Capitolo 9
Il «problema del male»
nell’Europa del dopoguerra*

Il primo libro di Hannah Arendt che ho letto, a sedici anni, è Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil [La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme]. Per me è tuttora il testo che meglio la rappresenta. Non è il suo libro più filosofico. Non è sempre corretto, e decisamente non è il suo scritto più amato. Il libro non piacque neanche a me quando lo lessi per la prima volta: ero un giovane socialista sionista entusiasta e le conclusioni di Arendt mi turbavano profondamente. Ma negli anni successivi ho finito per capire che Eichmann in Jerusalem rappresenta Hannah Arendt nella sua forma migliore: affronta in maniera diretta un argomento doloroso, dissente dall’opinione ufficiale, provoca discussioni non solo tra i suoi critici, ma anche e specialmente tra i suoi amici e, soprattutto, disturba il quieto vivere dei benpensanti. È in memoria di Hannah Arendt, la «disturbatrice della quiete», che voglio proporre alcune riflessioni su un argomento che, più di qualunque altro, è stato al centro dei suoi scritti politici.

Nel 1945, in uno dei suoi primi saggi successivi alla fine della guerra in Europa, Hannah Arendt scriveva che «il problema del male sarà la questione fondamentale della vita intellettuale europea nel dopoguerra, come la morte divenne il problema fondamentale dopo la prima guerra mondiale»1. Per un verso, aveva assolutamente ragione. Dopo la prima guerra mondiale, gli europei erano traumatizzati dal ricordo della morte: soprattutto, la morte sul campo di battaglia, con un numero di caduti fino ad allora inimmaginabile. La poesia, la narrativa, il cinema e l’arte dell’Europa interbellica erano intrise di immagini di violenza e di morte, di solito critiche ma a volte nostalgiche (come negli scritti di Ernst Jünger o di Pierre Drieu La Rochelle). E naturalmente la violenza armata del primo conflitto mondiale penetrava nella vita civile del dopoguerra in varie forme: squadre paramilitari, omicidi politici, colpi di Stato, guerre civili e rivoluzioni.

Dopo la seconda guerra mondiale, invece, il culto della violenza perlopiù sparì dalla vita europea. Durante questo conflitto, le violenze non erano state perpetrate soltanto contro i soldati, ma soprattutto contro la popolazione civile (una buona parte delle vittime della seconda guerra mondiale non è caduta sul campo di battaglia, ma a causa dell’occupazione, della pulizia etnica e del genocidio). La situazione di assoluta prostrazione in cui versavano tutte le nazioni europee – sia vittoriose sia sconfitte – lasciava poco spazio alle illusioni riguardo alla gloria del combattimento o all’onore della morte. Quel che rimaneva, ovviamente, era una familiarità diffusa con atrocità e crimini di una portata senza precedenti. Come gli esseri umani potessero farsi questo l’un l’altro, e soprattutto come e perché un popolo europeo (i tedeschi) potesse aver deciso di sterminarne un altro (gli ebrei), sarebbero manifestamente diventate, per un’osservatrice attenta come Arendt, le questioni ossessive che il continente avrebbe dovuto affrontare. È questo che intendeva per «il problema del male».

Per un verso, dunque, Arendt aveva senz’altro ragione. Ma, come spesso accade, altri impiegarono più tempo a capire quanto andava affermando. È vero che, all’indomani della sconfitta di Hitler e dei processi di Norimberga, giuristi e legislatori dedicarono molta attenzione alla questione dei «crimini contro l’umanità» e alla definizione di un nuovo reato – il «genocidio» – che fino ad allora non aveva nemmeno avuto un nome. Ma mentre i giudici definivano i crimini mostruosi che erano appena stati commessi in Europa, gli europei facevano di tutto per dimenticarli. E in questo senso, se non altro, Arendt si sbagliava, almeno nei primi tempi.

Negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, lungi dal riflettere sul problema del male, la maggior parte degli europei voltava risolutamente la testa da un’altra parte. Oggi abbiamo difficoltà a capirlo, ma di fatto la Shoah – il tentato genocidio degli ebrei d’Europa – per molti anni non fu in alcun modo la questione fondamentale della vita intellettuale del dopoguerra in Europa (o negli Stati Uniti). Infatti, molte persone – intellettuali e non solo – fecero tutto il possibile per ignorala. Perché?

In Europa orientale i motivi erano quattro. In primo luogo, i peggiori crimini contro gli ebrei durante la guerra erano stati commessi in questa regione e, sebbene fossero stati decisi dai tedeschi, i collaboratori volontari nelle nazioni occupate non mancarono mai: polacchi, ucraini, lettoni, croati e altri. In molte comunità c’era un potente incentivo a dimenticare quanto era accaduto, a stendere un velo di silenzio sugli orrori più raccapriccianti2. In secondo luogo, molti europei dell’Est non ebrei erano stati essi stessi vittime di atrocità (per mano dei tedeschi, dei russi e di altri) e quando ricordavano la guerra in genere non pensavano alle pene patite dai loro vicini ebrei, ma alle proprie perdite e sofferenze.

In terzo luogo, gran parte dell’Europa centrale e orientale nel 1948 era ormai sotto il controllo sovietico. Nella narrazione ufficiale sovietica, il secondo conflitto mondiale era considerato una guerra antifascista o, all’interno dell’Unione sovietica, una «grande guerra patriottica». Per Mosca, Hitler era soprattutto un fascista e un nazionalista, il suo razzismo era molto meno importante. I milioni di ebrei morti provenienti dai territori sovietici furono conteggiati tra le perdite sovietiche, ovviamente, ma il fatto che fossero ebrei veniva minimizzato o persino ignorato, tanto nei libri di storia quanto nelle commemorazioni ufficiali. Infine, dopo alcuni anni di governo comunista, il ricordo dell’occupazione tedesca era stato sostituito da quello dell’oppressione sovietica. Lo sterminio degli ebrei veniva relegato sempre più in secondo piano.

In Europa occidentale, sebbene le circostanze fossero molto diverse, l’amnesia era altrettanto diffusa. L’occupazione del tempo di guerra – in Francia, Belgio, Olanda, Norvegia e, dopo il 1943, in Italia – era stata un’esperienza umiliante e i governi del dopoguerra preferivano dimenticare il collaborazionismo e altri comportamenti indegni, dando invece risalto agli eroici movimenti di resistenza, alle sollevazioni nazionali, alla liberazione e ai martiri. Per molti anni dopo il 1945 persino chi conosceva perfettamente i fatti – come Charles de Gaulle – contribuì intenzionalmente a costruire una mitologia nazionale di eroiche sofferenze e coraggiosa resistenza di massa. Anche nella Germania Ovest postbellica lo stato d’animo della nazione all’inizio era di autocommiserazione per le pene patite dai tedeschi stessi. E con l’inizio della guerra fredda i nemici cambiarono e diventò inopportuno sottolineare i crimini commessi in passato dagli alleati attuali. Perciò nessuno – né i tedeschi, né gli austriaci, né i francesi, gli olandesi, i belgi o gli italiani – voleva ricordare la sofferenza degli ebrei o il male specifico che l’aveva provocata.

Per questo motivo, per citare un esempio famoso, quando nel 1946 Primo Levi propose Se questo è un uomo, le sue memorie sulla prigionia ad Auschwitz, all’importante casa editrice italiana Einaudi, il manoscritto fu rifiutato su due piedi. All’epoca, e per molti anni successivi, erano Bergen-Belsen e Dachau, non Auschwitz, a rappresentare l’orrore del nazismo; l’accento sui deportati politici, invece che su quelli razziali, si adattava meglio ai racconti edificanti del dopoguerra sulla resistenza nazionale. Il libro di Levi fu infine pubblicato da una piccola casa editrice locale, ma in sole duemilacinquecento copie. Quasi nessuno lo acquistò; molte copie rimasero in un magazzino di Firenze e andarono distrutte nella grande alluvione che devastò la città nel 1966.

