Capitolo 22
Ridateci le ferrovie!*

Come viviamo oggi

Le ferrovie sono in declino dalla metà del secolo scorso. C’era sempre stata concorrenza per i passeggeri (e per le merci, anche se meno marcata). Dagli anni Novanta dell’Ottocento, i tram e gli autobus trainati da cavalli, seguiti una generazione dopo dalle varianti elettrica, a gasolio e a benzina, erano meno costosi da costruire e gestire rispetto ai treni. Il camion – subentrato al carretto trainato dal cavallo – era sempre stato competitivo per i tragitti brevi. Ora, con il motore diesel, poteva coprire lunghe distanze. E ormai c’erano gli aeroplani e, soprattutto, le automobili, che anno dopo anno diventavano meno costose, più veloci, sicure e affidabili.

Anche sulle distanze maggiori, per le quali era stata originariamente concepita, la ferrovia si trovava in posizione di svantaggio: i costi di avviamento e di manutenzione – per i rilevamenti, lo scavo di gallerie, la posa delle rotaie, la costruzione delle stazioni e del materiale rotabile, il passaggio al gasolio, l’elettrificazione – erano superiori a quelli dei mezzi di trasporto concorrenti e le compagnie ferroviarie non riuscivano mai ad ammortizzarli. Le automobili prodotte in serie, invece, avevano costi di fabbricazione contenuti e le strade sulle quali viaggiavano erano finanziate dai contribuenti. Certo, comportavano spese sociali elevate, soprattutto per l’ambiente, ma questi costi si sarebbero presentati soltanto in un secondo momento. Le automobili, soprattutto, rappresentavano la possibilità di tornare a viaggiare in privato. Il viaggio in treno, su carrozze che perdevano via via le pareti divisorie e dovevano essere riempite per permettere ai gestori di pareggiare i conti, era decisamente un sistema di trasporto pubblico.

Già alle prese con queste difficoltà, dopo la seconda guerra mondiale la ferrovia dovette affrontare una nuova sfida. La città moderna era nata dal viaggio in treno. La possibilità stessa di radunare milioni di persone l’una accanto all’altra, o di trasportarle su distanze considerevoli da casa al lavoro e viceversa, era una conquista della ferrovia. Ma assorbendo la gente dalle campagne nelle città e prosciugando le zone rurali di comunità, centri abitati e lavoratori, il treno aveva cominciato a perdere la sua stessa ragion d’essere: trasportare passeggeri dalle cittadine e dalle zone rurali isolate nei centri urbani. Da principale facilitatore dell’urbanizzazione ne divenne la vittima. Ora che la stragrande maggioranza dei viaggi non facoltativi erano o lunghissimi o brevissimi, l’aeroplano e l’automobile erano mezzi più razionali con cui effettuarli. C’era ancora spazio per il trasporto a breve distanza, i treni suburbani con fermate frequenti e, almeno in Europa, i treni espresso a media percorrenza. Ma niente di più. Persino il trasporto merci era minacciato da servizi di trasporto su gomma poco costosi, sovvenzionati dallo Stato sotto forma di superstrade mantenute con i fondi pubblici. Qualsiasi altra proposta sarebbe stata una partita persa.

Le ferrovie subirono quindi un declino. Le compagnie private, ove ancora esistevano, fallivano. In molti casi venivano rilevate da aziende pubbliche appositamente costituite, a spese dei contribuenti. Le autorità pubbliche trattavano le ferrovie come un onere increscioso, se pur inevitabile, imposto all’erario e contenevano gli investimenti chiudendo le linee «improduttive».

Quanto «inesorabile» fosse, di preciso, questo processo variava da un luogo a un altro. Le «forze di mercato» erano al massimo dell’aggressività (e le ferrovie erano quindi più minacciate) in Nord America, dove le compagnie ferroviarie ridussero al minimo la loro offerta negli anni successivi al 1960, e in Gran Bretagna, dove nel 1964 una commissione nazionale presieduta dal dottor Richard Beeching fece chiudere un numero eccezionale di linee e servizi rurali e secondari per preservare l’«efficienza» economica delle ferrovie britanniche. In entrambi i paesi l’esito fu infelice: le ferrovie fallite d’America furono di fatto «nazionalizzate» negli anni Settanta. Vent’anni dopo, le ferrovie britanniche, in mani pubbliche dal 1948, furono svendute senza tante cerimonie alle aziende private disposte a presentare un’offerta per le linee e i servizi più redditizi.

