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NELLA TEMPESTA

Il molo è stranamente silenzioso e l’unico suono è lo sciabordio delle onde, mentre Juaquo porta la sua Impala al cancello. Più oltre, le barche ormeggiate ondeggiano dolcemente sull’acqua scura e fredda, e le banchine tra di esse si stagliano pallide e deserte nel bagliore delle luci di sicurezza. Juaquo mette il freno a mano e si gira a guardare Cameron.

«Lascia che te lo dica un’ultima volta. Sia messo agli atti che non so perché stiamo per fare una spedizione notturna in barca, invece di chiamare la polizia».

Cameron non risponde. È già fuori dall’auto, e si avvicina il più velocemente possibile al molo. Juaquo fa un sospiro e lo segue, mettendosi in tasca le chiavi e lanciandosi un’occhiata alle spalle, verso la macchina. L’elaborato dipinto sul cofano, una Vergine di Guadalupe circondata da rose grasse e rosa, vibra nel caldo bagliore alogeno del lampione e sembra vivo.

«Resta qui al sicuro» dice.

«Che cosa?» urla Cameron.

«Stavo parlando con la macchina».

Lo yacht club è chiuso dietro un robusto cancello di ferro, con un sistema di ingresso a tastiera: Juaquo non ha quasi il tempo di guardarlo prima che si sentano un clic e uno scricchiolio, mentre la serratura si disinnesta.

«Che strano…» comincia a dire, ma Cameron si affretta a entrare, senza dare spiegazioni. Le assi del pontile gemono sotto i loro piedi, mentre si fanno strada attraverso il labirinto di barche, con le ombre che gli si allungano davanti. Cameron continua a girare la testa da una parte e dall’altra, come se stesse cercando di catturare un profumo nell’aria, finché Juaquo gli dice: «Sembri uno scoiattolo agitato. Che stai facendo?»

Cameron mormora: «Cerco la barca».

«Uhm» dice Juaquo. «La tua barca non era a pezzi?»

«Non la mia barca» dice Cameron, e ne indica una. «Quella barca». Juaquo la guarda, e spalanca la bocca. Ormeggiata in un piccolo pertugio c’è un’elegante barca a motore nera, di quelle che un miliardario nerd compra perché sono la cosa più simile a una capsula spaziale terrestre. È una barca che vale molto di più della sua casa e della sua macchina messe insieme, di certo non un natante che la famiglia Ackerson potrebbe permettersi. Ma Cameron sta camminando con decisione verso di lei e mentre lo fa la nave prende vita: il motore borbotta, il pannello degli strumenti cinguetta e dall’interno proviene una vibrante luce viola.

«Lo so, mi hai detto che non c’era tempo per spiegarmi» dice Juaquo. «Però, fratello, questo almeno me lo devi dire. Mi hai detto che ti serviva un passaggio per andare allo yacht club, e va bene. Vuoi che esca nel cuore della notte per andare a fare la guerra al padre della tua ragazza: è un po’ strano, ma va bene! Ho accettato. Però c’è un limite a tutto, e questo limite è salire su una barca da un milione di dollari che non ti appartiene, sembra un’astronave e pare pure infestata».

Cameron sale sulla barca e si gira verso Juaquo, puntando un dito verso le sue lenti AR.

«Non è infestata. È una barca smart». Indica il pannello degli strumenti. «Accensione senza chiave, navigazione digitale». Juaquo resta immobile, e Cameron alza gli occhi al cielo. «Hai capito quello che ti ho detto? È una barca smart, e se è smart, può essere hackerata. Non c’è nessun fantasma, amico. Sono stato io a metterla in moto».

«Hai hackerato la barca».

«Sì. Ora ti decidi a salire?»

«Come hai fatto?»

«Non abbiamo tempo per…»

«EHI, AMICO!»

«Va bene!» urla Cameron. «Ti spiegherò tutto, ma mentre ci muoviamo. D’accordo? Questa cosa è urgente e io intendo partire adesso, con o senza di te. Vieni o no?»

Juaquo si acciglia e borbotta, ma slega la barca dal suo ormeggio e sale a bordo, prendendo posto ai comandi accanto a Cameron. Il rumore del motore impenna, passando da un borbottio a un rombo, mentre il profilo della città svanisce e l’immensa oscurità del lago si apre davanti a loro.

* * *

Dieci minuti dopo, Juaquo si siede pesantemente e si preme le mani contro le tempie. «È il superpotere più nerd di cui abbia mai sentito parlare in vita mia» dice, alzando la voce per farsi sentire sopra il rumore del vento e delle onde. La barca è un’isola solitaria nell’oscurità, i fari non illuminano altro che acqua agitata e senza confini, in ogni direzione. «Puoi hackerare roba con la mente? Com’è possibile?»

