Capitolo
25
Generazioni in bilico*
con Daniel Judt
Daniel Se avessi avuto diciotto anni nel novembre del 2008, avrei votato per Barack Obama. Siccome ne avevo quattordici, mi sono dovuto accontentare di dichiarare il mio sostegno per lui e di esprimere la mia gioia quando è stato eletto. Credevo, ingenuamente, che la sua amministrazione avrebbe puntato i piedi, ponendo fine alla crisi ambientale che i suoi predecessori avevano lasciano incancrenire indisturbata. Pensavo che il signor Obama sapesse come fare la cosa eticamente giusta, anche se significava andare contro la «cosa giusta» dal punto di vista politico.
In meno di due anni, sono diventato estremamente pessimista riguardo alla fermezza morale del nostro governo e delle nostre corporation. L’incidente della Deepwater Horizon1 ha segnato il punto di svolta. Ero già scettico: l’aumento delle trivellazioni offshore, l’atteggiamento passivo del nostro governo a Copenaghen e l’assenza di una normativa ambientale erano bastati.
Ma la British Petroleum mi ha fatto capire che la generazione al potere semplicemente non ci arriva. Vede la crisi ambientale nello stesso modo in cui vede le sconfitte politiche e le disgrazie economiche. La politica passa la mano e le economie raddoppiano, ma non l’ambiente. È quella sensazione di «ce ne occuperemo non appena avremo sistemato tutto il resto» che mi fa immensamente arrabbiare. Il mondo non è una risorsa sacrificabile; riparare i danni che avete provocato sarà il problema della mia generazione. È molto semplice.
Tony Be’, io ho sessantadue anni e in effetti ho votato per Barack Obama. Non avevo grandi speranze. Era chiaro sin dall’inizio che si trattava di un uomo incline a concedere più che a lottare; e questo in un politico, se non in un uomo, è un difetto. Ne abbiamo viste le conseguenze: né in Medio Oriente, né nella regolamentazione economica, né riguardo ai detenuti o alla riforma dell’immigrazione il signor Obama ha fatto seguire alle parole i fatti. L’audacia della speranza?
Quanto alle corporation, noi baby boomer avevamo ragione a essere cinici. Come Goldman Sachs, le compagnie petrolifere non sono agenti economici benevoli, che soddisfano un bisogno e si prendono la loro parte. Sono, come disse Theodore Roosevelt, «malfattori di grande ricchezza». Ma il cinismo ha fatto sfumare la nostra risposta in un comportamento davvero criminale: «Tanto è sempre la stessa storia». Ma una cosa è guardare Goldman Sachs mettere a sacco l’economia, tutt’altra essere invitati a farsi da parte mentre la Bp profana la costa del Golfo. Sì, dovremmo essere decisamente più arrabbiati.
Guardiamo al futuro, ma non funziona. Quella porcheria che continua ad affiorare ci ricorda che abbiamo rinunciato alla nostra indipendenza in favore di una tecnologia che non sappiamo padroneggiare. Le nostre energie sono mal indirizzate verso costose guerre all’estero i cui scopi diventano ogni giorno più oscuri. Ci scagliamo l’uno contro l’altro in «scontri di civiltà» irrilevanti per i nostri problemi reali.
Nel mentre, i meccanismi della nostra costituzione tradizionale, precisi come un orologio, si sono inceppati, dato che dipendono da un consenso che non esiste più. In una prospettiva di lungo periodo, questo è il modo in cui muoiono le repubbliche. È chiaro che «qualcuno» deve fare «qualcosa». Cosa proponi?
Daniel Dato che siete troppo indulgenti nei riguardi del comportamento inaccettabile delle corporation, forse siete anche troppo rassegnati sul fronte politico. Per produrre un vero cambiamento, bisogna essere convinti che un vero cambiamento sia possibile. È così che la vede la mia generazione; perciò tanti giovani hanno sostenuto Obama. Forse più di qualsiasi altra categoria di elettori negli Stati Uniti, credevamo che la partecipazione attiva avrebbe smosso le cose. Ma più ci sentiamo dire che le crisi bisogna aspettarsele e che chi è al potere non è in grado di impedirle – che dobbiamo riporre fiducia in Dio, come ha raccomandato il presidente martedì – più la nostra fiducia nel governo si incrina.
