Capitolo 12
Israele senza cliché*

Il raid israeliano contro la Freedom Flotilla [la flotta di navi che trasportavano aiuti umanitari per la popolazione della Striscia di Gaza] ha generato un profluvio di commenti stereotipati da parte dei soliti sospetti. È quasi impossibile discutere la situazione in Medio Oriente senza ricorrere ad accuse trite e difese rituali: forse è ora di fare un po’ di chiarezza.

N. 1: Israele è / dovrebbe essere delegittimata

Israele è uno Stato come ogni altro, esiste da molto tempo ed è riconosciuta a livello internazionale. Non è «delegittimata» dal comportamento scorretto del suo governo più di quanto la Corea del Nord, il Sudan o gli Stati Uniti siano «delegittimati» dal comportamento scorretto di chi li governa. Quando Israele viola il diritto internazionale, bisognerebbe imporle di desistere: ma è proprio perché è uno Stato di diritto internazionale che abbiamo la possibilità di esercitare pressioni.

Fra chi muove critiche a Israele, alcuni sono motivati dal desiderio che non esista, che in qualche modo sparisca dalla faccia della Terra. Ma questa è la politica dello struzzo: i nazionalisti fiamminghi la pensano allo stesso modo riguardo al Belgio, i separatisti baschi riguardo alla Spagna. Israele non sparirà, né dovrebbe sparire. La campagna di comunicazione ufficiale di Israele, volta a screditare qualsiasi critica come un’operazione di «delegittimazione», è clamorosamente controproducente. Ogni volta che Gerusalemme risponde in questo modo, evidenzia il proprio isolamento.

N. 2: Israele è / non è una democrazia

Forse la difesa più comune di Israele all’estero è che è «l’unica democrazia in Medio Oriente». In gran parte è vero: il potere giudiziario è indipendente e si tengono libere elezioni, anche se il paese pratica forme di discriminazione nei riguardi dei non ebrei che lo distinguono dalla maggior parte delle altre democrazie odierne e la manifestazione di un forte dissenso nei confronti della politica ufficiale viene sempre più scoraggiata.

Ma la questione è irrilevante. La «democrazia» non è una garanzia di comportamento corretto: oggi quasi tutti i paesi sono formalmente democratici, e non bisogna dimenticare le «democrazie popolari» dell’Europa orientale. Israele smentisce il comodo luogo comune in voga in America, secondo cui «le democrazie non fanno la guerra». È una democrazia dominata e spesso governata da ex militari professionisti: anche solo questo la distingue dagli altri paesi avanzati. E dobbiamo tenere presente che Gaza è un’altra «democrazia» presente in Medio Oriente: proprio perché Hamas uscì vittoriosa da libere elezioni nel 2005, l’Autorità palestinese e Israele reagirono entrambe in maniera furibonda.

N. 3: Israele è / non è responsabile

Israele non è responsabile del fatto che molti suoi vicini le abbiano a lungo negato il diritto di esistere. Quando cerchiamo di capire il carattere delirante di molte dichiarazioni israeliane, non dobbiamo sottovalutare l’effetto che fa sentirsi assediati.

Com’era prevedibile, lo Stato ha contratto abitudini patologiche. Fra queste, quella più esiziale è il ricorso abituale alla forza. Poiché ha funzionato a lungo – le facili vittorie dei primi anni di vita del paese sono impresse nella memoria popolare –, Israele ha difficoltà a concepire risposte di altro tipo. E il fallimento dei negoziati del 2000 a Camp David ha rafforzato la convinzione che «non ci sia nessuno con cui parlare».

Ma qualcuno c’è. Come i funzionari americani riconoscono in privato, prima o poi Israele (o qualcuno) dovrà parlare con Hamas. Dall’Algeria francese al Sud Africa e all’Ira, la storia si ripete: la potenza dominante nega la legittimità dei «terroristi» e in tal modo ne rafforza il potere; poi negozia con loro in segreto e, infine, concede potere, indipendenza o un posto al tavolo delle trattative. Israele negozierà con Hamas: l’unica domanda è perché non ora.

N. 4: I palestinesi sono / non sono responsabili

Abba Eban, l’ex ministro degli Esteri israeliano, ha affermato che gli arabi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione. Non aveva del tutto torto. La posizione «negazionista» dei movimenti di resistenza palestinesi dal 1948 fino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso non ha dato grandi risultati. E Hamas, che si colloca saldamente in quella tradizione, ma gode di un maggiore e sincero favore popolare rispetto ai suoi predecessori, dovrà riconoscere il diritto di Israele di esistere.

Ma dal 1967 è Israele ad avere perso la maggior parte delle occasioni: un’occupazione quarantennale (contro il parere dei suoi stessi uomini politici più anziani), tre invasioni catastrofiche del Libano, un’invasione e blocco di Gaza a dispetto dell’opinione mondiale e ora un attacco maldestro contro dei civili in acque internazionali. I palestinesi avrebbero difficoltà a eguagliare questa somma di scivoloni.

