Capitolo
19
La stella dell’Onu sta tramontando?*
Le Nazioni Unite sono un tema curiosamente controverso. Se accennate all’Onu negli Stati Uniti (soprattutto a Washington), avrete buone probabilità di sentir parlare di «scandalo», «spreco» e «fallimento», dell’immagine in voga di una costosa escrescenza internazionale, terreno fertile per l’indolenza, la sinecura e l’opportunismo, un ostacolo alla promozione e al perseguimento efficiente dell’interesse nazionale americano. In queste cerchie, nel migliore dei casi le Nazioni Unite sono una buona idea finita terribilmente «male».
Altrove, invece, avrete altrettante probabilità che vi venga ricordata la straordinaria sfera d’azione dell’Onu: attraverso le varie agenzie nel settore demografico, ambientale, agricolo, dello sviluppo, dell’istruzione, della medicina, dell’assistenza ai rifugiati e molti altri ancora, le Nazioni Unite affrontano crisi e sfide umanitarie che gran parte della popolazione in Occidente non può nemmeno immaginare. E poi ci sono le operazioni di mantenimento della pace: tra caschi blu, osservatori alle frontiere, istruttori delle forze di polizia, osservatori elettorali, ispettori degli armamenti e tutto il resto, l’Onu raduna una forza internazionale incaricata di ristabilire e mantenere la pace di poco inferiore all’intero contingente militare stanziato in Iraq dagli Stati Uniti. Da questo punto di vista, il mondo sarebbe un posto decisamente peggiore se le Nazioni Unite non esistessero1.
Il fatto che l’Onu sia oggetto di accese controversie forse avrebbe stupito i suoi fondatori, in particolare i numerosi americani presenti fra loro. Nel 1945 c’era grande entusiasmo per il progetto, la cui giustificazione e i cui scopi sembravano ovvi. Le proporzioni stesse della catastrofe che gli Stati nazionali del mondo si erano attirati addosso offrivano motivo di ottimismo: i governi e i popoli di sicuro avrebbero avuto abbastanza buon senso da non permettere che quelle cose si ripetessero. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, con la sua Carta e le sue agenzie, sarebbe stato lo strumento di prevenzione prescelto. Si sarebbe rimediato alle inadeguatezze della Società delle Nazioni e i potenti Stati sovrani avrebbero lavorato insieme attraverso l’Onu, invece di aggirarla o contrastarla.
Sessant’anni dopo, le Nazioni Unite hanno sicuramente dei problemi. Uno di questi è presente sin dall’inizio. Subito dopo il nazismo, mentre i gerarchi sopravvissuti venivano processati a Norimberga, fra l’altro per il crimine di avere «pianificato, preparato, iniziato e condotto una guerra di aggressione», i fondatori delle Nazioni Unite davano risalto al diritto degli Stati sovrani di porsi al sicuro dalle interferenze esterne – comprese, salvo in circostanze davvero eccezionali, le interferenze dell’Onu stessa. L’articolo 2, paragrafo 7, della Carta recita: «Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato».
Ma le Nazioni Unite intendevano essere anche molto più propositive della Società delle Nazioni, aspirando a impedire a governanti e governi di commettere abusi nei confronti dei propri cittadini e di quelli di altri paesi all’interno dei loro confini. Nel corso del tempo hanno generato aspettative molto elevate per quanto riguarda il trattamento riservato alle minoranze e il rispetto dei diritti umani, le cui violazioni possono legittimare un intervento internazionale. Questa evidente contraddizione fra sovranità e internazionalismo continua a essere esacerbata dall’aumento del numero di Stati membri2, molti dei quali violano continuamente i diritti dei cittadini, ma anche dalla crescita del numero di Stati falliti, dove la natura della sovranità stessa diventa incerta.
Ad Haiti, in Somalia, in Bosnia o in Ruanda negli anni Novanta e in Iraq e in Sudan oggi, con chi dovrebbero trattare, in pratica, le Nazioni Unite? Il capoclan locale colpevole di gravi delitti? Il regime sul quale grava la responsabilità primaria della crisi? Nell’era della globalizzazione, con l’ascesa delle aziende multinazionali e di altri soggetti economici che non sono Stati, ma superano di gran lunga molte nazioni in termini di ricchezza e di influenza, e in un contesto in cui i peggiori abusi in molti casi sono commessi da attori non statali, le funzioni fondamentali dello Stato classico si sono disgiunte e non è chiaro chi debba assolverle e come3. Qual è, in questi frangenti, il ruolo delle Nazioni Unite, un’idea e un’istituzione radicate, come il nome suggerisce, nell’era degli Stati nazionali?
Davanti a questi urgenti dilemmi, potremmo supporre che l’elemento dominante nel dibattito sul ruolo dell’organizzazione nel mondo non siano i problemi con cui l’Onu (come ogni burocrazia ipertrofica) si misura e si è sempre misurata per operare con efficienza ed eliminare il clientelismo e la corruzione. Ma sbaglieremmo. Fin da quando Joe McCarthy accusò le Nazioni Unite di veicolare l’influenza comunista, non sono mai mancati commentatori americani più che felici di diffamare l’istituzione. Nella lunga serie di attacchi mossi all’Onu, quello più recente e più virulento è opera di Eric Shawn, un sedicente «giornalista»4.
