Capitolo 6
La strada verso il nulla*

Nel 1958, al culmine della crisi algerina, quando gli arabi bombardavano i caffè francesi ad Algeri, Parigi condonava tacitamente l’uso della tortura da parte dell’esercito di occupazione francese e i colonnelli paramilitari esigevano mano libera per porre fine al terrore, il filosofo francese Raymond Aron pubblicò un libretto, L’Algérie et la République1. Tralasciando le rivendicazioni storiche e sentimentali di entrambe le parti, Aron spiegava con la sua tipica sobrietà perché i francesi dovevano lasciare l’Algeria. La Francia non aveva né la volontà né i mezzi per imporre il dominio francese sugli arabi o per riconoscere agli arabi un ruolo paritario in Francia. Se i francesi fossero restati, la situazione si sarebbe soltanto esacerbata e se ne sarebbero inevitabilmente andati in un momento successivo, ma in condizioni peggiori e con strascichi più dolorosi. Il danno che la Francia stava infliggendo agli algerini era di gran lunga inferiore a quello che la Repubblica arrecava a se stessa. Per quanto impossibile apparisse, la scelta era comunque molto semplice: la Francia doveva andarsene.

Molti anni dopo fu chiesto ad Aron perché non fosse mai intervenuto sulle questioni scottanti dell’epoca: la tortura, il terrorismo, la strategia francese degli omicidi politici avallati dallo Stato, le rivendicazioni nazionali degli arabi e l’eredità coloniale dei francesi. Tutti, rispose, parlavano di queste cose: perché aggiungere la mia voce? L’importante non era più analizzare le origini della tragedia, né individuarne i responsabili. L’importante era fare ciò che andava fatto.

Nella cacofonia di commenti e di accuse che vorticano intorno alla sciagura in Medio Oriente, si sente molto la mancanza dell’algida chiarezza di Aron. Perché anche la soluzione del conflitto israelo-palestinese è sotto gli occhi di tutti. Israele esiste. I palestinesi e gli altri arabi prima o poi lo accetteranno; molti lo accettano già. I palestinesi non possono essere né estirpati dalla «Grande Israele» né integrati al suo interno: se fossero espulsi in Giordania, quest’ultima esploderebbe, con conseguenze disastrose per Israele. I palestinesi hanno bisogno di uno Stato proprio e lo avranno. I due Stati saranno delineati secondo la carta geografica stabilita nel gennaio del 2001 durante i negoziati di Taba, in base alla quale i confini del 1967 saranno modificati, ma quasi tutti i territori occupati saranno sotto l’autorità dei Palestinesi. Il destino degli insediamenti israeliani nei territori occupati è quindi già segnato: saranno in gran parte smantellati, come molti israeliani nel loro intimo ammettono.

Gli arabi non potranno esercitare il diritto di ritorno ed è ora che anche gli ebrei rinuncino al loro, ormai anacronistico. Gerusalemme in gran parte è già divisa lungo linee etniche e sarà infine la capitale di entrambi gli Stati. Poiché i due Stati avranno un interesse comune a preservare la stabilità e problemi comuni in tema di sicurezza, col tempo impareranno a cooperare. Le organizzazioni radicate nella comunità locale, come Hamas, se avranno la possibilità di trasformarsi da reti terroristiche in partiti politici, seguiranno questo percorso. Esistono numerosi precedenti.

Se questo è il futuro della regione, perché si sta dimostrando tragicamente difficile arrivarci? Quattro anni dopo il saggio di Aron, de Gaulle tolse dagli impicci i suoi connazionali in Algeria con relativa facilità. Dopo cinquant’anni di brutale repressione e sfruttamento, i bianchi sudafricani hanno ceduto il potere alla maggioranza nera che li ha sostituiti senza violenze o vendette. Il Medio Oriente è così diverso? Dal punto di vista dei palestinesi, l’analogia coloniale calza e i precedenti all’estero potrebbero essere validi. Gli israeliani, però, sostengono altro.

Molti israeliani sono ancora impastoiati nella storia della loro unicità. Per alcuni, questa si fonda sull’esistenza primordiale di un antico Stato ebraico nel territorio della moderna Israele. Per altri, su un diritto ai territori della Giudea e della Samaria conferito da Dio. Molti continuano a invocare l’Olocausto e la pretesa che esso autorizza gli ebrei ad avanzare alla comunità internazionale. Persino chi respinge tutti questi argomenti speciosi chiama la geografia a difesa della propria distinzione. Siamo molto vulnerabili, dicono, circondati da nemici, e non possiamo correre rischi né permetterci di commettere un solo errore. I francesi potevano ritirarsi al di là del Mediterraneo; il Sudafrica è un paese immenso. Noi non sappiamo dove andare. Infine, dietro ogni rifiuto israeliano di affrontare l’inevitabilità delle scelte difficili c’è la garanzia implicita degli Stati Uniti.

