Capitolo
14
Sulla Peste*
Penguin Books ha appena pubblicato una nuova traduzione inglese, a firma di Robin Buss, della Peste, il romanzo di Albert Camus, e il testo che segue è la mia introduzione alla nuova edizione, scritta qualche mese fa. Molti lettori avranno familiarità con il racconto dell’arrivo della peste nella città nordafricana di Orano nel 194... e sui vari modi in cui gli abitanti reagiscono all’impatto devastante del flagello sulla loro vita. Oggi La peste assume una valenza tutta nuova e una toccante immediatezza.
L’insistenza con cui Camus colloca la responsabilità morale dell’individuo al centro di ogni scelta pubblica investe tutte le comode abitudini del nostro tempo. La sua definizione dell’eroismo – persone comuni che fanno cose straordinarie per pura decenza – suona più vera di quanto un tempo potremmo avere riconosciuto. La sua descrizione dei giudizi immediati pronunciati ex cathedra – «fratelli, ve lo siete meritato» – risulterà tristemente familiare a ciascuno di noi.
La capacità di Camus di cogliere senza esitazione la differenza tra il bene e il male, nonostante la sua compassione per i dubbiosi e i moralmente compromessi, per gli impulsi e gli errori dell’essere umano imperfetto, getta una luce poco lusinghiera sui relativisti e gli opportunisti del nostro tempo. E l’uso discutibile di un’epidemia biologica per illustrare i dilemmi del contagio morale riesce nell’intento in modi che l’autore non avrebbe potuto immaginare. Qui a New York, nel novembre 2001, siamo nella migliore posizione che si possa desiderare per avvertire la sferzata del monito contenuto nell’ultima frase del romanzo.
La peste è il romanzo di maggior successo di Albert Camus. Pubblicato nel 1947, quando l’autore aveva trentatré anni, fu un trionfo immediato. Nel giro di un anno era stato tradotto in nove lingue, e molte altre si sarebbero aggiunte col tempo. Non è mai stato fuori commercio e si è affermato come un classico della letteratura mondiale ancora prima della morte prematura dell’autore nel gennaio del 1960 in un incidente stradale. Più ambizioso dello Straniero, il primo romanzo con cui si fece un nome, e più accessibile dei suoi scritti successivi, La peste è il libro grazie al quale Camus è noto a milioni di lettori. È possibile che gli sembrasse una stranezza: Il ribelle, pubblicato quattro anni dopo, era il preferito tra i romanzi che scrisse.
La Peste è stato scritto in un arco di tempo molto lungo, come la maggior parte delle opere migliori di Camus. L’autore cominciò a raccogliere il materiale per il libro nel gennaio del 1941, quando arrivò a Orano, la città sulla costa algerina nella quale è ambientata la storia. Continuò a lavorare al manoscritto a Le Chambon-sur-Lignon, un paesino di montagna nella Francia centrale, dove trascorreva la convalescenza in seguito a uno dei suoi periodici attacchi di tubercolosi nell’estate del 1942. Ma Camus venne presto trascinato nella Resistenza e fino alla liberazione della Francia non fu in grado di prestare altra attenzione al libro. A quel punto, tuttavia, l’oscuro romanziere algerino era diventato un personaggio nazionale: un eroe della Resistenza intellettuale, direttore di «Combat» (un quotidiano nato in clandestinità che ebbe enorme influenza negli anni del dopoguerra) e un’icona per una nuova generazione di uomini e donne francesi affamati di idee e di idoli.