In Europa continentale, nonostante la chiusura di alcune linee e la riduzione delle attività, la cultura del servizio pubblico e il più lento ritmo di diffusione dell’automobile permisero di preservare gran parte dell’infrastruttura ferroviaria. In quasi tutto il resto del mondo, la povertà e l’arretratezza contribuirono a conservare il treno quale unica forma praticabile di trasporto di massa. Ovunque, tuttavia, le ferrovie – araldo ed emblema di un’era di investimenti pubblici e orgoglio civico – furono vittime di una duplice perdita di fiducia: nei benefici dei servizi pubblici, che si giustificavano da sé, ma erano ormai soppiantati da considerazioni di redditività e di concorrenza, e nella rappresentazione concreta dell’opera collettiva attraverso il design urbano, lo spazio pubblico e l’euforia architettonica.

Gli effetti provocati da questi mutamenti si potevano scorgere, in modo particolarmente brutale, nel destino delle stazioni. Tra il 1955 e il 1975 una combinazione di tendenze antistoricistiche e di tornaconto aziendale determinò la demolizione di un numero considerevole di stazioni di testa: proprio quegli edifici e quegli spazi che avevano fastosamente testimoniato il ruolo centrale del viaggio in treno nel mondo moderno. In alcuni casi – Euston Station (Londra), la Gare du Midi (Bruxelles), Penn Station (New York) – fu necessario sostituire in un modo o nell’altro l’edificio demolito, perché la funzione di fondo della stazione, cioè permettere alle persone di spostarsi, restava importante. In altri – la Anhalter Bahnhof a Berlino, per esempio – la struttura classica fu semplicemente abbattuta, senza prevederne la sostituzione. In molte di queste trasformazioni, la stazione vera e propria veniva trasferita sotto il piano stradale e nascosta alla vista, mentre l’edificio visibile, al quale non era più affidato uno scopo civile edificante, veniva demolito e rimpiazzato da un anonimo centro commerciale, palazzo di uffici o centro ricreativo, o tutte e tre le cose insieme. La Pennsylvania Station a New York (o la quasi contemporanea e mostruosamente anonima Gare Montparnasse di Parigi) è forse l’esempio più famoso e calzante1.

Il vandalismo urbano dell’epoca non si limitò alle stazioni ferroviarie, ovviamente, ma esse (assieme ai servizi che un tempo fornivano, quali alberghi, ristoranti e cinema) ne furono di gran lunga le vittime più illustri – vittime appropriate anche dal punto di vista simbolico: un cimelio dei nobili valori moderni, inefficiente e insensibile al mercato. Va detto però che il viaggio in treno in sé non subì un declino, o almeno non in termini quantitativi: anche se le stazioni ferroviarie perdevano via via il loro fascino e il loro simbolico prestigio pubblico, il numero di fruitori effettivi continuava ad aumentare. Com’è ovvio, questo è avvenuto soprattutto nei paesi poveri e densamente abitati, dove non esistevano alternative realistiche (l’India è l’esempio più eclatante, ma non è assolutamente l’unico).

In effetti, nonostante gli investimenti inadeguati e una certa promiscuità sociale fra le caste, che le rende poco attraenti per i nuovi professionisti del paese, le ferrovie e le stazioni indiane, come quelle di gran parte del mondo non occidentale (per esempio in Cina, Malaysia o persino nella Russia europea), probabilmente hanno un futuro assicurato. Per i paesi che non hanno beneficiato dell’affermazione del motore a combustione interna quando il petrolio era a buon mercato, alla metà del Novecento, i costi da sostenere per riprodurre l’esperienza americana o britannica nel ventunesimo secolo sarebbero proibitivi.

