e direttore di «Le Monde», scriveva: «Gli americani costituiscono un autentico pericolo per la Francia. [...] possono impedirci di fare una rivoluzione necessaria e il loro materialismo non ha nemmeno la tragica grandezza del materialismo dei totalitarismi». Citato da Jean-François Revel in L’Obsession anti-américaine, cit., p. 98 [trad. it. L’ossessione antiamericana, p. 89].

9 Charles Kupchan, The End of the American Era, Knopf, New York 2002 [trad. it. di Andrea Locatelli, La fine dell’era americana, V&P Università, Milano 2003]. Si veda la mia trattazione di Kupchan sulla «New York Review of Books», 10 aprile 2003.

10 Richiamo alla Ballata del vecchio marinaio (1798) di Coleridge [N.d.T.].

11 Emmanuel Todd, La Troisième Planète: Structures familiales et systèmes idéologiques, Seuil, Paris 1983 [trad. it. di Salvatore Maddaloni, Il terzo pianeta: strutture familiari e sistemi ideologici, Armando, Roma 1985]. «Il successo del comunismo si spiega principalmente con il fatto che [...] esistevano delle strutture familiari egualitarie e autoritarie che predisponevano a concepire l’ideologia comunista come naturale e buona»; si veda Après l’empire, cit., p. 178 [trad. it., p. 142].

12 Al riguardo si veda anche Philippe Manière, La Vengeance du peuple: Les Élites, Le Pen et les français, Plon, Paris 2002.

13 Si veda www.pollingreport.com/religion.htm e www.pollingreport.com/religion2.htm.

14 A Tale of Two Legacies, «The Economist», 21 dicembre 2002; «Financial Times», 25-26 gennaio 2003.

15 Attualmente, un residente su dodici in Francia è musulmano. In Russia la cifra è di quasi uno su sei.