Shawn, come molti critici implacabili delle Nazioni Unite, fa mostra di voler augurare ogni bene all’organizzazione: «Mi associo alle innumerevoli persone che provano profonda delusione nel vedere un nobile ideale trasformato in bastione dell’arroganza e, troppe volte, dell’inattività». Ma queste inezie concilianti sono subito soppiantate da un’«indagine» affannosa del repertorio di crimini commessi dalle Nazioni Unite. All’Onu «dilaga un’incompetenza disastrosa». «Gli ambasciatori e il personale dell’Onu a Manhattan godono di un tenore di vita lussuoso ed esentasse e di altri privilegi». L’autore presta un’attenzione eccessiva e pruriginosa alle notizie di «caschi blu [...] che stuprano e hanno rapporti sessuali con ragazzine dodicenni» – così sintetizzate sulla sopraccoperta: «gli operatori dell’Onu hanno più volte trasformato i bambini nelle loro prede sessuali» – e usa un tono grondante disprezzo in ogni riferimento a Kofi Annan, il «capobanda del mondo Onu».
Dietro questa tirata – il cui tono e i pregiudizi ai quali dà voce riproducono fedelmente quelli di Fox News, il datore di lavoro del signor Shawn – si cela tuttavia uno scopo preciso. Ciò che Shawn e i suoi colleghi disprezzano delle Nazioni Unite è il fatto che siano state di ostacolo al perseguimento degli obiettivi americani, soprattutto l’invasione dell’Iraq. Che qualsiasi paese o insieme di paesi abbia avuto la temerarietà di dissentire dalla volontà dell’America di muovere guerra esaspera il signor Shawn. Che un membro in particolare del Consiglio di sicurezza – la Francia – abbia posto il veto ai tentativi di Washington di forzare la mano alla comunità internazionale lo rende furibondo: il rifiuto della Francia e di altri paesi di inviare altri centomila militari «per aiutare l’Iraq a raggiungere la piena stabilità» significa «continuare a fare il doppio gioco con il popolo iracheno» ed è l’«esempio più eclatante dell’irrilevanza morale e politica di tutto ciò che l’Onu simboleggia».
Non si tratta soltanto dei francesi, com’è ovvio. Nella versione di Shawn, l’intera struttura delle Nazioni Unite è congegnata per prendere i soldi americani e al contempo sostenere i nemici degli Stati Uniti e danneggiare gli interessi dell’America. I funzionari di alto livello sono visceralmente antiamericani. Gli elementi di prova offerti nel caso dell’inglese Mark Malloch Brown, vice segretario generale delle Nazioni Unite, illustrano perfettamente il metodo dell’autore. Nel 1983 Malloch Brown si candidò al parlamento (senza successo) per il Partito socialdemocratico (Sdp). Vent’anni dopo, nel 2003, il Partito liberaldemocratico britannico – successore dell’ormai defunto Sdp – votò contro la decisione di Tony Blair di inviare militari in Iraq. Come dovevasi dimostrare. E il posto pullula di Malloch Brown con un passato altrettanto infangato:
Non bisognerebbe scusare l’Onu per il ruolo svolto nella guerra solo perché alla fine in Iraq si sono svolte elezioni democratiche. Gli americani meritano risposte dagli occupanti di quell’edificio rettangolare che si affaccia sull’East River a New York.
Il libretto di Shawn si presenta con una patina di rispettabilità: è pubblicato da una società del gruppo Penguin Books e reca un soffietto di Rudolph Giuliani in copertina5. L’autore è fiero di citare i suoi legami con uomini come Charles Hill, un diplomatico in pensione che insegna a Yale, fonte di alcune sortite di Shawn particolarmente grette. Ma in realtà The UN Exposed non è altro che un esercizio di diffamazione e sciovinismo bilioso travestito da giornalismo. Se Eric Shawn avesse voluto indagare seriamente i problemi delle Nazioni Unite, durante la sua visita a New Haven avrebbe speso meglio il suo tempo parlando invece con Paul Kennedy.
The Parliament of Man, l’ultimo libro del professor Kennedy, espone una presentazione completa e accessibile della storia, dei compiti e dei dilemmi delle Nazioni Unite. È un saggio serio e affascinante di un accademico che, pur elencando meticolosamente i guai che affliggono l’organizzazione, non perde mai di vista la verità più grande, racchiusa nelle frasi conclusive: «l’Onu», scrive, «ha apportato grandi benefici alla nostra generazione, e con l’impegno e la generosità di tutti coloro che possono contribuire ulteriormente al suo lavoro, apporterà dei benefici anche ai nostri figli e ai nostri nipoti».
La prima impressione che si ha leggendo Kennedy, e anche l’eccellente volume di James Traub sugli ultimi anni del mandato di Kofi Annan, è che l’Onu sia decisamente ben servita dal suo personale di alto livello. Negli ultimi anni la levatura dei funzionari della pubblica amministrazione e dei rappresentanti diplomatici in molti paesi occidentali è andata calando, perché le retribuzioni e le opportunità offerte dal settore privato dissuadono i giovani dall’intraprendere una carriera nel servizio pubblico. Le Nazioni Unite, invece, hanno continuato ad attrarre funzionari pubblici coscienziosi e dotati di insolito talento. Questo era vero agli inizi, quando erano governate da statisti come Dag Hammarskjöld e Ralph Bunche e attiravano idealisti come Brian Urquhart (il primo ufficiale britannico a entrare a Bergen-Belsen) e René Cassin (il giurista francese che stilò la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948).