Camus sembrava perfettamente adatto al ruolo. Attraente e affascinante, carismatico sostenitore di un cambiamento sociale e politico radicale, esercitava un’influenza ineguagliabile su milioni di suoi compatrioti. Per citare Raymond Aron, i lettori degli editoriali di Camus avevano «preso l’abitudine di attingere da lui il loro pensiero quotidiano». C’erano altri intellettuali nella Parigi postbellica destinati a svolgere ruoli importanti negli anni successivi: Aron stesso, Simone de Beauvoir e, naturalmente, Jean-Paul Sartre. Ma Camus era diverso. Nato in Algeria nel 1913, era più giovane dei suoi amici della rive gauche, la maggior parte dei quali aveva già quarant’anni quando la guerra finì. Era più «esotico», dato che proveniva dalla lontana Algeri invece che dal circolo di artisti e intellettuali formatisi nelle scuole e università parigine. E aveva qualcosa di speciale, che un osservatore contemporaneo colse molto bene: «La sua figura così sensibile e così umana mi ha vivamente toccato. In quest’uomo c’è una probità così evidente da ispirarmi un rispetto quasi immediato; semplicemente, non è come gli altri»1.
Il prestigio di cui Camus godeva garantì il successo del libro. Ma anche il momento in cui fu pubblicato giocò un ruolo. Quando il libro uscì i francesi stavano cominciando a dimenticare gli imbarazzi e i compromessi di quattro anni di occupazione tedesca. Il maresciallo Philippe Pétain, il capo di Stato che iniziò e incarnò la politica di collaborazione con i nazisti vittoriosi, era stato processato e incarcerato. Altri politici collaborazionisti erano stati giustiziati o estromessi dalla vita pubblica. Il mito di una gloriosa resistenza nazionale veniva coltivato con cura dai politici di ogni colore, da Charles de Gaulle ai comunisti; ai ricordi personali spiacevoli si sovrapponeva la confortante versione ufficiale ritoccata, secondo la quale la Francia era stata liberata dagli oppressori grazie agli sforzi congiunti di tutti gli oppositori interni e delle forze armate della Francia libera guidate da de Gaulle da Londra.
In questo contesto, l’allegoria di Albert Camus dell’occupazione della Francia durante la guerra riapriva un capitolo doloroso del passato francese recente, ma in maniera indiretta e apparentemente apolitica. Evitava così di suscitare reazioni faziose, tranne che all’estrema sinistra e all’estrema destra, e sollevava argomenti delicati senza provocare un rifiuto di ascoltare. Se il romanzo fosse uscito nel 1945, il feroce spirito di vendetta partigiana avrebbe soffocato le riflessioni moderate sulla giustizia e sulla responsabilità. Se la pubblicazione fosse stata rimandata agli anni Cinquanta, il tema centrale del racconto sarebbe stato verosimilmente superato dai nuovi allineamenti prodotti dalla guerra fredda.
Se La peste debba essere letto, come di sicuro fu letto, alla stregua di una semplice allegoria del trauma subìto dalla Francia in tempo di guerra è un argomento sul quale tornerò. Quel che è certo è che si tratta di un libro profondamente personale. Camus mise qualcosa di se stesso – le emozioni, i ricordi, il senso di appartenenza – in tutte le sue opere pubblicate; è uno degli aspetti per cui si distingueva dagli altri intellettuali della sua generazione e spiega il suo fascino universale e duraturo. Ma, anche in base ai suoi propri standard, La peste è singolarmente introspettivo e illuminante. Orano, il luogo in cui è ambientato il romanzo, era una città che Camus conosceva bene e detestava cordialmente (al contrario di Algeri, la città dov’era cresciuto e che tanto amava). La considerava noiosa e materialista e i suoi ricordi erano inoltre influenzati dal fatto che durante la sua permanenza lì la tubercolosi di cui soffriva subì un peggioramento. Gli fu quindi proibito di nuotare – uno dei suoi piaceri più grandi – e fu costretto a restare con le mani in mano per settimane di fila nella calura soffocante e opprimente che fa da sfondo alla storia.