Il terrorismo è l’arma dei deboli: gli attentati contro obiettivi civili non sono stati inventati dagli arabi (né dagli ebrei che ci si dedicavano prima del 1948). Moralmente indifendibile, ha caratterizzato i movimenti di resistenza di ogni colore per almeno un secolo. Gli israeliani hanno ragione a insistere sul fatto che qualsiasi trattativa o accordo dipenderà dalla rinuncia solenne di Hamas a farvi ricorso.

Ma i palestinesi si trovano di fronte allo stesso dilemma con cui si confronta qualsiasi altro popolo oppresso: tutto ciò che hanno da opporre a uno Stato costituito che ha il monopolio del potere è il rifiuto e la protesta. Se accolgono preventivamente ogni richiesta israeliana – il ripudio della violenza, l’accettazione di Israele, il riconoscimento di tutte le perdite – che cosa possono portare al tavolo dei negoziati? Israele ha l’iniziativa, e dovrebbe esercitarla.

N. 5: La lobby israeliana è / non è responsabile

A Washington è presente una lobby israeliana che svolge un ottimo lavoro: a questo servono le lobby. Chi afferma che la lobby israeliana è ingiustamente descritta come «troppo influente» (con il significato sottinteso di un’eccessiva influenza ebraica dietro le quinte) non ha tutti i torti: la lobby delle armi, la lobby del petrolio e la lobby del settore bancario hanno tutte fatto molti più danni alla salute di questo paese.

Ma la lobby israeliana ha un’influenza sproporzionata. Perché, altrimenti, la stragrande maggioranza dei membri del Congresso si piega a ogni mozione a favore di Israele? Non più di una manciata di loro mostra un interesse costante per l’argomento. Una cosa è denunciare il potere eccessivo di una lobby, tutt’altra accusare gli ebrei di «governare il paese». Non dobbiamo autocensurarci per paura che la gente confonda le due cose. Per citare le parole di Arthur Koestler: «Il timore di trovarsi in cattiva compagnia non è espressione di purezza politica: è la manifestazione di una mancanza di fiducia in se stessi».

N. 6: Le critiche nei confronti di Israele sono / non sono legate all’antisemitismo

L’antisemitismo è l’odio per gli ebrei e Israele è uno Stato ebraico, quindi è ovvio che qualche critica rivolta al paese abbia motivazioni malevole. Ci sono stati casi, nel passato recente (segnatamente in Unione sovietica e nei suoi Stati satellite), in cui l’«antisionismo» era un comodo surrogato dell’antisemitismo ufficiale. È comprensibile che molti ebrei e israeliani non lo abbiano dimenticato.

Ma le critiche nei confronti di Israele, che vengono mosse con crescente frequenza da ebrei non israeliani, non sono motivate in misura predominante dall’antisemitismo. Lo stesso vale per l’antisionismo contemporaneo; il sionismo stesso si è notevolmente allontanato dall’ideologia dei suoi «padri fondatori»: oggi promuove rivendicazioni territoriali, l’esclusività religiosa e l’estremismo politico. Si può riconoscere il diritto di Israele di esistere ed essere comunque antisionista (o «post-sionista»). Anzi, dato l’accento posto dal sionismo sul bisogno degli ebrei di fondare un proprio «Stato normale», l’insistenza di oggi sul diritto di Israele di agire in maniere «anormali» perché è uno Stato ebraico fa supporre che il sionismo sia fallito.

Dovremmo guardarci dal chiamare continuamente in causa l’«antisemitismo». Una generazione più giovane negli Stati Uniti, per non parlare del mondo, sta diventando scettica. «Se le critiche riguardo al blocco di Gaza sono potenzialmente ‘antisemite’, perché prendere sul serio altri esempi di pregiudizi?»; «E se l’Olocausto non fosse diventato altro che l’ennesima scusa per giustificare il comportamento scorretto di Israele?»: sono queste le domande che fanno. Non si devono ignorare i rischi che gli ebrei corrono incoraggiando questa confusione.

Insieme con gli sceiccati del petrolio, Israele oggi rappresenta il più grave handicap strategico dell’America in Medio Oriente e Asia centrale. Grazie a Israele, corriamo il serio pericolo di «perdere» la Turchia: una democrazia musulmana offesa dal trattamento riservatole dall’Unione europea, che è un soggetto di cardinale importanza negli affari in Medio Oriente e Asia centrale. Senza la Turchia, gli Stati Uniti non raggiungeranno molti obiettivi nella regione: in Iran, Afghanistan o nel mondo arabo. È giunto il momento di fare piazza pulita dei cliché, di trattare Israele come uno Stato «normale» e di tagliare una volta per tutte il cordone ombelicale.

 

* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel giugno del 2010 sul «New York Times».