Capitolo 7
Israele: l’alternativa*

Il processo di pace in Medio Oriente è finito. Non è morto: è stato ucciso. Mahmud Abbas è stato sabotato dal presidente dell’Autorità palestinese e umiliato dal primo ministro di Israe­le. Il suo successore attende di fare una fine analoga. Israele continua a farsi beffe del suo protettore americano, costruendo insediamenti illegali con cinica noncuranza della «road map». Il presidente degli Stati Uniti d’America è ridotto al pupazzo di un ventriloquo, che recita penosamente la linea del governo israe­liano: «È tutta colpa di Arafat». Gli israeliani aspettano cupi il prossimo attentatore. Gli arabi palestinesi, rinchiusi in bantustan sempre più ristretti, sopravvivono grazie all’elemosina dell’Ue. Nel paesaggio disseminato di cadaveri della Mezzaluna fertile, Ariel Sharon, Yasser Arafat e una manciata di terroristi possono tutti cantare vittoria, e lo fanno. Siamo giunti alla fine della corsa? Che cosa si può fare?

All’alba del ventesimo secolo, mentre gli imperi continentali volgevano al tramonto, i popoli assoggettati d’Europa sognavano di formare «Stati nazionali», patrie territoriali dove polacchi, cechi, serbi, armeni e altri potessero vivere liberi, padroni del proprio destino. Quando gli imperi degli Asburgo e dei Romanov crollarono dopo la prima guerra mondiale, i leader di questi popoli colsero l’occasione. Nacque una raffica di nuovi Stati, e la prima cosa che fecero fu privilegiare la propria maggioranza «etnica» nazionale – definita dalla lingua, dalla religione o dalle tradizioni, o da tutti e tre i fattori – a spese delle fastidiose minoranze locali, alle quali fu attribuito lo status di cittadini di seconda classe, per sempre stranieri in casa propria.

Ma le ambizioni di un movimento nazionalista, il sionismo, rimasero frustrate. Il sogno di una nazione ebraica, opportunamente situata nel mezzo del defunto impero turco, dovette attendere il ritiro dell’impero britannico: un processo che richiese altri tre decenni e una seconda guerra mondiale. Fu dunque solo nel 1948 che uno Stato nazionale ebraico venne creato nell’ex Palestina ottomana. Ma i fondatori dello Stato ebraico erano stati influenzati dagli stessi concetti e dalle stesse categorie dei loro contemporanei fin de siècle a Varsavia, Odessa o Bucarest: non a caso, la definizione etnico-religiosa che Israele dà di sé e le discriminazioni che pratica nei confronti degli «stranieri» interni hanno sempre avuto in comune con i metodi della Romania post-asburgica, per esempio, più di quanto ognuna delle due parti sarebbe disposta ad ammettere.

Il problema di Israele, in breve, non è – come qualcuno ha suggerito – che è un’«enclave» europea nel mondo arabo, ma che è arrivata troppo tardi. Israele ha importato un progetto separatista tipico del tardo Ottocento in un mondo che è andato avanti, un mondo di diritti individuali, frontiere aperte e diritto internazionale. L’idea stessa di uno «Stato ebraico» – uno Stato in cui gli ebrei e la religione ebraica godono di privilegi esclusivi dai quali i cittadini non ebrei sono esclusi per sempre – affonda le radici in un altro tempo e in un altro luogo. Israele, insomma, è un anacronismo.

Un aspetto essenziale, tuttavia, distingue chiaramente Israele dai precedenti microstati, insicuri e sulla difensiva, sorti dal crollo degli imperi: è una democrazia. Da qui trae origine il suo attuale dilemma. Grazie all’occupazione delle terre conquistate nel 1967, Israele oggi si trova di fronte a tre scelte poco allettanti. Può smantellare gli insediamenti ebraici nei territori occupati e tornare ai confini dello Stato del 1967, all’interno dei quali gli ebrei costituiscono la netta maggioranza, e rimanere così sia uno Stato ebraico sia una democrazia, anche se con una comunità di cittadini arabi di seconda classe, anomala sotto il profilo costituzionale.

In alternativa, Israele può continuare a occupare la «Samaria», la «Giudea» e Gaza, la cui popolazione araba, sommata a quella dell’odierna Israele, diventerà maggioranza demografica nell’arco di cinque-otto anni, nel qual caso Israele sarà o uno Stato ebraico (con una maggioranza in espansione di non ebrei senza diritto di voto) o sarà una democrazia. Ma, logicamente, non potrà essere entrambe le cose.