«Non lo so, so solo che succede. Posso collegarmi ai sistemi, leggere i file, eseguire i programmi, e persino ricodificarli dall’interno. È come fare conversazione, qualsiasi dispositivo che possegga una rete software…»

Juaquo scava nella tasca, e tira fuori il telefono. «Compreso questo?»

«Sì, compreso quello. Te l’ho detto, telefoni, computer portatili, sistemi di sicurezza, aspirapolvere robot…»

«Hai avuto una conversazione con un aspirapolvere?»

«Ti sto dicendo che se c’è un software con cui interfacciarsi, posso comunicare con lui» dice Cameron, esasperato. «Non è che faccio discorsetti cuore a cuore nella mia stanza con l’aspirapolvere, santo cielo. Ma posso riprogrammarlo, che ne so, fargli inseguire il gatto, o scrivere messaggi sul tappeto, eccetera. Non si tratta di stregoneria. Alcune di queste cose forse sarei stato in grado di farle anche prima, se avessi avuto un computer dannatamente potente e tempo illimitato per lavorarci su. Ma ora è, come dire, un fatto organico. E istantaneo. Non mi servono tempo né strumenti, succede e basta».

Juaquo inarca le sopracciglia. «Quindi prima eri un nerd normale, e ora sei potenziato. Sei un Super Nerd».

«Preferisco ‘cibercinetico’» dice Cameron, aggrottando le sopracciglia.

«Questo è esattamente ciò che un Super Nerd dir…» Le parole di Juaquo si perdono in uno stridio di allarmi acustici e un fascio di luce. I display della barca stanno andando in tilt, emettendo suoni e ronzii, mentre un confuso mare di numeri scorre e lampeggia sugli schermi. Juaquo li indica e urla: «Stai facendo tu questo?»

Cameron scuote la testa e guarda torvo verso prua. Le sue lenti AR, ricaricate da poco e sincronizzate con il suo vecchio sistema di navigazione, mostrano un calo brusco della pressione barometrica e lanciano un messaggio d’allarme: ATTIVITÀ ELETTRICA ANOMALA. L’aria intorno alla barca è umida e spessa e odora di ozono. Deglutisce per liberare le orecchie. Sente il terrore allargarsi come un serpente di ghiaccio nello stomaco, e quando guarda Juaquo vede la paura anche nei suoi occhi. Cameron stringe i denti e serra i pugni, preparandosi a quello che sta per accadere. «Ti conviene aggrapparti a qualcosa» dice, e il primo fulmine spacca in due il cielo.

* * *

Mentre la tempesta comincia a prendere corpo intorno a loro, Cameron si chiede per l’ennesima volta se Nia stia bene e perché abbia voluto spedirlo nel mezzo del lago Erie, e nel cuore della notte.

Poi il mondo si accende di elettricità e Cameron non si fa più alcuna domanda. La tempesta scoppia intorno a loro in un istante, un’enorme rete di fulmini incandescenti inghiotte il cielo, il lago, la barca. Come la prima volta, non c’è vento, eppure Cameron giurerebbe di sentire un inquietante ululato echeggiare sopra la sua testa, un suono a metà tra il pianto di una donna e l’urlo di un animale in gabbia. I lampi crepitano e sfrigolano da tutte le parti, e i bagliori accecanti arrivano così velocemente che non ha neanche il tempo di prendere il respiro tra l’uno e l’altro. Le onde esplodono verso l’alto, mentre i fulmini precipitano disegnando un arco fino all’acqua, bagnando la barca con spruzzi gelidi, spingendola bruscamente fuori rotta e costringendo Cameron a correggerla. Il faro si oscura in un flash, le luci viola della barca sfarfallano e poi si spengono a loro volta. Il sistema di navigazione adesso è inutile, ma il display della visiera si illumina ancora debolmente, dicendogli che sono sulla strada giusta. Cameron preme il viso contro il parabrezza, allungando il collo per guardare verso l’alto. Il cielo è denso di nubi vorticanti, illuminate all’interno dai lampi, che nascono in uno stesso punto di origine, forse l’occhio della tempesta. Al centro si scorge un piccolo cerchio di cielo stellato, e le nuvole vi turbinano furiosamente intorno.

«È assurdo!» grida Juaquo alle sue spalle. Si è accucciato a metà, aggrappandosi ai lati di un tavolo con dei portabicchieri allineati lungo i bordi. Ne ha già riempiti due di vomito, e ora tocca al terzo. «Non ce la faremo mai! Dobbiamo tornare indietro!»