Il problema per il resto del mondo è che dal 1967 Israele è cambiata in modi che rendono assurda la descrizione tradizionale che dà di sé. Oggi è una potenza coloniale nella regione, secondo alcuni dati la quarta potenza militare nel mondo. Israele è uno Stato, con tutte le peculiarità e le capacità di uno Stato. Al confronto, i palestinesi sono realmente deboli. È vero che le debolezze della leadership palestinese sono abissali e i crimini dei terroristi palestinesi estremamente cruenti, ma il fatto è che l’iniziativa militare e politica è nelle mani di Israele. La responsabilità di superare l’attuale impasse ricade quindi primariamente (anche se, come vedremo, non esclusivamente) su Israele.

Ma gli stessi israeliani sono ciechi di fronte a questa realtà. Ai propri occhi sono ancora una piccola comunità di vittime che si difendono con moderazione e controvoglia da immani avversità. La loro leadership politica straordinariamente inetta ha sperperato trent’anni dopo l’esaltante vittoria del giugno 1967. Durante questo periodo, gli israeliani hanno costruito insediamenti illegali nei territori occupati e indossato uno scudo di cinismo: nei confronti dei palestinesi, che trattano con disprezzo, e nei confronti degli Stati Uniti, dei quali hanno manipolato senza pudore il generoso ritiro di un tempo.

Israele non costituisce una minaccia duratura per la Siria o per Hezbollah in Libano, per l’ala militare di Hamas o per qualsiasi altra organizzazione estremista. Al contrario, hanno tutte prosperato a lungo grazie alla sua prevedibile reazione ai loro attacchi. Ma il governo attuale di Israele è andato vicino a distruggere l’Autorità palestinese. Dopo gli avvenimenti del mese scorso, i politici palestinesi abbastanza stupidi da prendere in parola gli israeliani saranno castigati come traditori e liquidati di conseguenza. Lo Stato di Israele si è generosamente privato di interlocutori palestinesi credibili.

Questa è l’impresa per la quale si è distinto Ariel Sharon, la mente oscura di Israele. Tristemente noto tra i militari per la sua incompetenza strategica – al successo tattico ottenuto con aggressive avanzate di carri armati non ha mai associato la capacità di vedere il quadro d’insieme –, Sharon si è rivelato inetto proprio come molti di noi temevano. Ha ripetuto (o, nel caso dell’espulsione di Arafat, ha provato a ripetere) tutti gli errori della sua occupazione del Libano nel 1982, finanche la stessa retorica. L’ossessione di Sharon per Yasser Arafat fa pensare all’ispettore Javert di Victor Hugo che dedica la vita e la carriera al forsennato tentativo di distruggere Jean Valjean, ad ogni costo e contro ogni ragione, compresa la propria (il paragone letterario è lusinghiero tanto per Sharon quanto per Arafat).

Intanto è riuscito da solo a elevare la statura internazionale di Arafat al gradino più alto che abbia mai raggiunto negli anni. Se mai dovesse riuscire a sbarazzarsi di Arafat e gli attentatori continuassero ad arrivare, come succederà, che cosa farà Sharon? Cosa farà quando i giovani arabi di Israele, esasperati dal trattamento riservato ai loro cugini a Jenin e Ramallah occupate, si offriranno volontari per missioni suicide? Manderà i carri armati in Galilea? Innalzerà recinzioni elettrificate attorno ai quartieri arabi di Haifa?

Sharon e l’establishment politico israeliano – per non parlare dell’intelligencija progressista del paese che, come Pilato, se ne è lavata le mani – sono i principali responsabili della crisi attuale, ma non sono i soli. Proprio perché gli israeliani danno per scontato di avere carta bianca da Washington, gli Stati Uniti sono coinvolti, volenti o nolenti, in questo pasticcio. Negli ultimi trent’anni, ogni serio tentativo di promuovere la pace in Medio Oriente, da Henry Kissinger a Bill Clinton, è cominciato con l’esortazione e l’intervento degli americani. Perché, allora, l’amministrazione Bush è rimasta in disparte così a lungo, provocando l’ira internazionale e compromettendo la propria influenza futura?