Questa privazione involontaria di tutto ciò che Camus più amava della terra nativa algerina – la sabbia, il mare, l’esercizio fisico e il senso di libertà e spensieratezza tipicamente mediterraneo, che Camus contrapponeva sempre alla tetraggine e al grigiore del Nord – si acuì quando fu mandato in convalescenza nella campagna francese. Il Massiccio centrale della Francia è una regione tranquilla e tonificante, e il villaggio sperduto in cui Camus arrivò nell’agosto del 1942 potrebbe sembrare il contesto ideale per uno scrittore. Ma dodici settimane dopo, nel novembre del 1942, gli alleati sbarcarono in Nord Africa. I tedeschi risposero occupando tutta la Francia meridionale (fino a quel momento governata dal governo fantoccio di Pétain insediato nella città termale di Vichy) e l’Algeria rimase isolata dal continente. Da quel momento in poi, Camus fu separato non solo dal suo paese natio, ma anche dalla madre e dalla moglie, che non avrebbe rivisto fino alla sconfitta dei tedeschi2.
La malattia, l’esilio e la separazione erano quindi presenti nella vita di Camus come nel romanzo e le sue riflessioni su questi temi sono un contrappunto vitale all’allegoria. Data la sua intensa esperienza personale, le descrizioni della peste e del tormento della solitudine sono straordinariamente vivide e sincere. È un chiaro segno della profondità dei sentimenti di Camus il fatto che, all’inizio del racconto, il narratore osservi che «la prima cosa che la peste portò ai nostri concittadini fu l’esilio» e «la separazione da una persona cara divenne [...] il principale motivo di sofferenza di quel lungo periodo d’esilio».
Questo offre a sua volta, sia a Camus sia al lettore, un collegamento con il suo precedente romanzo: perché la malattia, la separazione e l’esilio sono condizioni che ci piombano addosso inattese e non invitate. Sono un’esemplificazione di ciò che Camus intendeva per «assurdità» della condizione umana, della natura apparentemente fortuita delle imprese umane. Non è un caso che uno dei personaggi principali, Grand, senza un motivo evidente, racconti una conversazione sentita per caso in tabaccheria riguardante «un giovane impiegato che aveva ucciso un arabo in spiaggia». È una chiara allusione al primordiale, insulso gesto di violenza di Meursault nello Straniero, e nella mente di Camus è collegato alle devastazioni causate dal morbo nella Peste da qualcosa di più che la comune ambientazione in Algeria.
Ma Camus non si limitò a inserire nella storia fotografie ed emozioni tratte dai suoi scritti precedenti e dalla sua situazione personale. Si calò direttamente nei personaggi del romanzo, usandone tre, in particolare, per rappresentare e illuminare la sua peculiare prospettiva morale. Rambert, il giovane giornalista separato dalla moglie a Parigi, all’inizio cerca disperatamente di fuggire dalla città in quarantena. L’ossessione per la sua sofferenza privata lo rende indifferente alla tragedia più vasta, che vede con distacco – in fondo, non è un cittadino di Orano, è rimasto intrappolato lì dai capricci del caso. Ma proprio alla vigilia della fuga si rende conto di come, suo malgrado, sia diventato parte della comunità e ne condivida le sorti; ignorando i rischi e a dispetto dei suoi bisogni egoistici iniziali, resta a Orano e si unisce alle «formazioni sanitarie». Dalla resistenza puramente personale alla sventura passa alla solidarietà della resistenza collettiva contro il flagello comune.
L’identificazione con il dottor Rieux riecheggia l’umore mutevole di Camus in quegli anni. Rieux è un uomo che, di fronte alla sofferenza e a una crisi comune, compie il suo dovere e diventa una guida e un esempio non per eroico coraggio o attento ragionamento, ma per una specie di indispensabile ottimismo. Verso la fine degli anni Quaranta Camus era esausto e oppresso dal peso delle aspettative caricate su di lui quale intellettuale pubblico: come confidò ai suoi taccuini, «tutti pretendono che l’uomo ancora in cerca abbia raggiunto le sue conclusioni». Dal filosofo «esistenzialista» (etichetta che Camus detestava) la gente si aspettava una visione brillante del mondo, ma Camus non aveva niente da proporre3. Come disse attraverso Rieux, era «stanco del mondo in cui viveva»; la sola cosa di cui fosse certo era che provava «un debole per i suoi simili [ed era] deciso per quel che poteva a rifiutarsi l’ingiustizia e i compromessi».