Ed è vero tutt’oggi. I segretari generali sono designati a livello politico internazionale e la loro levatura non è omogenea (né Kurt Waldheim né Boutros Boutros-Ghali si sono coperti di gloria6). Ma qualsiasi governo in grado di vantare i servizi di Lakhdar Brahimi (capo della missione Onu in Afghanistan dall’ottobre 2001 al gennaio 2005), Mohamed El Baradei (direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica dal 1997), Mary Robinson (Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, 1997-2002), Louise Arbour (succedutale, ex procuratore capo dei tribunali penali internazionali per l’ex Iugoslavia e il Ruanda), il compianto Sérgio Vieira de Mello o Jean-Marie Guéhenno (capo del dipartimento per le operazioni di mantenimento della pace dell’Onu dall’ottobre 2000) – o lo stesso Kofi Annan, il segretario generale di maggior prestigio dai tempi di Hammarskjöld – si considererebbe straordinariamente fortunato7.
Che cosa hanno realizzato le Nazioni Unite? Innanzitutto, sono sopravvissute. L’idea di un organismo che si occupi di risolvere i conflitti e affrontare i problemi a livello internazionale è antica e affonda le radici nel Settecento, nei sogni kantiani di pace perpetua. Le prime, parziali incarnazioni – la Croce rossa internazionale (fondata nel 1864), le conferenze di pace dell’Aia del 1899 e del 1907 e le convenzioni di Ginevra cui hanno dato origine, la stessa Società delle Nazioni – erano prive di legittimazione, e soprattutto di poteri esecutivi, in un mondo di Stati nazionali belligeranti. L’Onu, invece, ha tratto giovamento dalla situazione di stallo delle grandi potenze durante i decenni della guerra fredda e il periodo della decolonizzazione, che contribuirono a trasformarla in agorà e forum naturale in cui discutere le questioni internazionali, e, dall’inizio fino a tempi recenti, ha avuto la fortuna di godere del sostegno degli Stati Uniti.
Le Nazioni Unite hanno anche beneficiato, se così si può dire, del continuo aumento di responsabilità internazionali che nessun altro voleva assumere, «trovatelli abbandonati sulla porta del Palazzo di vetro nel cuore della notte», per citare le parole di Kennedy: dal Congo nel 1960, attraverso la Somalia, la Cambogia, il Ruanda e la Bosnia negli anni Novanta fino a Timor Est, Sierra Leone, Etiopia-Eritrea e Congo (di nuovo) ai giorni nostri. Molte di queste missioni sono fallite e tutte costano un mucchio di soldi. Ma servono a ricordarci perché abbiamo bisogno di un’organizzazione internazionale di qualche tipo. E rappresentano soltanto le imprese più visibili delle Nazioni Unite.
Perché in realtà esistono tante Onu, fra le quali i rami politici e militari (l’Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza, il dipartimento per le operazioni di mantenimento della pace) sono solo i più noti. Per citare qualche esempio: l’Unesco (l’Organizzazione per l’educazione, la scienza e la cultura, fondata nel 1945), l’Unicef (il Fondo internazionale per l’infanzia, 1946), l’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità, 1948), l’Unrwa (l’Agenzia per il soccorso e l’occupazione, 1949), l’Unhcr (l’Alto Commissariato per i rifugiati, 1950), l’Unctad (la Conferenza sul commercio e lo sviluppo, 1963) e l’Icty (il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, 1993). Queste unità operative transnazionali non comprendono i programmi intergovernativi amministrati sotto l’egida dell’Onu, né le numerose agenzie che operano sul campo, istituite in risposta a crisi specifiche. Tra queste si possono elencare l’Ungomap (la Missione di buoni uffici in Afghanistan e Pakistan, che supervisionò con efficacia il ritiro delle truppe sovietiche da questi paesi), l’Unamsil (la missione in Sierra Leone, 1999), l’Unmik (la missione nel Kosovo, 1999) e molte altre prima e dopo di queste.
Buona parte dell’opera svolta da queste unità è lavoro di routine. E i compiti soft delle Nazioni Unite – affrontare i problemi sanitari e ambientali, assistere le donne e i bambini durante le crisi, istruire gli agricoltori, formare insegnanti, erogare piccoli prestiti, monitorare le violazioni dei diritti umani – in alcuni casi sono svolti con altrettanta efficacia da organismi nazionali o non governativi, anche se quasi sempre dietro sollecitazione dell’Onu o nella scia di iniziative patrocinate dall’organizzazione. Ma in un mondo in cui gli Stati stanno perdendo l’iniziativa in favore di attori non statali, come l’Ue o le aziende multinazionali, molte cose non succederebbero affatto se non fossero intraprese dalle Nazioni Unite o dai loro rappresentanti – la convenzione sui diritti dell’infanzia promossa dall’Unicef è un caso esemplare8. Sebbene queste organizzazioni comportino costi, è bene ricordare che l’Unicef, per esempio, ha un bilancio notevolmente più contenuto di quello di molte aziende internazionali.