I politici dipendono dal pubblico: quando il consenso è abbastanza ampio, agiscono. È quello che avrei voluto vedervi fare, ed è quello che dobbiamo fare adesso: creare consenso e agire. La tua generazione parlava tanto di impegno. E allora impegnatevi. Fate leva sull’opinione pubblica per esigere l’adozione di una normativa severa in materia di protezione dell’ambiente.
Se, dopo l’incidente della Bp, ci rassegniamo a «tornare alla normalità», avremo perso un’occasione di importanza vitale. Abbiamo bisogno di una nuova «normalità». E dobbiamo porci nuove domande: non se possiamo permetterci di investire in uno stile di vita diverso (energia solare, trasporti pubblici, graduale riduzione della dipendenza dal petrolio), ma per quanto tempo possiamo permetterci di non farlo. Ce lo dovete.
Tony Sono un po’ stanco di tutti questi discorsi generazionali. In fondo, ho la stessa età di Bill Clinton e di George W. Bush, ma non mi prendo la responsabilità di quello che fanno. In realtà, anche se sono d’accordo sulla necessità di creare consenso a livello nazionale, non penso che il problema sia convincere gli americani dei pericoli comportati dall’inquinamento, o dai cambiamenti climatici. E nemmeno si tratta semplicemente di persuaderli a fare sacrifici in vista del futuro. La difficoltà è riuscire di nuovo a convincerli di quanto potrebbero fare se unissero le forze.
Ma questo richiede capacità di governo – e non posso fare a meno di notare che tu tendi a scagionare il presidente. Dopo tutto, se tu e i tuoi coetanei avete perso fiducia nell’uomo e nel «sistema», è anche colpa sua. Ma pure voi avete delle responsabilità.
Non basta serrare i ranghi per eleggere qualcuno, se poi tornate a twittare e a spedirvi sms. Dovete restare uniti, sapere cosa volete e lottare per ottenerlo. Non funzionerà al primo tentativo, e non funzionerà mai alla perfezione, ma non potete arrendervi. Anche questa è politica.
Sbagli a pensare che io abbia perso fiducia nel governo. Grandi governi hanno costruito questo paese. Senza di loro non ci sarebbe una rete ferroviaria transcontinentale. Le università land-grant – il fiore all’occhiello del sistema di istruzione pubblica americano – sono frutto dei Morrill Acts del 1862 e del 1890. La nazione investiva fondi considerevoli per il bene pubblico: ti ricordo il piano Marshall, il GI Bill per i veterani della seconda guerra mondiale, le strade interstatali, senza le quali la nostra economia del dopoguerra non avrebbe potuto fiorire come è invece successo. E non dimenticare la legge sui diritti civili: una rivoluzione morale enormemente dibattuta che richiese grande coraggio politico.
Non ho perso fiducia nel governo, quel che mi preoccupa è se i politici di oggi siano all’altezza della situazione.
Daniel Hai ragione: un po’ scagiono il presidente. Ma il fatto che tanti giovani abbiano contribuito all’elezione di un governo dopo anni di scetticismo non è cosa da poco. Ha risvegliato l’entusiasmo politico in chi fra noi conosceva soltanto la vergogna per la precedente amministrazione, e ha fatto quasi tutto da solo. Senza quel moto di speranza e quella sete d’azione è del tutto possibile che la maggior parte dei miei coetanei avrebbe abbandonato la politica con disgusto prima ancora di entrarci. Per quella mobilitazione, dobbiamo ringraziare Obama.