Oppure Israele può mantenere il controllo dei territori occupati, ma sbarazzarsi della schiacciante maggioranza araba: espellendo la popolazione con la forza o privandola di terre e mezzi di sostentamento, non lasciandole altra scelta se non quella dell’esilio. In questo modo Israele potrebbe in effetti rimanere sia uno Stato ebraico sia, almeno formalmente, una democrazia: ma al prezzo di diventare la prima democrazia moderna a condurre una pulizia etnica totale come progetto istituzionale, cosa che condannerebbe per sempre Israele allo status di nazione fuorilegge, un paria internazionale.

Chiunque ritenga che questa terza opzione sia impensabile, soprattutto per uno Stato ebraico, non ha osservato il costante aumento degli insediamenti e delle confische di terreni in Cisgiordania nell’ultimo quarto di secolo, o non ha ascoltato le dichiarazioni dei generali e dei politici della destra israeliana, alcuni dei quali sono attualmente al governo. Il partito al centro della politica israeliana oggi è il Likud. La sua componente principale è l’ex partito Herut di Menachem Begin. Lo Herut è l’erede del sionismo revisionista di Vladimir Žabotinskij fra le due guerre, la cui intransigente indifferenza nei confronti delle sottigliezze legali e territoriali a suo tempo si attirò l’epiteto di «fascista» da parte dei sionisti di sinistra. Quando si sente il vice primo ministro di Israele, Ehud Olmert, sottolineare con fierezza che il suo paese non ha escluso la possibilità di assassinare il presidente eletto dell’Autorità palestinese, è evidente che l’etichetta sia quanto mai calzante. L’omicidio politico è tipico dei fascisti.

La situazione di Israele non è disperata, ma potrebbe diventare irrisolvibile. Gli attentatori suicidi non riusciranno mai ad abbattere lo Stato israeliano, e i palestinesi non hanno altre armi. Esistono effettivamente frange arabe radicali che non si daranno pace finché non avranno spinto l’ultimo ebreo nel Mediterraneo, ma non rappresentano una minaccia strategica per Israele, e l’esercito israeliano lo sa. Quello che gli israeliani assennati temono molto più di Hamas o delle brigate al-Aqsa è la progressiva affermazione di una maggioranza araba nella «Grande Israele» e, soprattutto, l’erosione della cultura politica e della morale civica della loro società. Come ha scritto di recente Avraham Burg, noto politico laburista: «Dopo duemila anni di lotta per la sopravvivenza, la realtà di Israele è quella di uno Stato coloniale, governato da una cricca corrotta che disprezza ed elude la legge e la moralità civica»1. Se qualcosa non cambia, nel giro di cinque anni Israele non sarà più né ebraica né democratica.

Ed è qui che entrano in gioco gli Stati Uniti. Il comportamento di Israele è stato disastroso per la politica estera americana. Con il sostegno americano, Gerusalemme ha continuamente e sfacciatamente ignorato le risoluzioni dell’Onu che le chiedevano di ritirarsi dai territori conquistati e occupati durante la guerra. Israele è l’unico Stato mediorientale che possieda vere e proprie armi di distruzione di massa. Volgendo lo sguardo altrove, gli Stati Uniti hanno di fatto affossato i loro stessi tentativi, sempre più frenetici, di impedire che armi del genere cadano nelle mani di altri piccoli Stati potenzialmente bellicosi. L’appoggio incondizionato di Washington a Israele, anche a dispetto delle perplessità (taciute), è il motivo principale per cui buona parte del resto del mondo non crede più alla nostra buona fede.

È ora tacitamente ammesso, da chi è nella posizione per saperlo, che le ragioni americane per muovere guerra all’Iraq non erano necessariamente quelle sbandierate all’epoca2. Per molti componenti dell’attuale amministrazione statunitense, un’importante considerazione strategica era l’esigenza di destabilizzare e poi riconfigurare il Medio Oriente in un modo ritenuto favorevole a Israele. Questa storia continua. Ora lanciamo minacciosi avvertimenti alla Siria perché i servizi segreti israeliani ci hanno assicurato che le armi irachene sono state trasferite lì – un’affermazione che non trova conferma presso alcun’altra fonte. La Siria sostiene Hezbollah e la jihad islamica: nemici giurati di Israele, questo è certo, ma non si possono considerare una minaccia internazionale significativa. Finora Damasco ha peraltro fornito agli Stati Uniti informazioni di fondamentale importanza su al-Qaeda. Come l’Iran, altro bersaglio di vecchia data della collera israeliana che stiamo facendo di tutto per alienarci, la Siria è più utile agli Stati Uniti come amico che come nemico. Che guerra stiamo combattendo?