Le Nazioni Unite funzionano al meglio quando tutti riconoscono la legittimità del loro ruolo. Quando si occupano di osservazione o monitoraggio delle elezioni e delle tregue, per esempio, quasi sempre sono il solo interlocutore esterno del quale tutte le parti in conflitto riconoscono le buone intenzioni e la legittima autorevolezza. Se ciò non avviene – come a Srebrenica nel 1995, per esempio – l’esito è catastrofico, perché i caschi blu non possono ricorrere alla forza per difendere se stessi, né intervenire per proteggere altri. La reputazione di cui l’Onu gode in termini di imparzialità e buona fede è dunque la sua più importante risorsa a lungo termine. Senza di essa, l’organizzazione diventa uno dei tanti strumenti a disposizione di uno o più Stati potenti e in quanto tale suscita risentimento. Il rifiuto del Consiglio di sicurezza di autorizzare la disastrosa guerra degli Stati Uniti all’Iraq nel 2003 ha quindi evitato all’Onu la possibilità di perdere definitivamente credibilità agli occhi di gran parte del resto del mondo.
I problemi pratici che le Nazioni Unite devono superare per soddisfare le aspettative sono facili da enumerare. Tutto ciò che fanno costa, e l’organizzazione dispone di fondi soltanto nella misura in cui gli Stati membri li mettono a disposizione. Il Segretario generale e il suo staff, va ricordato, eseguono sempre e solo i desideri degli Stati membri. L’Onu non ha un esercito né una forza di polizia propri. In passato i Paesi Bassi, la Scandinavia e il Canada (il «Nord preoccupato»), assieme a una manciata di altri Stati come la Polonia, l’Italia, il Brasile e l’India, mettevano a disposizione militari addestrati ed equipaggiati per assolvere i suoi scopi. Oggi è più facile che un contingente Onu sia fornito da paesi più poveri dell’Africa o dell’Asia, i quali sono smaniosi di ricevere fondi dall’Onu, ma inviano soldati privi di esperienza e disciplina che non sempre sono ben visti dalle popolazioni fra le quali vanno a mantenere la pace9. E naturalmente bisogna radunare un nuovo contingente per ogni crisi.
Per poter esercitare l’emergente «responsabilità di proteggere» – che non rientrava nella sfera di competenze o nel progetto iniziale – è chiaro che le Nazioni Unite hanno bisogno di un proprio esercito (come proposto, fra gli altri, da Brian Urquhart)10. Così come stanno le cose, anche quando il Consiglio di sicurezza decide di autorizzare una missione militare, il Segretario generale deve cominciare un interminabile ciclo di negoziati e lusinghe per ottenere fondi, soldati, poliziotti, infermieri, armi, camion e provviste. Senza questa assistenza supplementare l’organizzazione è impotente: nel 1993, le sole spese di mantenimento della pace superarono l’intero bilancio annuale dell’Onu di oltre il 200 per cento. Pertanto gli interventi dei singoli Stati (i francesi in Costa d’Avorio o Ciad, i britannici in Sierra Leone), o di una coalizione subordinata all’Onu, come l’attacco della Nato contro la Serbia nel 1999, continueranno a essere soluzioni più rapide ed efficaci durante una crisi rispetto a quelle offerte dall’Onu11.
Il Consiglio di sicurezza, il comitato esecutivo dell’Onu, è esso stesso un problema fra i più complicati. La maggior parte dei membri vi siede a turno, ma i cinque membri permanenti non cambiano dal 1945. Lo status speciale degli Stati Uniti, della Cina e della Russia (ex Urss) infastidisce, ma non viene veramente messo in discussione. Molti paesi però ora sono irritati dal fatto che la Gran Bretagna e la Francia mantengano i loro privilegi. Perché non la Germania, invece? O un solo posto «europeo», da coprire a rotazione? Non dovrebbe essere previsto almeno un nuovo membro: il Brasile, per dire, o l’India o la Nigeria, per tenere conto dei cambiamenti intervenuti nel mondo dal 1945? I francesi si sono guadagnati una dilazione grazie alla popolarità internazionale ottenuta prendendo posizione contro la guerra in Iraq, ma queste lamentele non sono destinate a scomparire.
Poiché è difficile trovare l’accordo sulla riforma del Consiglio di sicurezza – nessuno vuole rinunciare al diritto di veto e l’inserimento di altri membri con la facoltà di esercitarlo peggiorerebbe la situazione – alcuni problemi restano endemici. Finché la Cina (e a volte la Russia) sceglierà di proteggere i diritti «sovrani» di regimi criminali, come quello del Sudan, con i quali fa affari, l’Onu non sarà in grado di intervenire per impedire il genocidio in Darfur. Finché gli Stati Uniti eserciteranno il diritto di veto sulle risoluzioni del Consiglio di sicurezza critiche nei confronti di Israele, l’Onu sarà impotente in Medio Oriente. Anche quando il Consiglio di sicurezza vota all’unanimità – com’è avvenuto lo scorso agosto per chiedere il cessate il fuoco in Libano – basta il rifiuto di un solo membro potente (in questo caso gli Stati Uniti) di obbligare il proprio satellite ad acconsentire per smorzare la volontà dell’intera comunità internazionale.
Molti critici risponderebbero che ciò è dovuto al fatto che non esiste una comunità internazionale. Secondo James Traub, che in generale simpatizza per l’organizzazione, l’apparato del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale (il parlamento dell’Onu) è «paralizzato». I rappresentanti dei paesi del mondo vanno a New York a fare dichiarazioni ed eseguire i loro compiti, ma non formano certo una «comunità» con interessi e scopi comuni; e anche se lo fossero, le Nazioni Unite non sarebbero in grado di realizzarli. Così si leva un coro di richieste di «riforma». Ma che cosa significa? L’Onu ha bisogno di tante cose. Di sicuro ha bisogno di acquisire capacità interne di raccolta di informazioni, per prevedere e analizzare meglio le crisi. Deve diventare più efficiente in termini di adozione e attuazione delle decisioni; potrebbe snellire i comitati e i programmi che si sovrappongono, razionalizzare le norme e i regolamenti interni, le conferenze e le spese. E deve essere molto più consapevole dell’incompetenza e della corruzione di quanto lo sia stata finora. Come ha riconosciuto lo stesso Kofi Annan, la gestione dell’Onu è «un problema [...] che necessit[a] di una riforma».