Posso confermare la mancanza di interesse per la Shoah in quegli anni anche in base alla mia esperienza personale, essendo cresciuto in Inghilterra, un paese uscito vittorioso dalla guerra, che non era mai stato occupato e non aveva quindi alcun complesso riguardo ai crimini di guerra. Eppure anche lì l’argomento non era molto discusso, né a scuola né sui mezzi di informazione. Nel 1966, quando cominciai a studiare storia moderna alla Cambridge University, la storia francese (compresa la storia della Francia di Vichy) veniva ancora insegnata quasi senza accennare agli ebrei o all’antisemitismo. Nessuno scriveva sull’argomento. Certo, studiavamo l’occupazione nazista della Francia, i collaborazionisti di Vichy e il fascismo francese. Ma niente di ciò che leggevamo, in inglese o in francese, affrontava il problema del ruolo della Francia nella soluzione finale.

E anche se sono ebreo e alcuni membri della mia famiglia sono stati uccisi nei campi di sterminio, allora non pensavo fosse strano che non si parlasse dell’argomento. Il silenzio sembrava piuttosto normale. Come si spiega, a posteriori, questa disponibilità ad accettare l’inaccettabile? Perché l’anormalità finisce per sembrare normale, al punto che nemmeno la notiamo? Probabilmente per la ragione, desolante nella sua semplicità, indicata da Tolstoj in Anna Karenina: «Non ci sono condizioni alle quali l’uomo non possa assuefarsi, specialmente se vede che tutti coloro che lo circondano vivono nello stesso modo».

Tutto cominciò a cambiare dopo gli anni Sessanta, per svariati motivi: il passare del tempo, la curiosità di una nuova generazione e, forse, anche un allentamento delle tensioni internazionali3. La Germania Ovest, soprattutto, sulla quale gravava la responsabilità primaria degli orrori della guerra di Hitler, nell’arco di una generazione fu trasformata in una nazione pienamente consapevole dell’enormità dei suoi crimini e della portata della sua responsabilità. Negli anni Ottanta la storia dell’annientamento degli ebrei d’Europa cominciava a essere un tema sempre più abituale nei libri, nei film e nei programmi televisivi. A partire dagli anni Novanta e dalla fine della divisione dell’Europa, le presentazioni di scuse ufficiali, i luoghi della memoria nazionali, i memoriali e i musei sono diventati cose normali; persino nell’Europa orientale post-comunista la sofferenza degli ebrei ha cominciato a trovare posto nella memoria ufficiale.

Oggi la Shoah è un punto di riferimento universale. La storia della soluzione finale, o del nazismo, o della seconda guerra mondiale è ovunque una materia obbligatoria nei programmi di studio dei licei. In effetti, in alcune scuole negli Stati Uniti e persino in Gran Bretagna può essere l’unico argomento di storia europea moderna studiata da un alunno durante l’intera carriera scolastica. Ora sono disponibili innumerevoli documenti, rivisitazioni e studi sullo sterminio degli ebrei d’Europa in tempo di guerra: monografie locali, saggi filosofici, indagini sociologiche e psicologiche, memorie, romanzi, film, raccolte di interviste e molto altro. La profezia di Hannah Arendt sembrerebbe essersi avverata: la storia del problema del male è diventata un tema fondamentale della vita intellettuale europea.

Adesso dunque è tutto a posto? Ora che abbiamo guardato nel cupo passato, lo abbiamo chiamato con il suo nome e abbiamo giurato che non dovrà mai più ripetersi? Non ne sono tanto sicuro. Permettetemi di indicare cinque difficoltà che emergono dalla nostra ossessione contemporanea per la Shoah, per ciò che oggi ogni scolaro chiama «Olocausto». La prima riguarda il dilemma dei ricordi incompatibili. In Europa occidentale la memoria della soluzione finale è ora oggetto di un’attenzione universale (anche se, per motivi comprensibili, è meno sviluppata in Spagna e Portogallo). Ma le nazioni «orientali» che hanno aderito all’«Europa» dopo il 1989 conservano ricordi molto diversi della seconda guerra mondiale e delle lezioni che ha impartito, per i motivi cui accennavo.