Il 16 settembre 2003 gli Stati Uniti hanno posto il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva a Israele di desistere dalla sua minaccia di deportare Yasser Arafat. Persino gli stessi funzionari americani riconoscono, ufficiosamente, che la risoluzione era ragionevole e prudente e che le dichiarazioni sempre più avventate dell’attuale leadership israeliana sono un grosso ostacolo alla pace, perché rafforzano la posizione di Arafat nel mondo arabo. Ma gli Stati Uniti hanno comunque bloccato la risoluzione, compromettendo ulteriormente la nostra credibilità di mediatore onesto nella regione. Gli amici e gli alleati dell’America nel mondo non si stupiscono più di fronte a queste posizioni, cionondimeno ne sono rattristati e delusi.

I politici israeliani da molti anni contribuiscono attivamente ai propri problemi: perché continuiamo ad aiutarli e a renderci complici dei loro errori? Gli Stati Uniti hanno fatto qualche tentativo in passato di fare pressione su Israele minacciando di sottrarre dal pacchetto di aiuti annuale una parte del denaro destinato a finanziare i coloni in Cisgiordania. Ma l’ultima volta che è stato fatto un tentativo del genere, durante l’amministrazione Clinton, Gerusalemme ha aggirato l’ostacolo accaparrandosi il denaro come «spesa per la sicurezza». Washington ha assecondato il sotterfugio e dei dieci miliardi di dollari di aiuti in quattro anni, dal 1993 al 1997, sono stati trattenuti meno di 775 milioni di dollari. Il programma di insediamenti è proseguito senza intoppi. Ora non proviamo nemmeno a fermarlo.

Questa reticenza a parlare e ad agire non è utile a nessuno. Ha anche avvelenato il dibattito interno in America. Invece di ragionare con lucidità sul Medio Oriente, politici ed esperti americani si scagliano contro gli alleati europei dissenzienti, parlano con leggerezza e irresponsabilità di recrudescenza dell’antisemitismo quando si critica Israele e rimproverano con toni censori chiunque, in America, si discosti dall’interpretazione prevalente.

Ma la crisi in Medio Oriente non si risolverà da sola. È probabile che il presidente Bush spiccherà per la sua assenza dalla mischia durante il prossimo anno, dopo aver detto quel tanto che basta sulla «road map» in giugno per accontentare Tony Blair. Ma presto o tardi un politico americano dovrà dire la verità a un primo ministro israeliano e trovare un modo per farsi ascoltare. I progressisti israeliani e i moderati palestinesi ripetono da due decenni la scomoda verità che l’unica speranza è che Israele smantelli quasi tutti gli insediamenti e ritorni ai confini del 1967, in cambio di un autentico riconoscimento da parte degli arabi di quelle frontiere e di uno Stato palestinese stabile e privo di terrorismo, garantito (e vincolato) dalle istituzioni occidentali e internazionali. Questa è ancora l’opinione prevalente, almeno a livello formale, e un tempo era una soluzione giusta e possibile.

Ma io temo che sia ormai troppo tardi. Ci sono troppi insediamenti, troppi coloni ebrei e troppi palestinesi, e vivono tutti insieme, anche se separati da filo spinato e divieti di passaggio. Qualsiasi cosa dica la «road map», il quadro reale è quello che c’è sul terreno e che, come dicono gli israeliani, riflette i fatti. Può anche darsi che più di duecentocinquantamila coloni ebrei, pesantemente armati e foraggiati, lascino la Palestina araba volontariamente, ma nessuno che io conosca crede che succederà. Molti di quei coloni moriranno – e uccideranno – piuttosto di muoversi da lì. L’ultimo politico israeliano a sparare contro degli ebrei per ragioni di politica statale fu David Ben-Gurion, che disarmò con la forza la milizia illegale di Begin, Irgun, nel 1948 e la integrò nelle nuove forze armate israeliane. Ariel Sharon non è Ben-Gurion3.

È giunto il momento di pensare l’impensabile. La soluzione dei due Stati – al centro del processo di Oslo e dell’attuale «road map» – probabilmente è ormai condannata a fallire. Anno dopo anno, continuiamo a rimandare una scelta difficile e inevitabile, che finora soltanto l’estrema destra e l’estrema sinistra ammettono, ciascuna per i propri motivi. La vera alternativa che il Medio Oriente si troverà di fronte nei prossimi anni sarà fra una Grande Israele ripulita etnicamente e un unico Stato integrato binazionale di ebrei e arabi, israeliani e palestinesi. I falchi del governo Sharon vedono la scelta proprio in questi termini, ed è per questo che prevedono l’allontanamento degli arabi come condizione ineluttabile per la sopravvivenza di uno Stato ebraico.