Ma riformare le pratiche delle Nazioni Unite significa riformare il comportamento degli Stati membri. Tutti, dagli Stati Uniti al più piccolo staterello subsahariano, hanno un’agenda e un interesse legittimo e pochi sacrificheranno il proprio tornaconto in favore degli obiettivi più nobili della comunità nel suo insieme. Pertanto, la vecchia idea di privilegiare l’«equa distribuzione geografica» (invece della competenza) quando si nominano i membri dei comitati ha i suoi pregi: contribuisce a evitare che i piccoli Stati periferici siano coartati dalle ricche potenze e dalle coalizioni di potenze. Ma ha anche prodotto una Commissione per i diritti umani che conta il Sudan fra i membri con diritto di voto e la famigerata dichiarazione dell’Unesco del 1978 che invocava restrizioni della libertà di stampa. Lo stesso Kofi Annan di recente ha lanciato un monito riguardo al fatto che il nuovo Consiglio dei diritti umani (i cui membri attuali comprendono l’Azerbaigian, Cuba e l’Arabia Saudita) perderà in fretta la propria credibilità se si concentrerà in modo sproporzionato sulle violazioni di Israele senza prestare la stessa attenzione alle «gravi violazioni commesse da altri Stati». Ma gli ostacoli restano12.
Purtroppo, l’ostacolo più grande di tutti è rappresentato dal paese membro più potente nonché principale finanziatore dell’Onu: gli Stati Uniti. Durante lo scorso anno, è stata dedicata grande attenzione al contegno estremamente antipatico dell’ambasciatore americano presso le Nazioni Unite, John Bolton. Bolton costituisce – o meglio costituiva (dato che il presidente Bush ha rinunciato suo malgrado al tentativo di prorogarne la nomina ad interim) – un notevole ostacolo al buon funzionamento dell’Onu su molti livelli. Come spiega James Traub, negli ultimi due anni i tentativi genuini di introdurre una riforma istituzionale e procedurale sono stati sistematicamente silurati da Bolton e dal suo staff, che esigevano «una radicale riforma della gestione», ma bloccavano ogni compromesso che permettesse di realizzarla sul serio.
In pratica, Bolton ha formato una coalizione di fatto con Stati come lo Zimbabwe, la Bielorussia e altri paesi che hanno motivi propri per mantenere inefficienti le Nazioni Unite e tenerle lontane dai loro affari interni. Poiché gli Stati Uniti si sono rifiutati di muoversi di un millimetro nei recenti negoziati sulla riforma del Consiglio dei diritti umani, la creazione di commissioni per la costruzione della pace o l’istituzione di un nuovo regime di disarmo internazionale, i paesi che altrimenti sarebbero stati costretti a cedere terreno (in particolare, l’Iran e il Pakistan) non si sono peritati di respingere norme più rigorose in materia di non proliferazione, per esempio. Gli Stati membri (perlopiù europei) che cercavano soluzioni per barattare una sovranità nazionale incondizionata con un regime giuridico internazionale più efficace o un insieme di norme praticabili per l’azione collettiva si sono ritrovati in perenne minoranza.
Bolton non solo si è opposto a una riforma efficace dell’Onu, ma ha anche colto ogni occasione per deridere l’istituzione, descrivendola variamente come «incapace» e «irrilevante»13. In tal modo ha fatto sì che il suo paese si ritrovasse in ben strana compagnia. Dopo che gli Stati Uniti hanno posto il veto su una mozione del Consiglio di sicurezza del dicembre 2006 intesa a condannare Israele per l’uccisione di diciannove civili palestinesi a Beit Hanoun, l’Assemblea generale dell’Onu (che non prevede il diritto di veto) ha approvato un testo che si limita a esprimere «rammarico» per le vittime. Ma gli Stati Uniti si sono opposti anche a questa proposta, assieme ai soliti alleati – Israele, Palau e Isole Marshall – e, in questa occasione, all’Australia. Alcuni mesi prima, quando le proposte relative alla riforma del Consiglio dei diritti umani giunsero infine all’Assemblea generale, 188 paesi ne approvarono l’attuazione. Quattro paesi espressero voto contrario: Israele, Isole Marshall, Stati Uniti e Bielorussia.
Bolton può avere uno stile tutto suo, ma i suoi voti erano espressi in nome dei capi ai quali rispondeva a Washington. Per qualche tempo è circolata la voce che l’estrema avversione di Bolton per le Nazioni Unite in realtà non rappresentasse l’opinione ufficiale americana, che Condoleezza Rice avesse «parcheggiato» Bolton lungo l’East River di New York per impedirgli di portare scompiglio a Washington. Ma anche se fosse vero, dimostra soltanto che il segretario di Stato e i suoi colleghi hanno ancora meno rispetto delle Nazioni Unite di quanto si immaginasse in precedenza; la nomina di Bolton all’Onu è stata generalmente interpretata come un’espressione di disprezzo calcolata14.
