Capitolo 10
Falsità verificabili*

Sono abbastanza vecchio da ricordare quando i kibbutz israeliani assomigliavano a degli insediamenti («un piccolo villaggio o gruppo di case» o «l’atto di popolare o colonizzare un nuovo paese», secondo l’Oxford English Dictionary).

All’inizio degli anni Sessanta trascorsi un periodo presso il kibbutz Hakuk, una piccola comunità fondata dall’unità Palmah dell’Haganah, la milizia ebraica prestatale. Avviato nel 1945, Hakuk aveva appena diciotto anni quando lo vidi per la prima volta ed era ancora piuttosto grezzo. Le poche decine di famiglie che ci vivevano avevano costruito un refettorio, ripari agricoli, alcune case e una baby house, dove i bambini venivano accuditi durante l’orario di lavoro. Ma oltre il perimetro degli edifici residenziali c’erano soltanto colline rocciose e campi semilavorati.

I membri della comunità indossavano ancora camicie da lavoro blu, bermuda cachi e cappelli triangolari e coltivavano scientemente un’immagine e uno stile di vita da pionieri, già allora in forte contrasto con il frenetico ambiente urbano di Tel Aviv. Questa, sembravano dire ai visitatori e ai volontari dagli occhi raggianti, è la vera Israele; venite ad aiutarci a dissodare la terra e a coltivare banane, e invitate anche i vostri amici in Europa e in America.

Hakuk è ancora là, ma oggi dipende da una fabbrica di materie plastiche e dai turisti che affollano le vicine spiagge del mare di Galilea. La fattoria originaria, costruita attorno a un forte, è stata trasformata in attrazione turistica. Considerare questo kibbutz un insediamento sarebbe assurdo.

Israele ha comunque bisogno di «insediamenti». Sono parte integrante dell’immagine che da molto tempo cerca di trasmettere agli ammiratori e agli organizzatori di raccolte fondi oltremare: un piccolo paese che faticosamente protegge il posto che gli spetta in un ambiente ostile con il duro lavoro morale di dissodamento e irrigazione del suolo, autosufficienza agricola, produttività industriosa, legittima autodifesa e costruzione di comunità ebraiche. Ma questa storia di frontiera neocollettivistica suona falsa nella moderna Israele ad alta tecnologia. Perciò il mito del colono è stato trasferito altrove, nei territori palestinesi confiscati durante la guerra del 1967 e da allora occupati illegalmente.

Non è quindi un caso che la stampa internazionale sia incoraggiata a parlare e scrivere a proposito dei «coloni» e degli «insediamenti» ebraici in Cisgiordania. L’immagine, tuttavia, è profondamente ingannevole. Fra queste comunità controverse, la più vasta, in termini geografici, è Maale Adumim. Ha una popolazione di oltre 35.000 abitanti, demograficamente paragonabile a Montclair, nel New Jersey, o a Winchester, in Inghilterra. Quel che più colpisce, però, di Maale Adumim è la sua estensione territoriale. Questo «insediamento» copre circa settantotto chilometri quadrati, vale a dire una volta e mezza la superficie di Manhattan e quasi la metà di quella della città metropolitana di Manchester, in Inghilterra. Non male, come «insediamento».

Gli insediamenti israeliani ufficiali nei territori occupati in Cisgiordania sono circa centoventi. A questi si aggiungono gli insediamenti «non ufficiali», il cui numero è stimato tra ottanta e cento. Il diritto internazionale non fa alcuna differenza tra le due categorie: entrambe costituiscono una violazione dell’articolo 47 della quarta convenzione di Ginevra, che vieta espressamente l’annessione di territori conseguente all’uso della forza, un principio ribadito all’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite.

Pertanto, la distinzione tra insediamenti «autorizzati» e «non autorizzati», che spesso si sente fare nelle dichiarazioni israeliane, è speciosa: sono tutti illegali, che siano stati ufficialmente approvati o no e che la loro espansione sia stata «congelata» o prosegua a ritmo sostenuto. (È degno di nota che il nuovo ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, provenga dall’insediamento di Nokdim in Cisgiordania, fondato nel 1982 e poi ampliato illegalmente.)