Con la scomparsa dell’Unione sovietica e la conseguente libertà di studiare e discutere i crimini e i fallimenti del comunismo, è stata infatti prestata maggiore attenzione ai travagli della metà orientale dell’Europa, per mano tanto dei tedeschi quanto dei sovietici. In questo contesto, il risalto che gli europei occidentali e gli americani danno ad Auschwitz e alle vittime ebree a volte provoca una reazione stizzita. In Polonia e in Romania, per esempio, mi è stato chiesto – da ascoltatori istruiti e cosmopoliti – perché gli intellettuali occidentali sono particolarmente sensibili allo sterminio degli ebrei. E i milioni di non ebrei vittime del nazismo e dello stalinismo? Perché la Shoah è così particolare? C’è una risposta a questa domanda, ma non è scontata per chiunque si trovi a Est della linea Oder-Neiße. A noi che viviamo negli Stati Uniti o in Europa occidentale può anche non piacere, ma dobbiamo tenerlo presente. Su queste vicende l’Europa è tutt’altro che unita.

La seconda difficoltà riguarda l’accuratezza storica e i rischi della sovracompensazione. Per molti anni gli europei occidentali hanno preferito non pensare alle sofferenze degli ebrei durante la guerra. Ora siamo incoraggiati a pensare continuamente a tali sofferenze. Nei primi decenni successivi al 1945 le camere a gas rimasero confinate ai margini della nostra conoscenza della guerra di Hitler. Oggi stanno esattamente al centro: per gli studenti di oggi, la seconda guerra mondiale riguarda l’Olocausto. In termini morali, è così che deve essere: «Auschwitz» è la questione etica fondamentale della seconda guerra mondiale. Ma per gli storici è fuorviante. Perché la triste verità è che, nel corso della seconda guerra mondiale, molte persone non erano a conoscenza del destino degli ebrei e quelle che lo erano non se ne curarono granché. C’erano soltanto due gruppi per i quali la seconda guerra mondiale era soprattutto un progetto diretto a sterminare gli ebrei: i nazisti e gli ebrei stessi. Praticamente per chiunque altro la guerra aveva significati molto diversi: ognuno aveva le proprie preoccupazioni.

Perciò, se insegniamo la storia della seconda guerra mondiale soprattutto – e a volte unicamente – attraverso il prisma dell’Olocausto, rischiamo di non insegnare sempre una buona storia. È difficile ammettere che l’Olocausto rivesta un ruolo più importante nella nostra vita di quello che ebbe nell’esperienza dei territori occupati in tempo di guerra. Ma se vogliamo capire la reale portata del male – ciò che Hannah Arendt intendeva definendolo «banale» –, dobbiamo ricordarci che l’aspetto davvero spaventoso dell’eliminazione degli ebrei non è che avesse grande importanza, ma che ne avesse così poca.

Il mio terzo problema riguarda la nozione stessa di «male». La società laica moderna è da tempo a disagio con l’idea del «male». Preferiamo le definizioni più razionali e giuridiche di bene e male, giusto e sbagliato, crimine e punizione. Negli ultimi anni però il termine è tornato pian piano a insinuarsi nel discorso morale e persino politico4. Tuttavia, ora che il concetto di «male» è riapparso nel nostro linguaggio pubblico, non sappiamo cosa farne. Siamo confusi.