E infatti Bolton non era il problema, soltanto il sintomo. La «belligeranza preventiva», la descrizione dell’Onu come una «zona grigia», l’abitudine di definire i trattati «obblighi politici» invece che giuridici, per esempio, possono sembrare pure provocazioni retoriche da parte di uno sgherro prezzolato; ma in realtà riflettono una scossa sismica che ha investito le relazioni dell’America con il resto del mondo. I presidenti americani, da Truman a Clinton, in generale capivano che gli Stati Uniti potevano ottenere tantissimo dalle Nazioni Unite – sostegno politico, acquiescenza internazionale, copertura legale – in cambio di una modica spesa e piccoli compromessi. Oggi ci opponiamo a ogni minima concessione. Questa è una novità. Ai tempi della guerra fredda era il signor Chruščëv a puntare i piedi al muro del Palazzo di vetro, era Mosca a imporre restrizioni su ogni iniziativa dell’Onu e a respingere con veemenza qualsiasi limitazione dei suoi «diritti» sovrani. Ora è Washington a ricoprire questo ruolo – un segno eloquente non di forza, ma (come nel caso sovietico) di debolezza15.
Stati Uniti stizzosi, che pretendono che l’Onu spazzi via le macerie dopo il loro passaggio e in generale faccia miracoli internazionali, ma si oppongono fermamente a dotarla dei mezzi necessari a tal fine e non perdono occasione per minarne la credibilità, costituiscono un ostacolo insormontabile e una fonte primaria di quelle stesse disfunzioni che i commentatori americani oggi deplorano. I sordidi scandali che hanno colpito l’Onu nel passato recente – in particolare la frode riguardante il programma «Oil for Food» – sono ininfluenti: di sicuro hanno causato meno danni (e generato guadagni illeciti di gran lunga inferiori) degli innumerevoli scandali che di recente hanno travolto grandi imprese negli Stati Uniti, in Australia e altrove; per non parlare della corruzione e dei furti ancora da quantificare che hanno accompagnato la guerra in Iraq e i suoi strascichi. Ma i peggiori scandali riguardanti le Nazioni Unite – la maldestra gestione della catastrofe in Bosnia, l’incompetenza in Ruanda e l’inazione riguardo al Darfur – sono tutti direttamente imputabili alla titubanza (o peggio) delle grandi potenze, compresi gli Stati Uniti16.
L’Onu è dunque destinata a fare la stessa fine della Società delle Nazioni, ingiustamente denigrata? Probabilmente no. Ma le sorti della Società ci ricordano la persistente riluttanza degli Stati Uniti ad accettare le lezioni impartite dagli ultimi cent’anni di storia. Dopo tutto, il ventesimo secolo è andato bene per gli Stati Uniti e l’abitudine a supporre che quel che ha funzionato in passato continuerà a funzionare in futuro è profondamente radicata nel pensiero americano. Per converso, non è un caso che i nostri alleati europei – per i quali il ventesimo secolo è stato una catastrofe traumatica – siano propensi a riconoscere che è la cooperazione, non lo scontro, la condizione necessaria per la sopravvivenza, anche a costo di rinunciare a parte dell’autonomia sovrana formale. I militari britannici caduti nel 1917 nella battaglia di Passchendaele superano da soli la totalità delle perdite subite dall’esercito statunitense nella prima e nella seconda guerra mondiale considerate insieme. Nel 1940, nel corso di appena sei settimane di combattimenti, l’esercito francese perse il doppio del numero totale di caduti statunitensi in Vietnam. L’Italia, la Polonia, la Germania e la Russia hanno tutte perso più soldati e civili nella prima guerra mondiale – e poi di nuovo nella seconda – di quelli persi dagli Stati Uniti in tutte le guerre estere considerate insieme (nel caso della Russia, dieci volte tanto in entrambe le occasioni). Queste differenze fanno vedere il mondo in maniera molto diversa.
Così, oggi, soltanto un diplomatico americano può riuscire ad affermare, o anche solo a pensare che, come ha detto la signora Rice, il «mondo è un posto sporco e qualcuno deve ripulirlo»17. Il più ampio consenso internazionale vuole invece che, proprio perché il «mondo è un posto sporco» – e grazie alle terribili esperienze fatte con «addetti alle pulizie» autonominatisi –, quante più reti di sicurezza e quante meno nuove ramazze mettiamo in campo tanto migliori saranno le nostre probabilità di sopravvivenza. Un tempo questo era ciò che pensava anche un’élite diplomatica americana – la generazione di George Kennan, Dean Acheson e Charles Bohlen – che conosceva le realtà internazionali e i punti di vista esteri molto meglio degli uomini e delle donne che oggi gestiscono la politica estera statunitense.
Kennan e i suoi contemporanei coglievano un aspetto che i loro successori non hanno afferrato. In un mondo in cui buona parte degli Stati e dei popoli, nella maggior parte dei casi, vede un vantaggio nel rispettare le norme e le convenzioni internazionali, chi disdegna o infrange le regole può trarne un beneficio momentaneo: può fare cose che gli altri non faranno. Ma subisce una perdita duratura: diventa un paria oppure – come nel caso degli Stati Uniti – suscita profonda antipatia e diffidenza, anche se la sua presenza è inevitabile. Di conseguenza il suo prestigio, che sia all’interno delle istituzioni internazionali che finge di ignorare o al loro esterno, non può far altro che diminuire lasciandolo privo di strumenti, a eccezione della forza bruta, per persuadere gli oppositori.