Ovvio che merita delle critiche. Ma ciò che non dobbiamo fare – come generazione e come nazione – è lasciare che la nostra disillusione si trasformi in pessimismo e pigrizia. Quella che abbiamo davanti oggi è una sfida morale alla quale non possiamo sottrarci.
Temevo che il tuo scetticismo ti avesse fatto perdere fiducia e ti fossi arreso; devi ammettere che il radicalismo della tua generazione non è mai stato davvero all’altezza delle sue potenzialità. Dici sempre che la politica è l’«arte del possibile»: ma se riuscissimo a trasformare la nostra rabbia in azione concreta, di sicuro il possibile diventerebbe di gran lunga più probabile. È saggio lasciarsi guidare dalla rabbia? Non si può negare che, se usata per i motivi sbagliati o presa per il verso sbagliato, può essere disastrosa. Ma è sempre meglio che stare a guardare e lamentarsi, mentre ci portano sull’orlo del precipizio, o no?
Tony Sì, fare sacrifici oggi per ottenere benefici duraturi, smettere di perseguire la crescita economica trimestrale quale obiettivo supremo della politica pubblica, non è al di là delle nostre possibilità. Ci proponiamo scelte facili – imposte elevate o libero mercato – e poi proviamo stupore quando ci accorgiamo che non rispondono ai nostri bisogni. Le soluzioni tecnologiche sono l’hybris della nostra epoca. Ma come i signori della Bp hanno utilmente dimostrato, c’è un limite ai tappi che si possono mettere su un buco: a volte bisogna ricominciare da capo.
La sfida va oltre le macchie di petrolio e il disgusto morale. In una prospettiva più ampia, le grandi compagnie petrolifere non hanno un futuro a lungo termine: prima o poi i piccoli, spregevoli sceiccati nati sopra un pozzo di avidità liquida risprofonderanno nel deserto. Ma perché la Bp e gli emiri dovrebbero orchestrare la fase finale? Niente di ciò che è fatto dall’uomo è inevitabile: il capitalismo cinese – profitto senza regole accompagnato da sistematiche catastrofi ambientali – non è l’unico futuro possibile.
Martedì il presidente parlava di esercitare pressioni affinché il Congresso adotti una legge. Per il momento però ciò significa poco più di un sistema di «limitazione e scambio»: un gioco delle tre carte in favore delle grandi aziende che è stato sperimentato in Europa e si è già dimostrato inadeguato.
Quello di cui abbiamo bisogno è un piano Marshall per gli Stati Uniti. Dovrebbero essere messi a disposizione fondi federali, creati apportando tagli alla spesa per la difesa e, sì, anche attraverso la tassazione (un prestito concesso ai nostri successori), a condizione che siano spesi a favore delle infrastrutture pubbliche, dei trasporti collettivi, delle energie rinnovabili e dell’istruzione. Non ci si può accontentare di meno: sarebbe indegno della crisi provocata dallo sversamento di 60.000 barili di petrolio al giorno. Ve la sentite? Se volete cambiare il mondo, sarà meglio che vi prepariate a lottare a lungo. E dovrete fare sacrifici. Ti interessa davvero o sei solo indignato per le immagini allarmanti?
Daniel Non abbiamo altra scelta se non quella di interessarcene davvero. I sacrifici a cui pensi sono nulla rispetto a quelli che saremo costretti a fare se ci limitiamo a guardare e aspettare. E la cosa più importante è che non possiamo concederci il lusso di lottare a lungo.
Vedi, siamo impotenti e lo saremo ancora per un po’. In realtà, siamo nella peggiore posizione possibile: abbiamo l’età per capire meglio di voi che cosa bisogna fare, ma siamo di gran lunga troppo giovani per farlo. La sola cosa che possiamo fare è dirlo.
* Questa conversazione è stata pubblicata per la prima volta nel giugno 2010 sul «New York Times».
1 Il riferimento è alla piattaforma petrolifera al centro del disastro ambientale provocato dallo sversamento di petrolio nel Golfo del Messico il 20 aprile 2010 [N.d.T.].