Da un lato, lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti è presentato come un crimine di natura singolare, un male che non trova eguali né prima né dopo, un esempio e un monito: «Nie Wieder! Mai più!». Dall’altro lato, invece, quello stesso male («unico») oggi è invocato per molti scopi diversi e ben lontani dall’essere unici. Negli ultimi anni i politici, gli storici e i giornalisti hanno usato il termine «male» per descrivere stragi e genocidi in ogni dove: dalla Cambogia al Ruanda, dalla Turchia alla Serbia, dalla Bosnia alla Cecenia, dal Congo al Sudan. Hitler stesso è evocato di frequente per connotare la natura e le intenzioni «malvagie» dei moderni dittatori: sentiamo dire che ci sono «Hitler» ovunque, dalla Corea del Nord all’Iraq, dalla Siria all’Iran. E tutti abbiamo familiarità con l’«asse del male» del presidente George W. Bush, un abuso opportunistico del termine che ha contribuito in larga misura al cinismo che suscita oggi.

Inoltre, se Hitler, Auschwitz e il genocidio degli ebrei incarnano un male di carattere unico, perché ci sentiamo dire continuamente che cose del genere potrebbero succedere ovunque, o che stanno per verificarsi di nuovo? Ogni volta che qualcuno imbratta il muro di una sinagoga in Francia con graffiti antisemiti, ci sentiamo dire che «il male unico» è di nuovo fra noi, che siamo ritornati al 1938. Stiamo perdendo la capacità di distinguere le comuni debolezze e follie dell’essere umano – la stupidità, il pregiudizio, l’opportunismo, la demagogia e il fanatismo – dal vero male. Abbiamo perso di vista che cosa, nel credo politico di estrema sinistra e di estrema destra del ventesimo secolo, fosse tanto seducente, tanto normale, tanto moderno e quindi veramente diabolico. In fondo, se vediamo il male ovunque, come possiamo riuscire a riconoscere quello vero? Sessant’anni fa Hannah Arendt temeva che non avremmo saputo come parlare del male e di conseguenza non ne avremmo mai capito il senso. Oggi parliamo continuamente del «male», ma con il medesimo risultato: ne abbiamo annacquato il significato.

La mia quarta preoccupazione riguarda il rischio che corriamo quando investiamo tutte le nostre energie emotive e morali in un solo problema, per quanto grave. I costi di questa forma di miopia oggi sono in tragica mostra nell’ossessione di Washington per i mali del terrorismo, nella sua «guerra globale al terrore». La questione non è se il terrorismo esista: è evidente che esiste. Né si tratta di stabilire se il terrorismo e i terroristi debbano essere combattuti: certo che bisogna combatterli. La questione è quali altri mali trascureremo – o creeremo – concentrandoci esclusivamente su un singolo nemico e usandolo per giustificare centinaia di nostri crimini minori.

Lo stesso ragionamento vale per il morboso interesse contemporaneo per il problema dell’antisemitismo e l’insistenza sulla sua singolare importanza. L’antisemitismo, come il terrorismo, è un problema di vecchia data. E ciò che vale per il terrorismo, vale anche per l’antisemitismo: basta un piccolo incidente a rammentarci le conseguenze comportate in passato dal non averlo preso abbastanza sul serio. Ma l’antisemitismo, come il terrorismo, non è l’unico male nel mondo e non deve essere un pretesto per ignorare altri crimini e altre sofferenze. Il pericolo insito nell’astrarre il «terrorismo» o l’antisemitismo dai rispettivi contesti – metterli su un piedestallo come se fossero la più grande minaccia per la civiltà occidentale, o la democrazia, o il «nostro stile di vita» e prenderne di mira gli esponenti in una guerra senza fine – è che trascuriamo le numerose altre sfide della nostra epoca.

Anche su questo Hannah Arendt aveva qualcosa da dire. Avendo scritto il libro più influente sul totalitarismo, era ben consapevole della minaccia che costituiva per le società aperte. Ma nell’era della guerra fredda, il «totalitarismo», come oggi il terrorismo o l’antisemitismo, rischiava di diventare un tema ossessivo per i pensatori e i politici in Occidente, a scapito di tutto il resto. E, contro questo rischio, Arendt lanciò un monito che non ha perso attualità:

Il pericolo maggiore insito nell’identificazione del totalitarismo come la maledizione del secolo consiste proprio nel farsene ossessionare al punto da diventare ciechi di fronte ai numerosi mali minori, e non così minori, di cui è lastricata la strada per l’inferno5.