Il futuro delle ferrovie, argomento morbosamente sgradevole fino a tempi molto recenti, non riveste solo un interesse passeggero. È anche molto promettente. Le insicurezze estetiche dei primi decenni del secondo dopoguerra – il «neobrutalismo» che favorì e contribuì ad accelerare la demolizione di molte grandi opere di architettura pubblica e urbanistica realizzate nel diciannovesimo secolo – fanno parte del passato. Non siamo più imbarazzati dagli eccessi dello stile rococò, neo-gotico o Beaux Arts che caratterizzano le grandi stazioni ferroviarie dell’era industriale e siamo anzi in grado di vedere quegli edifici allo stesso modo in cui li vedevano i loro progettisti e contemporanei: come le cattedrali dell’epoca, da preservare per il loro bene e per il nostro. La Gare du Nord e la Gare d’Orsay a Parigi, la Grand Central Station a New York e la Union Station a St. Louis, la St. Pancras International Station a Londra, la Keleti pályaudvar a Budapest e decine di altre stazioni sono state tutte preservate e persino migliorate: alcune hanno conservato la loro funzione originaria, altre hanno assunto un ruolo ibrido di centro commerciale e di viaggio, altre ancora sono diventati monumenti civici e cimeli culturali.

Queste stazioni, in molti casi, sono più vivaci e più importanti per le comunità in cui sorgono di quanto lo siano mai state in qualsiasi momento dagli anni Trenta ad oggi. È vero che il ruolo per il quale sono state progettate – spettacolari portali d’accesso alle città moderne – forse non sarà mai più pienamente apprezzato, se non altro perché gran parte delle persone che le usano passano dalla metropolitana al treno, dal posteggio dei taxi sotterraneo alle scale mobili che salgono ai binari, e non vedono mai l’edificio dall’esterno o da una certa distanza, come dovrebbe essere visto. Ma milioni di persone le usano. La città moderna oggi è così vasta, così estesa – e così affollata e costosa – che persino i più agiati sono tornati a fare ricorso ai trasporti pubblici, anche solo per andare e tornare dal lavoro. Più che in qualsiasi altro momento dalla fine degli anni Quaranta, le nostre città si affidano al treno per la loro stessa sopravvivenza.

Il prezzo del petrolio – sostanzialmente stagnante dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Novanta del Novecento (a parte le fluttuazioni indotte dalle crisi) – ora è in costante aumento ed è improbabile che scenderà mai a un livello al quale viaggiare di preferenza in auto torni a essere una scelta economicamente sostenibile. La logica del sobborgo residenziale, incontrovertibile con il petrolio a un dollaro al gallone, è ora messa in discussione. Il trasporto aereo, inevitabile per i viaggi a lunga distanza, al momento è scomodo e costoso per le medie percorrenze; e in Europa occidentale e in Giappone il treno è un’alternativa più piacevole e più rapida. Oggi il treno moderno presenta vantaggi ambientali davvero considerevoli, sia sotto il profilo tecnico sia dal punto di vista politico. Un sistema ferroviario alimentato con l’energia elettrica, come la metropolitana leggera o il sistema tramviario all’interno delle città, può funzionare con qualsiasi fonte combustibile trasformabile, tradizionale o innovativa, dall’energia nucleare all’energia solare. Per il prossimo futuro, questa possibilità rappresenta un vantaggio straordinario rispetto a qualsiasi altra forma di trasporto a motore.

Non è un caso che gli investimenti in infrastrutture pubbliche di trasporto ferroviario negli ultimi vent’anni siano aumentati ovunque in Europa occidentale e in gran parte dell’Asia e dell’America Latina (fra le eccezioni figurano l’Africa, dove tali investimenti in generale sono ancora trascurabili, e gli Stati Uniti, dove il concetto di finanziamento pubblico di qualsiasi tipo resta dolorosamente sottovalutato). In questi ultimi anni gli edifici ferroviari non sono più sepolti in oscure gallerie sotterranee, con la loro funzione e la loro identità ingloriosamente nascoste sotto un moggio di palazzi di uffici. Le nuove stazioni costruite con fondi pubblici a Lione, Siviglia, Coira (Svizzera) e Kowloon, o la stazione internazionale di Waterloo a Londra, dimostrano e celebrano la loro ritrovata rilevanza architettonica e civica, e tendono sempre più a essere opera di importanti architetti innovatori, come Santiago Calatrava o Rem Koolhaas.