Il dottor Rieux fa la cosa giusta solo perché ha le idee chiare su ciò che occorre fare. A un terzo personaggio, Tarrou, Camus affida un’esposizione più elaborata del suo pensiero morale. Tarrou, come Camus, ha circa trentacinque anni; ha lasciato la famiglia inorridito, per sua stessa ammissione, dalla freddezza con cui il padre propugnava la pena di morte, un argomento che premeva molto a Camus e sul quale scrisse ampiamente negli anni del dopoguerra4. Tarrou ha riflettuto dolorosamente sulla sua vita e sulle sue convinzioni del passato e la confessione che fa a Rieux è al centro del messaggio morale del romanzo: «credevo [...] di lottare contro la peste. [...]. Ho scoperto che avevo acconsentito indirettamente alla morte di migliaia d’uomini, che avevo addirittura provocato quella morte trovando buone le ragioni e i principii da cui fatalmente era conseguita».
Questo brano si può leggere come una dolente riflessione di Camus stesso sul proprio passaggio attraverso il Partito comunista algerino negli anni Trenta. Ma le conclusioni di Tarrou vanno oltre l’ammissione dell’errore politico: «eravamo tutti in preda alla peste [...]. Quel che so è che ognuno deve fare il possibile per non esser più un appestato [...]. È il motivo per cui ho deciso di rifiutare tutto ciò che in qualunque modo, per buone o cattive ragioni, fa morire o giustifica che si faccia morire». Questa è la voce autentica di Albert Camus e delinea la posizione che avrebbe assunto nei riguardi del dogma ideologico, dell’assassinio politico o giudiziario e di tutte le forme di irresponsabilità etica per il resto della sua vita; una presa di posizione che gli sarebbe poi costata cara in termini di amici e persino di influenza nel mondo polarizzato dell’intelligencija parigina.
L’apologia delle ripulse e delle convinzioni di Tarrou/Camus ci riporta alla situazione della Peste. È un romanzo riuscito a vari livelli, come ogni grande romanzo dev’essere, ma è soprattutto, inequivocabilmente, un racconto morale. Camus era molto attratto da Moby Dick e, come Melville, non provava imbarazzo a corredare la sua storia di simboli e metafore. Ma Melville poteva concedersi il lusso di muoversi liberamente avanti e indietro tra la narrazione di una caccia alla balena e il racconto di un’ossessione umana; fra l’Orano di Camus e il dilemma della scelta umana c’era la vita reale nella Francia di Vichy tra il 1940 e il 1944. I lettori della Peste, oggi come nel 1947, non sbagliano dunque a leggere il romanzo come un’allegoria degli anni dell’occupazione.
In parte ciò è dovuto al fatto che Camus precisa che si tratta di una storia su di «noi». Quasi tutto il racconto è narrato in terza persona, ma distribuiti strategicamente nel testo si incontrano occasionali «noi», e i «noi» in questione – almeno per il pubblico principale di Camus – sono i francesi nel 1947. La «calamità» che si è abbattuta sui cittadini dell’Orano romanzata è quella che colpì i francesi nel 1940, con la sconfitta militare, l’abbandono della Repubblica e l’istituzione del regime di Vichy sotto il controllo tedesco. La descrizione di Camus dell’arrivo dei ratti riecheggiava un’idea diffusa della divisione che lacerava la Francia nel 1940: «Era come se la terra su cui erano piantate le nostre case si spurgasse del proprio carico d’umori, lasciando affiorare bubboni e pus che finora la travagliavano internamente». Molti in Francia, sulle prime, condividevano la reazione iniziale di Padre Paneloux: «fratelli, ve lo siete meritato».
Per molto tempo la gente non si rende conto di ciò che sta accadendo e la vita sembra seguire il suo corso: «Apparentemente non era cambiato nulla». «La città era popolata di sonnambuli». Più avanti, quando la peste è passata, incomincia l’amnesia: «negavano [...] che fossimo stati quel popolo stranito». Tutto questo e molto altro – il mercato nero, l’incapacità degli amministratori di chiamare le cose con il loro nome e di assumere la guida morale della nazione – descrivevano così bene il recente passato francese che le intenzioni di Camus di sicuro non potevano essere equivocate.