La mia ultima preoccupazione riguarda il rapporto tra la memoria dell’Olocausto europeo e lo Stato di Israele. Sin dalla sua nascita nel 1948, lo Stato di Israele ha intrattenuto una relazione difficile e complessa con la Shoah. Da un lato, lo sterminio quasi completo degli ebrei d’Europa sintetizzava gli argomenti a favore del sionismo. Gli ebrei non potevano sopravvivere e prosperare in territori non ebraici, la loro integrazione e assimilazione nelle nazioni e nelle culture europee era una tragica illusione e pertanto dovevano avere un proprio Stato. Dall’altro lato, il parere diffuso in Israele che gli ebrei d’Europa avessero contribuito a determinare la propria rovina, che, come è stato detto, fossero andati «al macello come agnelli», fece sì che l’identità iniziale di Israele fosse costruita sul rifiuto del passato ebraico, trattando la catastrofe che aveva colpito gli ebrei come una prova di debolezza: una debolezza che era destino di Israele superare dando vita a un nuovo tipo di ebreo6.

Negli ultimi anni, tuttavia, il rapporto tra Israele e l’Olocausto è cambiato. Oggi, quando Israele è esposto al biasimo internazionale per il trattamento che riserva ai palestinesi e per l’occupazione dei territori conquistati nel 1967, i suoi difensori preferiscono dare risalto al ricordo dell’Olocausto. Se criticate Israele con troppa veemenza, ammoniscono, sveglierete i demoni dell’antisemitismo. Anzi, lasciano intendere che un atteggiamento troppo critico nei confronti di Israele non si limita a risvegliare l’antisemitismo: è antisemitismo. E con l’antisemitismo si apre la strada che porta – o ritorna – al 1938, alla «notte dei cristalli» e poi a Treblinka e ad Auschwitz. Per sapere dove va a finire, dicono, basta visitare Yad Vashem a Gerusalemme, l’Holocaust Museum a Washington o i siti commemorativi e i musei sparsi per l’Europa.

Comprendo i sentimenti che dettano queste affermazioni, ma le affermazioni in sé sono estremamente pericolose. Quando a me e ad altri viene rimproverato di essere troppo critici nei confronti di Israele, rischiando così di risvegliare lo spettro del pregiudizio, rispondo che il problema va ribaltato. È proprio questo tipo di tabù che può incoraggiare l’antisemitismo. Da qualche anno visito università e scuole superiori negli Stati Uniti e altrove per tenere conferenze sulla storia europea del dopoguerra e la memoria della Shoah. Sono le materie che insegno anche all’università. E posso esporre le conclusioni che ne ho tratto.

Oggi non c’è bisogno di ricordare agli studenti il genocidio degli ebrei, le conseguenze storiche dell’antisemitismo o il problema del male. Tutti ne sono a conoscenza, a un livello di profondità mai raggiunto dai loro genitori. E così deve essere. Ma ultimamente mi ha colpito la frequenza con cui vengono poste nuove domande: «perché ci concentriamo tanto sull’Olocausto?», «perché (in certi paesi) è illegale negare l’Olocausto ma non altri genocidi?», «la minaccia dell’antisemitismo non è un po’ esagerata?». E ancora, sempre più spesso: «Non è che Israele sta usando l’Olocausto come scusa?». Non ricordo di avere mai sentito queste domande in passato.

Il mio timore è che siano successe due cose: sottolineando l’eccezionalità storica dell’Olocausto e continuando al tempo stesso a invocarlo in riferimento alle vicende contemporanee, abbiamo confuso i giovani; e gridando all’«antisemitismo» ogni volta che qualcuno attacca Israele o difende i palestinesi, alleviamo una generazione di cinici. Perché la verità è che oggi l’esistenza di Israele non è in pericolo. E oggi, qui in Occidente, gli ebrei non sono esposti a minacce o pregiudizi anche solo lontanamente paragonabili a quelli del passato, né paragonabili ai pregiudizi attualmente nutriti nei confronti di altre minoranze.