Perché questa inattesa rinascita? La spiegazione può essere formulata in forma controfattuale: è possibile immaginare (e in molti paesi oggi è presa in considerazione) una politica pubblica che imponga una sistematica riduzione dell’uso non necessario di automobili e camion privati. È possibile, per quanto difficile da figurarsi, che il trasporto aereo diventi molto costoso e/o poco allettante, al punto di perdere la sua attrattiva per chi effettua viaggi non indispensabili. Ma è semplicemente impossibile prevedere una forma plausibile di economia urbana moderna senza la metropolitana, le linee tramviarie, la metropolitana leggera e le reti suburbane, le linee ferroviarie e i collegamenti interurbani.

Non vediamo più il mondo moderno attraverso l’immagine del treno, ma continuiamo a vivere nel mondo creato dai treni. Per tragitti di distanza inferiore a quindici chilometri o compresa fra duecento e ottocento chilometri in qualsiasi paese dotato di un sistema ferroviario funzionante, il treno è il mezzo più rapido con cui viaggiare e, tenendo conto di tutti i costi, è anche quello più economico e meno devastante. L’epoca che chiamavamo tarda modernità (il mondo post-ferroviario delle automobili e degli aerei) si è rivelata, come tante altre cose dei decenni tra il 1950 e il 1990, una semplice parentesi, indotta, in questo caso, dall’illusione di poter disporre all’infinito di carburante a basso prezzo e dal culto concomitante della privatizzazione. Le attrattive di un ritorno al calcolo «sociale» stanno diventando altrettanto evidenti agli amministratori moderni, quanto un tempo lo erano, per motivi molto diversi, ai nostri predecessori vittoriani. Un modello che a un certo punto sembrava antiquato è tornato a essere decisamente moderno.

La ferrovia e la vita moderna

Sin dall’invenzione del treno, e grazie ad essa, il viaggio è il simbolo e il sintomo della modernità: i treni – insieme con le biciclette, gli autobus, le automobili, le motociclette e gli aeroplani – sono stati esaltati nelle arti e nelle attività commerciali come l’indizio e la prova della presenza di una società all’avanguardia del cambiamento e dell’innovazione. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, l’evocazione di una particolare forma di trasporto come emblema di novità e contemporaneità aveva breve durata. Le biciclette sono state «nuove» soltanto una volta, negli anni Novanta dell’Ottocento. Le motociclette sono state «nuove» negli anni Venti, per i fascisti e per i giovani brillanti dell’aristocrazia londinese (e d’allora sono incantevolmente rétro). Le automobili (come gli aeroplani) sono state «nuove» nel decennio edoardiano e poi ancora, per un breve periodo, negli anni Cinquanta; da allora e in altri momenti hanno simboleggiato varie cose – affidabilità, prosperità, esibizionismo consumistico, libertà – ma non la «modernità» in sé.

I treni sono diversi. I treni incarnavano la vita moderna già negli anni Quaranta dell’Ottocento: per questo affascinavano i pittori «modernisti». Svolgevano ancora quel ruolo all’epoca dei grandi treni espressi che correvano da un capo all’altro del paese nell’ultimo decennio del secolo. Niente era più ultramoderno dei nuovi, aerodinamici Superliner che impreziosivano i manifesti neoespressionisti degli anni Trenta. I treni elettrificati della metropolitana furono l’idolo dei poeti modernisti dopo il 1900, proprio come ai giorni nostri lo Shinkansen giapponese e il Tgv francese sono un’icona di perizia tecnologica e comodità estrema a 300 chilometri l’ora. I treni, a quanto pare, sono perennemente moderni, anche se ogni tanto scompaiono alla vista. Lo stesso vale, più o meno, per le stazioni ferroviarie. La «stazione» di rifornimento delle prime strade nazionali oggi suscita una nostalgica simpatia quando viene raffigurata o rievocata, ma è stata ripetutamente sostituita da varianti funzionali aggiornate e la sua forma originale sopravvive soltanto nei ricordi. Gli aeroporti solitamente (e fastidiosamente) restano in funzione anche quando sono ormai diventati obsoleti sul piano estetico o funzionale, ma nessuno desidera preservarli per i loro pregi, e nessuno pensa che un aeroporto costruito negli anni Trenta o persino Sessanta possa essere di qualche utilità o interesse oggi.