Ciononostante, quasi tutti i bersagli di Camus resistono alle facili etichette e l’allegoria va decisamente contro la retorica morale polarizzata in voga nel dopoguerra. Cottard, che accetta la peste perché è troppo forte per poterla combattere e pensa che le «formazioni sanitarie» non servano a niente, è chiaramente una persona che «collabora» al destino della città. Trae profitto dalla nuova situazione e ha tutto da perdere dal ritorno alle «vecchie abitudini». Ma è tratteggiato con simpatia, e Tarrou e gli altri continuano a frequentarlo e addirittura discutono con lui le loro azioni. L’unica cosa che chiedono, per dirla con Tarrou, è che «perlomeno [...] cerchi di non diffondere intenzionalmente il microbo».
Alla fine Cottard è brutalmente malmenato dalla nuova cittadinanza liberata – un richiamo alle crudeli punizioni inflitte ai presunti collaborazionisti dopo la Liberazione, in molti casi da uomini e donne che con il loro entusiasmo per la vendetta violenta aiutarono se stessi e gli altri a dimenticare i compromessi accettati in tempo di guerra. La capacità di Camus di capire la rabbia e il rancore generati dalla vera sofferenza e dai sensi di colpa introduce una sfumatura empatica che era rara fra i suoi contemporanei e che sottrae la storia alle convenzioni dell’epoca.
La stessa capacità di comprensione (e integrità: Camus scriveva in base all’esperienza personale) influenza la sua descrizione dei resistenti. Non è un caso che Grand, il grigio impiegato, vessato e senza ambizioni, sia presentato come l’incarnazione della resistenza reale, non eroica. Per Camus, come per Rieux, la resistenza non riguardava affatto l’eroismo – o, se lo riguardava, si trattava dell’eroismo della probità. «Farà magari ridere come idea, ma il solo modo di lottare contro la peste è l’onestà». Prodigarsi nelle «formazioni sanitarie» non era di per sé un gran merito – anzi, «non farlo [...] sarebbe stato inimmaginabile». Questo punto è ribadito infinite volte nel romanzo, come se Camus temesse che potesse sfuggire: «quando si vedono la miseria e il dolore che porta», osserva a un certo punto Rieux, «bisogna essere pazzi, ciechi o vigliacchi per rassegnarsi alla peste».
Camus, come il narratore, rifiuta di farsi «il cantore troppo eloquente della forza di volontà e di un eroismo cui attribuisce solo un’importanza relativa». Questo va contestualizzato. Ci fu ovviamente enorme coraggio e sacrificio nella Resistenza francese; molti uomini e donne morirono per la causa. Ma Camus era a disagio con il mito dell’eroismo autocelebrativo che si era diffuso nella Francia postbellica e aborriva l’aria di superiorità morale con cui i sedicenti ex resistenti (compresi alcuni suoi famosi colleghi intellettuali) storcevano il naso davanti a chi non fece nulla. A parere di Camus era l’indolenza, o l’ignoranza, a spiegare l’inazione delle persone. I Cottard del mondo erano l’eccezione; la maggior parte delle persone è migliore di quanto si pensi – come dice Tarrou, «basta soltanto offrirgliene l’occasione»5.
Di conseguenza, alcuni intellettuali contemporanei di Camus non si curarono particolarmente della Peste. Si aspettavano un tipo di scrittura più «impegnato» dal collega e consideravano politicamente scorrette le ambiguità del libro e l’atteggiamento disincantato, tollerante e moderato dell’autore. In particolare, Simone de Beauvoir disapprovò con vigore l’uso di una pestilenza naturale come surrogato (secondo lei) del fascismo: solleva gli uomini dalle loro responsabilità politiche, sosteneva, e rifugge la storia e i problemi politici reali. Nel 1955 il critico letterario Roland Barthes raggiunse una conclusione negativa analoga e accusò Camus di presentare ai lettori un’«etica antistorica». Ancora oggi queste critiche a volte affiorano fra gli studiosi accademici di Camus: utilizzando la metafora di una «peste non ideologica e non umana», gli rimproverano, scagiona il fascismo e Vichy.