Facciamo un piccolo esercizio: oggi vi sentireste al sicuro, accettati e benvenuti negli Stati Uniti, se foste un musulmano o un «immigrato clandestino»? E se foste un paki in certe zone dell’Inghilterra? O un marocchino in Olanda? Un beur in Francia? Un nero in Svizzera? Uno «straniero» in Danimarca? Un rumeno in Italia? Uno zingaro ovunque in Europa? O vi sentireste più al sicuro, più integrati, più accettati se foste ebrei? Penso che conosciamo tutti la risposta. In molti di questi paesi – Olanda, Francia, Stati Uniti, per non parlare della Germania – la minoranza ebraica locale è rappresentata e occupa posti di rilievo nel mondo degli affari, dei media e delle arti. In nessuno di questi paesi gli ebrei sono stigmatizzati, minacciati o emarginati.

Se esiste un pericolo per cui gli ebrei (e non solo) dovrebbero preoccuparsi, viene da un’altra direzione. Abbiamo ancorato la memoria dell’Olocausto così saldamente alla difesa di un singolo paese – Israele – da rischiare di circoscrivere il suo significato morale. È vero, il problema del male, per citare di nuovo Hannah Arendt, nel secolo scorso ha assunto la forma di un tentativo tedesco di sterminare gli ebrei. Ma non si tratta soltanto dei tedeschi e non si tratta soltanto degli ebrei. Non si tratta nemmeno soltanto dell’Europa, anche se è successo lì. Il problema del male – del male totalitario, del male del genocidio – è un problema universale. Ma se viene manipolato in favore di interessi locali, ciò che accadrà (ciò che credo stia già accadendo) è che le persone in contesti distanti dal ricordo del crimine consumato in Europa – perché non sono europee, o perché sono troppo giovani per ricordare il motivo per cui è importante – non capiranno perché quel ricordo le riguardi e smetteranno di ascoltare quando cercheremo di spiegarglielo.

In poche parole, l’Olocausto potrebbe perdere il suo potere evocativo universale. Dobbiamo sperare che ciò non avvenga e dobbiamo trovare il modo per mantenere intatta la lezione fondamentale che la Shoah può davvero insegnare: la facilità con cui le persone – un intero popolo – possono essere diffamate, disumanizzate e annientate. Ma a nulla approderemo se non riconosciamo che questa lezione potrebbe veramente essere messa in dubbio o dimenticata; il problema delle lezioni è che, come il Gatto del Cheshire, tendono a sbiadire di giorno in giorno. Se non mi credete, allontanatevi dall’Occidente avanzato e provate a chiedere qual è la lezione di Auschwitz. Le risposte non saranno molto rassicuranti.

Non c’è una soluzione semplice per questo problema. Ciò che oggi pare ovvio agli europei occidentali è ancora oscuro per molti europei dell’Est, proprio come lo era per gli europei dell’Ovest quarant’anni fa. Il monito morale di Auschwitz, proiettato a caratteri cubitali sullo schermo della memoria europea, è quasi invisibile per gli asiatici o gli africani. E, forse soprattutto, ciò che sembra lampante alle persone della mia generazione avrà sempre meno senso per i nostri figli e i nostri nipoti. Possiamo preservare un passato europeo che da memoria sta sfumando in storia? Non siamo condannati a perderlo, anche solo in parte?