Ma le stazioni ferroviarie costruite un secolo o persino un secolo e mezzo fa – la Gare de l’Est a Parigi (1852), la Paddington Station a Londra (1854), la Victoria Station a Bombay (1887), la Hauptbahnhof a Zurigo (1893) – non solo sono esteticamente attraenti e ispirano sempre più simpatia e ammirazione: funzionano. Anzi, funzionano in modo sostanzialmente identico a come funzionavano quando furono costruite, il che senza dubbio dimostra la qualità della progettazione e della costruzione, ma è anche prova della loro eterna contemporaneità. Le stazioni ferroviarie non diventano «antiquate». Non sono un’appendice o un elemento della vita moderna, né un suo sottoprodotto. Come le linee ferroviarie che costellano, le stazioni sono parte integrante del mondo moderno.

Spesso ci ritroviamo ad affermare o a dare per scontato che il tratto distintivo della modernità sia l’individuo: il soggetto irriducibile, la persona autonoma, l’io senza vincoli, il cittadino senza obblighi. Questo individuo moderno tende a essere favorevolmente contrapposto al soggetto non libero, dipendente e deferente del mondo pre-moderno. C’è qualcosa di vero in questa interpretazione, naturalmente; proprio come c’è qualcosa di vero nell’idea che l’accompagna, cioè che la modernità sia anche la storia dello Stato moderno, con le sue risorse, le sue capacità e le sue ambizioni. Ciononostante, considerata nel suo insieme, è errata, e si tratta di un errore pericoloso. Il vero tratto distintivo della vita moderna – quello con cui perdiamo il contatto a nostro rischio e pericolo – non è né l’individuo senza legami né lo Stato senza vincoli. È ciò che sta fra l’uno e l’altro: la società. Per essere più precisi, è la società civile o (come si diceva nell’Ottocento) la società borghese.

Le ferrovie erano e continuano a essere il corollario necessario e naturale della nascita della società civile. Sono un progetto collettivo a beneficio dell’individuo. Non possono esistere senza un accordo comune (e, in tempi recenti, una spesa comune) e sono concepite per offrire un vantaggio pratico sia all’individuo sia alla collettività. Questo il mercato non è in grado di farlo, se non, stando a quel che pretende di essere, per felice disattenzione. Le ferrovie non sono sempre state sensibili all’ambiente – anche se in termini di costi generali dell’inquinamento non è certo che il motore a vapore fosse più dannoso del suo rivale a combustione interna –, ma erano e dovevano essere socialmente responsabili. E questo è uno dei motivi per cui non erano molto redditizie.

Se abbandoniamo le ferrovie, non ci priveremo soltanto di un bene pratico prezioso, la cui sostituzione o il cui recupero comporterebbero spese intollerabili. Avremo anche riconosciuto che abbiamo dimenticato come vivere collettivamente. Se ci sbarazziamo delle stazioni ferroviarie e delle linee che le collegano – come abbiamo cominciato a fare negli anni Cinquanta e Sessanta –, rinunceremo alla memoria di come vivere una tranquilla vita civica. Non è un caso che Margaret Thatcher – la quale ha notoriamente dichiarato che «non esiste una cosa chiamata società. Esistono solo singoli uomini e donne e le famiglie» – per principio non viaggiasse mai in treno. Se non riusciamo a spendere le nostre risorse collettive per le ferrovie e a viaggiare soddisfatti in treno, non è perché siamo entrati a far parte di gated communities, ovvero comunità chiuse in recinti, tali per cui per spostarci tra l’una e l’altra ci basta l’auto privata. È perché siamo diventati gated individuals, persone blindate che non sono capaci di condividere lo spazio pubblico a vantaggio di tutti. Le implicazioni di una simile perdita andrebbero ben oltre la scomparsa di un sistema di trasporto fra gli altri. Significherebbe farla finita con la vita moderna.

 

* Questo articolo è la seconda parte del saggio sulla locomozione. È stato pubblicato postumo nel gennaio 2011 sulla «New York Review of Books».

1 Il servizio ferroviario sulla Pennsylvania Central Railroad è cessato nel 1972, appena otto anni dopo che il profitto era prevalso sul prestigio e la Pennsylvania Station di Manhattan era stata rasa al suolo per fare spazio al Madison Square Garden.