Perché il presidente americano, a fine marzo e inizio aprile, ha continuato a limitarsi a osservare ipocritamente che «Arafat dovrebbe fare di più» per tenere a bada gli attentatori suicidi, mentre il capo dell’Autorità palestinese era tenuto rinchiuso in tre stanze, con il solo telefono cellulare a disposizione? Perché, mentre l’attuale crisi si intensificava, un uomo dotato dell’acume e dell’intelligenza di Colin Powell ha supinamente accolto la cinica pretesa di Sharon di un periodo arbitrario di «calma assoluta» (salvo sporadici omicidi da parte degli israeliani), prima di cominciare qualsiasi discussione politica? Perché gli Stati Uniti sono rimasti a guardare quando, come si leggeva sul «New York Times» il 9 aprile, «più di duecento palestinesi sono stati uccisi e più di 1500 sono rimasti feriti da quando i carri armati e gli elicotteri da combattimento israeliani sono arrivati in Cisgiordania il 29 marzo»? Perché, in poche parole, gli Stati Uniti si sono legati di propria volontà a un guinzaglio targato «terrorismo» con cui Sharon può strattonarli avanti e indietro a piacere?

La risposta, purtroppo, è l’11 settembre. Fino ad allora, persino Bush era consapevole della necessità di ammonire gli israeliani contro «gli omicidi mirati», come fece lo scorso agosto. Ma dall’11 settembre le semplici parole «terrorismo» e «terrorista» hanno messo fine al dibattito razionale sulla politica estera. Ad Ariel Sharon è bastato dichiarare Yasser Arafat capo «di una rete terrorista» perché Washington appoggi docilmente ogni azione militare che intraprende. Siamo ipnotizzati dalla nuova retorica di questa «guerra al terrore»: qualsiasi politico in grado di qualificare con argomenti persuasivi i propri critici interni o esteri come «terroristi» ha la garanzia di ottenere almeno ascolto dal governo americano, e di solito anche qualcos’altro.

«Terrorista» rischia di diventare il mantra del nostro tempo, come «comunista», «capitalista», «borghese» e altri termini in passato. Allo stesso modo, esclude ogni ulteriore discussione. La parola ha la sua storia: Hitler e Stalin erano soliti descrivere i loro oppositori come «terroristi». I terroristi esistono davvero, come sappiamo, proprio come esistono veri borghesi e autentici comunisti; il terrore contro i civili è l’arma d’elezione del debole. Ma il problema è che «terrorista», come «Stato canaglia», è un espediente retorico proteiforme che può ritorcersi contro chi vi fa ricorso: i terroristi ebrei erano tra i fondatori dello Stato di Israele e potrebbe non volerci molto prima che le Nazioni Unite approvino una risoluzione che definisce Israele uno Stato canaglia.

La prima fase di qualsiasi soluzione in Medio Oriente, dunque, è che gli Stati Uniti abbandonino la loro ossessione retorica e autolesionista per la guerra al terrorismo, grazie alla quale Ariel Sharon tiene in pugno la politica estera americana, e comincino a comportarsi come la grande potenza che sono. Invece di farsi ricattare e ridurre al silenzio dal primo ministro israeliano, Washington deve imporgli, e imporre a qualsiasi rappresentante palestinese sia sopravvissuto alle sue attenzioni, di cominciare a trattare. Due anni fa, o anche solo un anno fa, poteva essere ragionevole esigere dall’Autorità palestinese la cessazione di tutte le ostilità prima dell’inizio delle trattative. Ma grazie ad Ariel Sharon, nessun palestinese disposto a negoziare è in condizione di soddisfare tale richiesta. Perciò, bombe o non bombe, dovranno svolgersi negoziati e si dovrà giungere a un accordo di pace.

Gli israeliani, è chiaro, chiederanno come possano parlare con uomini che hanno avallato gli attentati suicidi ai danni di civili israeliani. I palestinesi ribatteranno di non avere niente da dire a chi afferma di volere una pace permanente, ma ha costrui­to trenta nuovi insediamenti di coloni solo nell’ultimo anno. Ciascuna parte ha buoni motivi per diffidare dell’altra. Ma non c’è alternativa: bisogna obbligarle a dialogare2. E poi dovranno cominciare a dimenticare.

C’è molto da dimenticare. I palestinesi ricordano le espulsioni di massa del 1948, gli espropri delle terre, lo sfruttamento economico, la colonizzazione della Cisgiordania, gli omicidi politici e centinaia di piccole umiliazioni quotidiane. Gli israeliani ricordano la guerra del 1948, il rifiuto degli arabi di riconoscere il loro Stato prima del 1967 e, in seguito, le reiterate minacce di cacciare gli ebrei in mare e le orribili stragi di civili commesse a casaccio nell’ultimo anno.

Ma i ricordi mediorientali non sono un’eccezione, né si distinguono per la loro abbondanza. Per due decenni l’esercito repubblicano irlandese ha sparato e ha ucciso con regolarità civili protestanti sulla porta di casa, davanti ai figli. I tiratori protestanti hanno reagito nello stesso modo. La violenza continua, pur essendosi ridotta parecchio. Questo non ha impedito ai protestanti moderati di dialogare pubblicamente con le controparti del Sinn Féin: Gerry Adams e Martin McGinnis oggi sono riconosciuti come legittimi leader politici. Altrove, meno di sei anni dopo l’eccidio del 1944 nel villaggio di Oradour, dove le SS uccisero e arsero vivi circa settecento uomini, donne e bambini francesi, Francia e Germania si riunirono per costituire il nucleo di un nuovo progetto europeo.