Questi commenti sono doppiamente rivelatori. Innanzitutto, mostrano quanto la storia apparentemente semplice di Camus si prestasse a interpretazioni errate. L’allegoria può anche essere legata alla Francia di Vichy, ma la «peste» trascende le etichette politiche. Camus non prendeva di mira il «fascismo» – un bersaglio facile, dopo tutto, specialmente nel 1947 – ma i dogmi, la remissività e la codardia in tutte le loro espressioni pubbliche intrecciate. Tarrou non è certo un fascista, ma sostiene che un tempo, quando seguiva le dottrine che autorizzavano la sofferenza altrui in nome di obiettivi più nobili, anche lui era portatore della peste, proprio mentre la combatteva.
In secondo luogo, le critiche secondo cui Camus era troppo ambiguo nell’esprimere giudizi e le sue metafore erano troppo apolitiche non mettono in luce le sue debolezze, ma i suoi punti di forza. È un aspetto che forse oggi abbiamo migliori possibilità di comprendere, rispetto ai primi lettori della Peste. Grazie a Primo Levi e a Václav Havel abbiamo acquistato familiarità con la «zona grigia». Capiamo meglio che in situazioni estreme raramente il bene e il male, i colpevoli e gli innocenti, possono essere distinti in semplici e confortanti categorie. Sappiamo di più delle scelte e dei compromessi affrontati da uomini e donne in tempi difficili e non abbiamo più tanta fretta di giudicare chi si adatta a situazioni impossibili. Gli uomini possono fare la cosa giusta per molteplici motivi e con altrettanta facilità possono compiere azioni terribili con le migliori intenzioni – o senza alcuna intenzione.
Questo non significa che i flagelli che gli esseri umani si attirano addosso siano «naturali» o inevitabili. Ma individuare le responsabilità – e quindi prevenirli in futuro – può non essere un compito facile. Hannah Arendt ci ha presentato un’ulteriore complicazione: la nozione di «banalità del male» (una formulazione che Camus probabilmente avrebbe avuto premura di evitare), l’idea che crimini inenarrabili possano essere commessi da uomini qualunque con la coscienza pulita6.
Questi ora sono luoghi comuni nel dibattito morale e storico. Ma Albert Camus ci arrivò per primo, con le proprie parole e con un’originalità, in termini di visione e intuizione, quasi ineguagliata fra i suoi contemporanei. Questo è ciò che trovavano tanto sconcertante nei suoi scritti. Camus era un moralista che distingueva senza esitazione il bene dal male, ma si asteneva dal condannare la fragilità umana. Era uno studioso dell’«assurdo» che rifiutava di arrendersi all’inevitabilità7. Era un uomo d’azione pubblico e sosteneva che tutte le questioni davvero importanti si riducono a gesti individuali di bontà e onestà. E, come Tarrou, credeva nelle verità assolute accettando i limiti del possibile: «Saranno gli altri a fare la storia [...] Dico soltanto che sulla terra ci sono flagelli e vittime e che, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello».
La peste pertanto non dà lezioni. Camus era un moraliste, ma non era un moralizzatore. Affermava di essere stato molto attento a evitare di scrivere un «libello», e nella misura in cui il suo romanzo offre scarsa consolazione ai polemisti politici di qualsiasi scuola si può dire che ci sia riuscito. Ma, proprio per questo motivo, non solo è sopravvissuto alle sue origini quale allegoria della Francia occupata, ha anche trasceso la propria epoca. Ripensando ai tristi avvenimenti del ventesimo secolo, ora possiamo vedere più chiaramente che Albert Camus aveva individuato i dilemmi morali fondamentali dell’epoca. Come Hannah Arendt, si era reso conto che «il problema del male sarà la questione fondamentale della vita intellettuale europea nel dopoguerra, come la morte divenne il problema fondamentale dopo la prima guerra mondiale»8.