Se gli Stati Uniti vogliono riscattarsi – se, come ha detto Kofi Annan in un discorso di commiato alla Truman Library di Independence, nel Missouri, gli Stati Uniti d’America vogliono riconquistare la leadership perduta della comunità mondiale – allora devono cominciare col riconoscere che, come disse Eisenhower, «con tutti i difetti, con tutti i limiti che possiamo attribuirle, l’Onu rappresenta ancora la speranza più concreta dell’uomo per sostituire il tavolo negoziale al campo di battaglia». In Europa questa consapevolezza si è radicata soltanto dopo che gli europei avevano passato trent’anni a torturare e uccidere decine di milioni di altri europei; finché si erano limitati a torturare e uccidere i «nativi» delle colonie, la mentalità cambiò poco.
Qui negli Stati Uniti, nel momento in cui scrivo, la morte di più di tremila soldati americani in Iraq si è impressa nella mente del pubblico, ma l’uccisione di centinaia di migliaia di iracheni non l’ha quasi scalfita. Per la verità, il nuovo cliché salvafaccia a Washington è che la responsabilità della catastrofe in atto nel loro paese è degli iracheni stessi: abbiamo fatto del nostro meglio, ma ci hanno deluso. E fintantoché gli Stati Uniti continueranno (con la piena approvazione del Congresso) a «restituire» e torturare i sospettati nella «guerra al terrore», avremo scarse probabilità di cambiare opinione in merito alle virtù di un tribunale internazionale o al primato del diritto internazionale.
Tutto sommato, sembra dunque improbabile che persino l’umiliante sconfitta della guerra in Iraq faccia cambiare idea a molti americani riguardo ai pregi della cooperazione internazionale. Qualcos’altro, però, forse potrebbe. Perché c’è un’esperienza internazionale comune nel ventunesimo secolo che i cittadini e i politici americani non possono evitare di condividere con il resto del pianeta, per quanto poco sappiano del mondo esterno e per quanto granitiche e prevenute siano le loro convinzioni al riguardo. Nell’arco della vita di molti lettori di questo saggio, il mondo scivolerà sempre più velocemente verso la catastrofe ambientale.
Non è una coincidenza che i due paesi sui quali ricade la maggiore responsabilità di questa previsione – la Cina e gli Stati Uniti d’America – siano anche i due membri del Consiglio di sicurezza meno inclini all’azione collettiva in generale; né stupisce che l’uomo che hanno scelto quale successore di Kofi Annan al Palazzo di vetro sia il sudcoreano Ban Ki-moon, un personaggio che fino a quel momento non era noto per la sua propensione a insistere su programmi scomodi o affrontare punti dolenti. Le sue dichiarazioni iniziali, in particolare l’ambiguità sull’appropriatezza dell’esecuzione di Saddam Hussein, non sono rassicuranti. Ma nei prossimi decenni dovremo affrontare calamità «naturali», siccità, carestie, inondazioni, guerre per le risorse, migrazioni di popolazioni, crisi economiche e pandemie regionali di proporzioni totalmente sconosciute.
I singoli Stati non avranno né i mezzi né – grazie alla globalizzazione – l’autorità pratica per limitare i danni o compensare le perdite. I soggetti substatali, come la Croce rossa o Medici senza frontiere, nel migliore dei casi riusciranno ad applicare cerotti. «Agire con gli altri» – il nuovo mantra post-Bush – sarà del tutto insufficiente: le semplici coalizioni dei volenterosi (o dei sottomessi) si riveleranno impotenti. Saremo obbligati a riconoscere l’autorità e la guida di chi sa cosa occorre fare. In breve, dovremo agire per tramite degli altri: in collaborazione, in cooperazione, senza fare riferimento a confini o interessi nazionali particolari, che in ogni caso perderanno gran parte del loro significato. Grazie all’Onu e alle sue varie agenzie, come l’Oms, scrive Paul Kennedy, abbiamo già «creato meccanismi internazionali di allarme preventivo, valutazione e coordinamento, nell’ipotesi di disgregazione o collasso degli Stati». Dovremo imparare ad applicarli in circostanze in cui non saranno gli Stati, ma intere società a trovarsi di fronte al collasso o al fallimento e in cui nemmeno gli americani avranno la possibilità rassicurante di combattere «laggiù», per non dover combattere «qui».
L’Onu, «unica e insostituibile», è tutto ciò che siamo riusciti a realizzare in termini di capacità collettiva di rispondere a una crisi di questa portata, quando infine ne prenderemo coscienza. Se una simile organizzazione non esistesse già, probabilmente oggi non sapremmo come inventarla. Ma esiste e negli anni a venire ci considereremo fortunati di avere ereditato le decisioni dei suoi fondatori, se non il loro ottimismo. Pertanto la buona notizia è che nel lungo periodo la necessità dell’Onu sarà dimostrata – anzi, si dimostrerà da sola, anche se forse bisognerà aspettare che la sede delle Nazioni Unite (con grande sollievo di Eric Shawn e dei suoi amici) sia costretta ad abbandonare la sponda dell’East River di Manhattan perché il livello delle acque attorno a New York si innalzerà inesorabilmente. La brutta notizia, naturalmente, è che – come ci ricorda Keynes – nel lungo periodo saremo tutti morti.