E se oggi nel mondo non ci fosse posto per uno «Stato ebraico»? Se la soluzione binazionale fosse un esito non solo sempre più probabile, ma in realtà anche desiderabile? Non è un’idea tanto peregrina. Quasi tutti i lettori di questo articolo vivono in Stati pluralisti, che da molto tempo sono multietnici e multiculturali. L’«Europa cristiana», con buona pace di M. Valéry Giscard d’Estaing, è lettera morta; la civiltà occidentale oggi è un caleidoscopio di colori, lingue e religioni, di cristiani, ebrei, musulmani, arabi, indiani e tanti altri – come può vedere chiunque visiti Londra, Parigi o Ginevra4.

Israele stessa è in tutto, fuorché nel nome, una società multiculturale; eppure continua a distinguersi dagli altri Stati democratici ricorrendo a criteri etnico-religiosi per denominare e classificare i propri cittadini. È un’anomalia fra le nazioni moderne, non perché – come affermano i suoi sostenitori più paranoici – è uno Stato ebraico e nessuno vuole che gli ebrei abbiano uno Stato; ma perché è uno Stato ebraico in cui una comunità (gli ebrei) è posta al di sopra delle altre, in un’epoca in cui questo tipo di Stato non ha più posto.

Per molti anni Israele ha avuto un significato speciale per il popolo ebraico. Dopo il 1948 ha accolto centinaia di migliaia di sopravvissuti derelitti che non avevano altro posto dove andare; senza Israele la loro situazione sarebbe stata disperata. Israele aveva bisogno di ebrei e gli ebrei avevano bisogno di Israele. Le circostanze della sua nascita hanno quindi inestricabilmente legato l’identità di Israele alla Shoah, al progetto tedesco di sterminare gli ebrei d’Europa. Il risultato è che qualsiasi critica a Israele viene inevitabilmente ricondotta al ricordo di quel progetto, cosa che gli apologeti americani di Israele non esitano a sfruttare senza vergogna. Trovare da ridire sullo Stato ebraico equivale a pensare male degli ebrei; persino immaginare una configurazione alternativa in Medio Oriente significa assecondare l’equivalente morale del genocidio.

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, per molti milioni di ebrei che non vivevano in Israele, la sua stessa esistenza era fonte di rassicurazione, o perché la concepivano come una specie di polizza assicurativa contro la rinascita dell’antisemitismo, o semplicemente perché la consideravano un modo per ricordare al mondo che gli ebrei erano capaci di difendersi e lo avrebbero fatto. Prima che ci fosse uno Stato ebraico, le minoranze ebraiche nelle società cristiane erano sempre sul chi vive e tenevano un profilo basso; dal 1948 potevano camminare a testa alta. Ma negli ultimi anni la situazione si è tragicamente ribaltata.

Oggi gli ebrei non israeliani si sentono nuovamente esposti alle critiche e vulnerabili agli attacchi per cose che non hanno fatto. Ma questa volta è uno Stato ebraico, non uno Stato cristiano, a tenerli in ostaggio con le sue azioni. Gli ebrei della diaspora non possono influenzare le scelte politiche di Israele, ma vengono implicitamente identificati con esse, anche a causa degli insistenti appelli di Israele alla loro fedeltà. Il comportamento di uno Stato che si autodefinisce ebraico influenza il modo in cui chiunque altro guarda agli ebrei. La crescente incidenza delle aggressioni contro gli ebrei in Europa e altrove è attribuibile innanzitutto ai tentativi mal indirizzati, spesso di giovani musulmani, di vendicarsi di Israele. La deprimente verità è che l’attuale comportamento di Israele non nuoce soltanto all’America, anche se questo è fuori dubbio. Non nuoce soltanto a Israele stessa, come molti israeliani tacitamente riconoscono. La deprimente verità è che Israele oggi nuoce agli ebrei.

In un mondo in cui le nazioni e i popoli si mescolano a piacimento e i matrimoni misti sono sempre più frequenti, in cui praticamente tutti gli ostacoli culturali e nazionali alla comunicazione sono crollati, in cui un numero crescente di noi sceglie di avere molteplici identità e si sentirebbe artificiosamente limitato se dovesse rispondere a una sola di esse: in un mondo come questo Israele è davvero un anacronismo. E non un semplice anacronismo, ma un anacronismo disfunzionale. Nell’odierno «scontro di culture» tra le democrazie aperte e pluraliste e gli Stati etnici bellicosi e intolleranti, guidati dalla fede religiosa, Israele rischia seriamente di finire dalla parte sbagliata.