Forse tutti i nostri musei, i nostri siti commemorativi e le nostre gite scolastiche obbligatorie non sono segno che oggi siamo pronti a ricordare, ma indicano che riteniamo di avere scontato le nostre colpe e di poter cominciare a lasciare andare il passato e dimenticare, affidando alle pietre il compito di ricordare al posto nostro. Non so: l’ultima volta che sono stato a Berlino e ho visitato il Monumento alla memoria degli ebrei d’Europa assassinati, ragazzini annoiati in gita scolastica giocavano a nascondino tra le steli. Quello che so per certo è che, se la storia deve svolgere correttamente il ruolo che le spetta e conservare per sempre prova dei crimini del passato e di ogni altro evento, è meglio non scomodarla. Quando saccheggiamo il passato per profitto politico, scegliendo i pezzi che possono fare al caso nostro e reclutando la storia per impartire opportunistiche lezioni morali, ne ricaviamo cattiva morale e anche cattiva storia.

Nel frattempo, forse dovremmo tutti fare attenzione quando parliamo del problema del male. Perché non c’è un solo tipo di banalità. C’è la banalità tristemente nota della quale parlava Hannah Arendt: il male inquietante, normale, familiare, quotidiano negli esseri umani. Ma c’è anche un’altra banalità, quella dell’abuso: l’effetto di appiattimento e di desensibilizzazione che si produce quando si vede, si dice o si pensa la stessa cosa troppe volte, fino a stordire chi ci ascolta e a renderlo immune dal male che descriviamo. Questa è la banalità – o la «banalizzazione» – con cui ci confrontiamo oggi.

Dopo il 1945 la generazione dei nostri genitori accantonò il problema del male perché, per loro, conteneva troppo significato. La generazione che verrà dopo di noi rischia di accantonare il problema perché ora ne contiene troppo poco. Come possiamo impedire che ciò avvenga? Come, in altre parole, possiamo fare in modo che il problema del male resti la questione fondamentale della vita intellettuale, e non solo in Europa? Non conosco la risposta, ma sono sicuro che sia la domanda giusta. È la domanda che Hannah Arendt poneva sessant’anni fa, e sono certo che la porrebbe ancora oggi.

 

* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel febbraio del 2008 sulla «New York Review of Books». È un adattamento della conferenza tenuta da Tony Judt il 30 novembre 2007 a Brema, in Germania, in occasione del ricevimento del premio Hannah Arendt 2007.

1 Nightmare and Flight, «Partisan Review», vol. 12, n. 2 (1945), ristampato in Essays in Understanding, 1930-1954, a cura di Jerome Kohn, Harcourt Brace, New York 1994, pp. 133-135 [trad. it. di Paolo Costa, Incubo e fuga, in Archivio Arendt, vol. 1, 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 168-170].

2 Per un esempio straziante, si veda Jan Gross, Neighbors: The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2001 [trad. it. di Luca Vanni, I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002].

3 Per un’analisi più approfondita di questo mutamento dello stato d’animo, si veda l’epilogo (From the House of the Dead) del mio Postwar: A History of Europe Since 1945, Penguin, New York 2005 [trad. it. di Aldo Piccato, Postwar. La nostra storia 1945-2005, Laterza, Bari-Roma 2017, Dalla casa dei morti].

4 I pensatori cattolici di sicuro non sono stati altrettanto restii ad affrontare il dilemma del male: si vedano, per esempio, i saggi di Leszek Kołakowski The Devil in History e Leibniz and Job. The Metaphysics of Evil and the Experience of Evil, entrambi ripubblicati di recente assieme ad altri saggi di Kołakowski in My Correct Views on Everything, St. Augustine’s Press, South Bend (IN) 2005, recensito sulla «New York Review of Books» del 21 settembre 2006. Ma nello scontro metafisico memorabilmente descritto da Thomas Mann, noi moderni in genere abbiamo preferito Settembrini a Naphta.

5 Essays in Understanding, cit., pp. 271-272 [trad. it. di Paolo Costa, Archivio Arendt, vol. 2, 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003, p. 45].

6 Si veda Idith Zertal, Israel’s Holocaust and the Politics of Nationhood, tradotto in inglese da Chaya Galai, Cambridge University Press, New York 2005 [trad. it. di Piero Arlorio, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2000], in particolare il capitolo 1, The Sacrificed and the Sanctified [I sacrificati e i santificati].