Negli spasmi finali della seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di polacchi e di ucraini furono uccisi o espulsi dai rispettivi territori dai vicini ucraini e polacchi, in un parossismo di violenza all’interno di una comunità ineguagliato da qualsiasi evento mai verificatosi in Medio Oriente: al ritmo attuale, ebrei e arabi impiegherebbero decenni per raggiungere un numero di vittime paragonabile. Eppure oggi i polacchi e gli ucraini, nonostante tutti i loro tragici ricordi, vivono non solo in pace, ma in crescente collaborazione e cooperazione lungo una frontiera tranquilla.

Si può fare. In Medio Oriente oggi ciascuna parte vive sigillata ermeticamente in ricordi e narrazioni nazionali in cui il dolore dell’altra parte è invisibile e inudibile. Ma lo stesso succedeva agli algerini e ai francesi, ai francesi e ai tedeschi, agli ucraini e ai polacchi e, in particolare, ai protestanti e ai cattolici in Irlanda del Nord. Non c’è un momento magico in cui i muri crollano, ma la sequenza degli avvenimenti è chiara: prima arriva la soluzione politica, di solito imposta dall’esterno e dall’alto, spesso quando il risentimento reciproco è al culmine. Soltanto dopo si può cominciare a dimenticare.

Il momento attuale, con Ariel Sharon pronto a mettere in moto un lungo ciclo di morte e devastazione nell’intera regione, potrebbe essere l’undicesima ora, come ha tardivamente riconosciuto il presidente americano. Di sicuro lo è per Israele. Molto tempo prima che gli arabi ottengano il loro territorio e il loro Stato, Israele si sarà disintegrata al suo interno. La paura di dare l’impressione di solidarizzare con Sharon, che già trattiene molti dal visitare Israele, si diffonderà rapidamente nell’intera comunità internazionale, facendo dello Stato di Israele un paria. Per malvagio che sia con i palestinesi, i palestinesi sopravvivranno a Sharon. Le prospettive di Israele sono meno certe. Per il resto del mondo la crisi in Medio Oriente rappresenta un rischio maggiore di guerra internazionale, e una probabile garanzia che la guerra al terrorismo dell’America, comunque sia descritta, fallirà3.

Gli osservatori benintenzionati del Medio Oriente contemporaneo a volte ripongono fiducia nell’egoismo illuminato delle parti belligeranti. I palestinesi, sostengono, starebbero tanto meglio accettando l’egemonia israeliana in cambio della prosperità materiale e della sicurezza personale e prima o poi rinuncerebbero di sicuro alle loro pretese di totale indipendenza. Ammesso che vi sia un calcolo strategico dietro i carri armati di Sharon, è questo: sufficientemente intimiditi, gli arabi capiranno quanto hanno da perdere combattendo e accetteranno una vita pacifica alle condizioni di Israele.

Questa è forse la più pericolosa di tutte le illusioni coloniali. È quasi certo che la maggior parte degli arabi algerini sarebbe stata meglio sotto il dominio francese che sotto i regimi repressivi nazionali che lo hanno sostituito. Lo stesso vale per i cittadini di molti Stati postcoloniali un tempo governati da Londra. Ma la qualità della vita non si misura semplicemente calcolando il reddito, la longevità, o persino la sicurezza. Come osservava Aron: «Dare per scontato che gli uomini sacrificheranno le loro passioni ai loro interessi significa negare l’esperienza del nostro secolo». Per questo motivo, nel trattamento riservato agli arabi loro assoggettati, gli israeliani sono sulla strada verso il nulla. Non esiste alternativa ai negoziati di pace e a una soluzione definitiva. E, se non ora, quando?

 

* Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nel maggio del 2002 sulla «New York Review of Books».

1 Plon, Paris 1958. Si veda anche La Tragédie algérienne, Plon, Paris 1957.

2 Un impedimento reale è che Ariel Sharon è ufficialmente noto per opporsi a qualsiasi accordo di pace definitivo che sia anche solo lontanamente accettabile per chiunque al di fuori di Israele. Non sa negoziare in buona fede. Gli israeliani devono trovare qualcuno in grado di farlo.

3 I commentatori e i funzionari americani si affrettano a negare qualsiasi legame tra l’antiamericanismo e il conflitto israelo-palestinese. Ma praticamente per chiunque altro nel mondo la relazione è penosamente ovvia.