Il cinismo sfacciato dell’attuale governo israeliano non dovrebbe abbagliarci e impedirci di vedere la responsabilità dei suoi predecessori in apparenza più rispettabili. La popolazione di coloni è notevolmente aumentata nel corso degli ultimi vent’anni, a un ritmo del 5 per cento annuo, tre volte il tasso di crescita della popolazione israeliana nel suo insieme. Tenendo conto della popolazione ebraica di Gerusalemme Est (anch’essa annessa illegalmente a Israele), oggi si contano più di mezzo milione di coloni: poco più del 10 per cento della popolazione ebraica della cosiddetta Grande Israele. Questo è un motivo per cui i coloni confidano così tanto nelle elezioni in Israele, dove la rappresentanza proporzionale conferisce un indebito peso politico anche alla più piccola circoscrizione elettorale.

I coloni però non sono un semplice gruppo di interesse marginale. Per capire la loro importanza, dato che sono sparsi in un arcipelago di agglomerati urbani protetti dall’intrusione araba da seicento checkpoint e barriere, teniamo presente quanto segue: considerate insieme, Gerusalemme Est, la Cisgiordania e le alture del Golan costituiscono un blocco demografico omogeneo di dimensioni quasi pari a quelle del District of Columbia. Il numero di abitanti è superiore di quasi un terzo a quello di Tel Aviv. Non male, come «insediamento».

Se Israele è ebbra di insediamenti, gli Stati Uniti sono da tempo suoi complici. Se Israele non fosse il principale beneficiario degli aiuti esteri americani – mediamente 2,8 miliardi di dollari l’anno dal 2003 al 2007, e si prevede di raggiungere 3,1 miliardi di dollari entro il 2013 –, il prezzo delle case negli insediamenti in Cisgiordania non sarebbe così basso: in molti casi costano meno della metà delle abitazioni equivalenti nel territorio vero e proprio di Israele.

Molte persone che vanno ad abitare in queste case non si considerano nemmeno coloni. Appena arrivati dalla Russia e da altri paesi, si limitano ad accettare l’offerta di un alloggio sovvenzionato, si trasferiscono nelle zone occupate e diventano – come i contadini nel Sud Italia appena dotati di strade e di energia elettrica – gli assistiti riconoscenti dei loro benefattori politici. Come i coloni americani che si dirigevano verso l’Ovest, i coloni israeliani in Cisgiordania sono i beneficiari di un loro proprio Homestead Act, e sradicarli di lì sarà altrettanto difficile.

Nonostante i continui accenni nei colloqui diplomatici alla necessità di smantellare gli insediamenti quale condizione per la pace, nessuno crede seriamente che queste comunità – con il loro mezzo milione di abitanti, i loro centri urbani, l’accesso privilegiato a terreni fertili e all’acqua – saranno mai trasferite. Le autorità israeliane, che siano di sinistra, di destra o di centro, non hanno alcuna intenzione di smantellare gli insediamenti e né i palestinesi né gli americani bene informati albergano illusioni al riguardo.

Di sicuro, fa comodo a quasi tutti fingere il contrario: fare riferimento alla «road map» del 2003 e parlare di un accordo finale basato sui confini del 1967. Ma questa inconsapevolezza di facciata è ipocrisia politica da quattro soldi e serve a oliare i meccanismi diplomatici e facilitare la comunicazione e il compromesso.

In certe occasioni, tuttavia, l’ipocrisia politica è la nemesi di se stessa, e questa è una di quelle. Poiché gli insediamenti non spariranno mai, eppure quasi tutti preferiscono fingere il contrario, abbiamo bravamente ignorato le implicazioni di quelli che gli israeliani da tempo sono fieri di definire «i fatti verificabili».

Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, lo sa meglio di chiunque altro. Il 14 giugno ha pronunciato un discorso molto atteso, nel quale ha abilmente gettato fumo negli occhi dei suoi interlocutori americani. Da un lato, ha proposto di riconoscere l’ipotetica esistenza di un eventuale Stato palestinese – con l’intesa esplicita che non eserciterà alcun controllo sul proprio spazio aereo e non disporrà di mezzi di difesa contro le aggressioni – e, dall’altro, ha ribadito l’unica posizione israeliana che conti davvero: non costruiremo insediamenti illegali, ma ci riserviamo il diritto di ampliare quelli «legali» in funzione del loro naturale tasso di crescita. (Non è un caso che abbia scelto di pronunciare questo discorso all’università Bar-Ilan, il cuore dell’intransigenza rabbinica dove Yigal Amir aveva imparato a odiare il primo ministro Yitzhak Rabin prima di risolversi ad assassinarlo nel 1995.) Le rassicurazioni offerte ai coloni e ai loro sostenitori politici dal signor Netanyahu come sempre sono state bene accolte, sebbene siano state espresse in termini stereo­tipati e melliflui per placare le ansie degli ascoltatori americani. Com’era prevedibile, i mezzi di informazione negli Stati Uniti hanno abboccato, dando risalto al «sostegno» manifestato da Netanyahu per uno Stato palestinese e minimizzando tutto il resto.

Tuttavia, la vera questione oggi è se il presidente Obama risponderà sulla stessa falsariga. Di sicuro gli piacerebbe farlo. Per il presidente americano e i suoi consiglieri sarebbe una soddisfazione impareggiabile poter affermare che, in seguito al suo discorso al Cairo, anche Netanyahu ha mutato posizione ed è aperto al compromesso. Washington eviterebbe così, per il momento, uno scontro con il suo più stretto alleato. Ma la scomoda realtà è che il primo ministro ha ribadito la verità nuda e cruda: il suo governo non ha alcuna intenzione di riconoscere il diritto o l’opinione internazionale per quanto riguarda i territori di cui Israele si è appropriato in «Giudea e Samaria».

Il presidente Obama è quindi di fronte a una scelta. Può stare al gioco con gli israeliani, fingendo di credere alle promesse di buona volontà e alla rilevanza delle distinzioni che propongono. In tal modo, guadagnerebbe tempo e favore in seno al Congresso. Ma gli israeliani gli farebbero fare la figura dello stupido e in Medio Oriente e altrove sarebbe considerato tale.

In alternativa, il presidente potrebbe dare un taglio a due decenni di acquiescenza americana, riconoscere pubblicamente che l’imperatore è davvero nudo, trattare Netanyahu per il cinico che è e rammentare agli israeliani che tutti i loro insediamenti sono ostaggio della buona volontà americana. Potrebbe inoltre ricordare agli israeliani che le comunità illegali non hanno niente a che fare con la difesa di Israele, tanto meno con i suoi ideali fondanti di autosufficienza agricola e autonomia ebraica. Non sono altro che acquisizioni coloniali che gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a foraggiare.

Ma se ho ragione e non esiste alcuna prospettiva realistica di smantellare gli insediamenti israeliani, per il governo americano accettare che il semplice blocco dell’espansione degli insediamenti «autorizzati» sia un passo reale verso la pace sarebbe l’esito peggiore possibile dell’attuale balletto diplomatico. Nessun altro nel mondo crede a questa favola, perché dovremmo crederci noi? L’élite politica in Israele tirerebbe un immeritato sospiro di sollievo per essere riuscita ancora una volta a mettere nel sacco il proprio sovvenzionatore. Gli Stati Uniti ne uscirebbero umiliati agli occhi dei loro amici, per non parlare dei nemici. Se l’America non è in grado di sostenere i propri interessi nella regione, che almeno non si lasci menare ancora una volta per il naso.

 

* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel giugno del 2009 sul «New York Times».