* Questo saggio – una recensione di The UN Exposed: How the United Nations Sabotages America’s Security and Fails the World di Eric Shawn, Sentinel, New York 2006, The Parliament of Man: The Past, Present, and Future of the United Nations di Paul Kennedy, Random House, New York 2006 [trad. it. di Roberto Merlini, Il parlamento dell’uomo: le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale, Garzanti, Milano 2007], e The Best Intentions: Kofi Annan and the UN in the Era of American World Power di James Traub, Farrar, Straus e Giroux, New York 2006 [trad. it. di Davide Panzieri, Con le migliori intenzioni: Kofi Annan e l’ONU nell’era del potere globale americano, UTET, Torino 2008] – è stato pubblicato per la prima volta nel febbraio 2007 sulla «New York Review of Books».
1 Si veda, in generale, Michael W. Doyle e Nicholas Sambanis, Making War and Building Peace: United Nations Peace Operations, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2006.
2 I membri fondatori nel 1945 erano cinquanta, oggi ne fanno parte 191.
3 Su alcune conseguenze della perdita di controllo delle funzioni fondamentali da parte degli Stati moderni, si veda Arjun Appadurai, Fear of Small Numbers: An Essay on the Geography of Anger, Duke University Press, Durham (NC) 2006.
4 Il sito Internet autopromozionale di Shawn è consultabile al seguente indirizzo: www.ericshawnnewsman.com.
5 In copertina figurano anche soffietti di Ann Coulter, Jesse Helms e Christopher Hitchens («La struttura delle Nazioni Unite è diventata simile a quella delle repubbliche delle banane che dominano tantissime loro sedute e commissioni»).
6 Kennedy, che pecca in generosità, è senz’altro troppo gentile nei riguardi di Boutros-Ghali, che si è dimostrato vistosamente incapace di comprendere la gravità della crisi in Bosnia e il cui rappresentante in loco – Yasushi Akashi – non era affatto all’altezza del compito affidatogli.
7 Su Annan, oltre al libro di James Traub qui recensito, si veda la nuova biografia di Stanley Meisler, Kofi Annan: A Man of Peace in a World of War, Wiley, Hoboken, NJ 2007. In un discorso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite pronunciato il 12 dicembre, Annan ha sollecitato una soluzione urgente della crisi israelo-palestinese. L’imparzialità e la forza del suo ragionamento coprono di vergogna i luoghi comuni (o, peggio, il silenzio) degli altri «leader» del mondo di oggi. Un estratto del discorso è riprodotto a pagina 48 del numero del 15 febbraio 2007 della «New York Review of Books».
8 Soltanto due Stati membri delle Nazioni Unite hanno rifiutato di ratificare questa convenzione: la Somalia e... gli Stati Uniti.
9 L’incapacità dei militari dell’Unione africana di svolgere un ruolo efficace in Darfur è un esempio calzante, anche se in questo caso è stato il governo locale sudanese a premere per un contingente non occidentale, ben sapendo (e auspicando) che non sarebbe stato in grado di porre fine ai massacri.
10 Nel periodo compreso tra il 1945 e il 1988, l’Onu intraprese soltanto tredici operazioni di mantenimento della pace. Tra il 1988 e il 1995 ne ha avviate altre diciannove, per la maggior parte nei Balcani, in Africa e in Medio Oriente, e molte altre arriveranno. Sulla comparsa e sulle implicazioni di questa funzione imprevista delle Nazioni Unite, si veda James Dobbins et al. The UN’s Role in Nation-Building: From the Congo to Iraq, Rand, Santa Monica (CA) 2005.
11 La questione del bilancio per le operazioni di mantenimento della pace va tuttavia mantenuta nella giusta proporzione. Nel 2006 il costo complessivo di tutte le operazioni di mantenimento della pace condotte dall’Onu a livello mondiale ammonta a 5 miliardi di dollari. L’Ufficio bilanci del Congresso stima che l’avventura americana in Iraq abbia un costo immensamente più elevato: 6 miliardi di dollari al mese.
12 Si veda Annan Calls for Anti-Terror Strategy Built on Human Rights, «Financial Times», 9-10 dicembre 2006.
13 Nel 2001, in qualità di sottosegretario di Stato per il controllo delle armi e la sicurezza internazionale [sic], Bolton riuscì a sabotare una conferenza delle Nazioni Unite sul traffico illecito di armi leggere e addirittura si presentò alla riunione accompagnato da membri della National Rifle Association.
14 Resta da vedere se la nomina dell’ambasciatore Zalmay Khalilzad in sostituzione di Bolton denoti un mutamento di opinione o solo di tono.
15 Nei primi tempi l’attività del Consiglio di sicurezza era ostacolata soprattutto dal veto dei sovietici. Negli ultimi anni, invece, sono gli Stati Uniti a mettere i bastoni tra le ruote. Dal 1972 hanno posto il veto su più di trenta risoluzioni del Consiglio di sicurezza critiche nei confronti di Israele e su decine di altre riguardanti svariate questioni, dal Sud Africa al diritto internazionale.
16 Per una descrizione decisamente ostile dell’incapacità del Segretariato delle Nazioni Unite di tener testa ai loro finanziatori quando contava davvero, si veda Adam LeBor, «Complicity with Evil»: The United Nations in the Age of Modern Genocide, Yale University Press, New Haven 2006.
17 Condoleezza Rice, allora consigliere per la sicurezza nazionale, nell’autunno del 2002. Si veda Jeffrey Goldberg, Breaking Ranks: What Turned Brent Scowcroft Against the Bush Administration?, «The New Yorker», 2 novembre 2005.