A distanza di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, in un’epoca post-totalitaria in cui siamo soddisfatti della nostra situazione e delle nostre prospettive, in cui gli intellettuali dichiarano la fine della Storia e i politici proclamano la globalizzazione quale palliativo universale, la frase conclusiva del grande romanzo di Camus suona più vera che mai, un campanello d’allarme nelle tenebre dell’autocompiacimento e dell’oblio:
il bacillo della peste non muore né scompare mai, [...] può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, [...] aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e [...] forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e per monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice.
* Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nel novembre 2001 sulla «New York Review of Books». [Tutte le citazioni da La peste sono tratte dall’edizione italiana Giunti-Bompiani, Milano 2017, trad. di Yasmina Melaouah.]
1 Julien Green, Journal, 20 febbraio 1948, citato in Olivier Todd, Albert Camus: Une Vie, Gallimard, Paris 1996, pp. 419-420 [trad. it. di Alessio Catania, Albert Camus. Una vita, Bompiani, Milano 1997, p. 404].
2 L’editore Jean Paulhan, in un incontro con Camus a Parigi nel gennaio 1943, notò come «soffrisse» per l’impossibilità di tornare ad Algeri, da «sua moglie e al suo clima». Jean Paulhan a Raymond Guérin, 6 gennaio 1943, in Paulhan, Choix de lettres, 1937-1945, Gallimard, Paris 1992, p. 298.
3 «Non sono un filosofo e non ho mai affermato di esserlo». In Entretien sur la révolte, «La Gazette des Lettres», 15 febbraio 1952.
4 Nel suo romanzo autobiografico postumo, Le Premier homme [Il primo uomo], Camus racconta del padre che torna a casa dopo avere assistito a una pubblica esecuzione e vomita.
5 Merita rilevare qui che fu a Le Chambon-sur-Lignon, lo stesso villaggio di montagna in cui Camus si trovava in convalescenza nel 1942-1943, che la comunità protestante locale si unì in sostegno del proprio pastore e salvò la vita a numerosi ebrei che si rifugiarono tra le cascine e le borgate isolate e inaccessibili. Questo insolito atto di coraggio collettivo, purtroppo raro in quegli anni, fa da contrappunto storico al racconto di Camus sulla scelta morale, e conferma le sue intuizioni a proposito della dignità umana. Si veda Philip P. Hallie, Lest Innocent Blood Be Shed: The Story of the Village of Le Chambon and How Goodness Happened There, Harper and Row, New York 1979 [trad. it. di Ernesto Hayassot, Il tuo fratello ebreo deve vivere. Un villaggio e il suo pastore non violento nella Resistenza, Claudiana, Torino 1983].
6 Si veda Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking, New York 1963 [trad. it. di Piero Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964]. Questo aspetto è ben illustrato nello studio di Christopher Browning delle stragi sul fronte orientale durante la seconda guerra mondiale: Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, Aaron Asher Books, New York 1992 [trad. it. di Laura Salvai, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Einaudi, Torino 1995].
7 In una delle prime recensioni (1938) della Nausea di Jean-Paul Sartre, scritta molto tempo prima che si conoscessero, Camus osservava: «L’errore di un certo tipo di scritti sta nella convinzione che, poiché è infelice, la vita sia tragica. [...] Annunciare l’assurdità dell’esistenza non può essere uno scopo, ma solo un punto di partenza». Si veda «Alger républicain», 20 ottobre 1938.
8 Hannah Arendt, Nightmare and Flight, «Partisan Review», vol. 12, n. 2 (1945), ristampato in Essays in Understanding, a cura di Jerome Kohn, Harcourt Brace, New York 1994, p. 133 [trad. it. di Paolo Costa, Incubo e fuga, in Archivio Arendt, vol. 1, 1930-1948, a cura di Simona Forti, Feltrinelli, Milano 2001, p. 168].