Convertire Israele da Stato ebraico a Stato binazionale non sarà facile, anche se non è impossibile come può sembrare: il processo, di fatto, è già cominciato. Ma per la maggior parte degli ebrei e degli arabi provocherà molto meno sconvolgimento di quanto sostengano gli oppositori, religiosi e nazionalisti, di questo progetto. In ogni caso, non conosco nessuno che abbia un’idea migliore: chiunque sia sinceramente convinto che la controversa barriera elettronica in costruzione possa risolvere i problemi si è perso gli ultimi cinquant’anni di storia. La «barriera» – in realtà una zona blindata di fossati, steccati, sensori, strade sterrate (per seguire le orme dei piedi) e un muro alto otto metri e mezzo in certi tratti – occupa, divide e sottrae terre coltivabili agli arabi; distruggerà villaggi, mezzi di sostentamento e quanto rimane della comunità arabo-ebraica. Costa più di mezzo milione di dollari a chilometro e non porterà altro che umiliazioni e disagi per entrambe le parti. Come il Muro di Berlino, è la conferma del fallimento morale e istituzionale del regime che intende proteggere.

Uno Stato binazionale in Medio Oriente richiederà una leadership americana coraggiosa e un impegno incessante. La sicurezza degli ebrei e degli arabi dovrà essere garantita da una forza internazionale – anche se per uno Stato binazionale legittimamente costituito sarà molto più facile tenere sotto controllo militanti di ogni tipo all’interno dei suoi confini, rispetto a quando questi sono liberi di infiltrarsi dall’esterno e possono fare appello a un gruppo arrabbiato ed escluso da entrambi i lati del confine5. Perché possa realizzarsi uno Stato binazionale in Medio Oriente, dovrà affermarsi, sia fra gli ebrei sia fra gli arabi, una nuova classe politica. L’idea stessa è un misto poco promettente di realismo e utopia, non proprio il punto di partenza ideale. Ma le alternative sono molto, molto peggiori.

 

* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nell’ottobre del 2003 sulla «New York Review of Books». [La traduttrice ringrazia Fabio Galimberti per il generoso contributo.]

1 Si veda l’articolo di Burg, La révolution sioniste est morte, «Le Monde», 11 settembre 2003. Ex capo dell’Agenzia ebraica, Burg è stato il portavoce della Knesset, il parlamento israeliano, tra il 1999 e il 2003 ed è attualmente deputato del Partito laburista. Il suo saggio è stato pubblicato per la prima volta sul quotidiano israeliano «Yediot Aharonot»; è stato ripubblicato da molti altri giornali, in particolare da «Forward» (29 agosto 2003) e dal londinese «The Guardian» (15 settembre 2003).

2 Si veda l’intervista al vicesegretario della Difesa Paul Wolfowitz nel numero di luglio 2003 di «Vanity Fair».

3 Nel 1979, in seguito all’accordo di pace con Anwar Sadat, il primo ministro Begin e il ministro della Difesa Sharon in effetti ordinarono all’esercito di chiudere gli insediamenti ebraici nel territorio appartenente all’Egitto. La rabbiosa resistenza di alcuni coloni fu vinta con la forza, anche se nessuno fu ucciso. Ma allora l’esercito doveva fronteggiare tremila estremisti, non duecentocinquantamila, e il territorio in questione era il deserto del Sinai, non «la Samaria e la Giudea bibliche».

4 Gli albanesi in Italia, gli arabi e i neri africani in Francia, gli asiatici in Inghilterra continuano tutti a incontrare ostilità. Una minoranza di elettori in Francia, o in Belgio, o addirittura in Danimarca e in Norvegia, sostiene partiti politici il cui programma a volte consiste unicamente nell’ostilità nei confronti dell’«immigrazione». Ma rispetto a trent’anni fa, l’Europa è un mosaico colorato di cittadini con eguali diritti e questo, senza dubbio, sarà il suo aspetto futuro.

5 Come osserva Burg, l’attuale politica israeliana è il migliore strumento di reclutamento per i terroristi: «Siamo indifferenti al destino dei bambini palestinesi, affamati e umiliati; perciò perché ci sorprendiamo quando si fanno saltare in aria nei nostri ristoranti? Anche se uccidessimo mille terroristi al giorno, niente cambierebbe». Si veda Burg, La révolution sioniste est morte, cit.