Cameron scuote la testa, cercando di vedere tra gli spruzzi. Sono così vicini: lo sente. E lì, più avanti, non c’era qualcosa? Avrebbe giurato che per un momento…

«Amico!» urla di nuovo Juaquo. «Mi stai ascoltando? Cazzo, moriremo se restiamo qui…»

La sua voce rimbomba nel silenzio improvviso e vuoto.

La tempesta, il cielo, la luce abbagliante carica di elettricità, persino il lago agitato, tutto è sparito. Per un istante la barca taglia l’acqua nell’oscurità totale, morbida e spessa come il velluto.

Poi sobbalza, e Cameron e Juaquo finiscono a terra, mentre la barca raschia contro una spiaggia invisibile.

Gemendo, Juaquo si alza in piedi. Tira fuori il telefono dalla tasca: la torcia si accende, riflessa nel plexiglass che li circonda. «Che cosa…» comincia a dire, poi si blocca, disorientato. «Dove siamo? Cosa abbiamo colpito?»

«Non lo so» dice Cameron. Si dirige verso la prua stretta, permettendo ai suoi occhi di abituarsi all’oscurità. La visiera di navigazione lancia un ultimo messaggio, DESTINAZIONE RAGGIUNTA, e si spegne. «Ma ci siamo».

«Dove?»

«Dove dovevamo arrivare. Nia mi ha mandato le coordinate, e il posto è questo».

Cameron si arrampica sulla prua della barca, poi poggia il piede sul terreno che non vede ma del quale intuisce la presenza. Un attimo dopo, la punta della sua scarpa da ginnastica scricchiola contro una superficie liscia, dolcemente arrotondata. Un’isola artificiale? Di strano non c’è solo la levigatezza innaturale della riva, fatta di una sostanza scura che non è né terra né roccia, e dove nulla sembra crescere: sotto i piedi, Cameron sente la presenza della tecnologia. Risonante, ronzante e immensamente potente. La sua voce è come un mormorio nella testa, carico di seduzione.

Juaquo lo raggiunge con un balzo. «Cristo, è tutto buio. Che posto è mai questo?» Guarda dietro di sé, oltre il bordo della barca, e indica qualcosa. Lì, lontano, in quella che sembra la fine di un lungo tunnel, c’è il debole bagliore dei lampi. «Ecco da dove siamo entrati. Quindi la tua ragazza… vive qui? In un hangar galleggiante per aerei? Nel bel mezzo del lago Erie? Come mai non è stato segnalato dal radar? Com’è possibile che…»

«Glielo chiederemo quando la troveremo» dice Cameron. «C’è qualcosa qui. Lo sento».

Juaquo si sfiora la tempia con un dito. «Come la barca, intendi. Qualcosa di… smart?»

Cameron annuisce, ma non è esattamente ciò che pensa. La presenza che sente in quel posto non è solo smart.

È intelligente.

* * *

Fanno solo pochi passi nel buio, prima di vedere una piccola struttura a cupola che si erge dal terreno davanti a loro, con un’ombra al centro che si rivela essere una stretta porta d’ingresso. La torcia del telefono di Juaquo, riflessa appena dal pavimento sotto i loro piedi, illumina la cupola mentre entrano: pareti lisce, prive di finestre, un soffitto tondeggiante e il pavimento, tutti realizzati con lo stesso materiale dell’isola. Si china, premendo una mano contro il terreno: il suo dito traccia il contorno scuro di una linea di giuntura sotto i loro piedi. Una botola. Juaquo fa scorrere le dita lungo il bordo, fermandosi a metà strada e facendo leva su un manico che si solleva con un rumore appena accennato. Guarda Cameron, che annuisce. La botola si apre su cardini silenziosi, mostrando una scala fiocamente illuminata che scende a spirale verso una destinazione ignota. Una vaga luminosità emana direttamente dalle pareti, che non sono nere ma viola scuro, come la buccia di una melanzana.

«Ne sei sicuro?» chiede Juaquo.

Cameron stringe i denti. «Il posto è questo, e lei ha bisogno di me. Andiamo».

Scendono con cautela, senza far rumore, e i minuti scorrono mentre la botola svanisce nell’oscurità, da qualche parte sopra le loro teste. Cameron si prepara a ciò che potrebbe trovarsi di fronte, ma a ogni passo cresce la consapevolezza di non averne alcuna idea. Dopo aver rubato il motoscafo ed essersi diretto verso il centro del lago immaginava che lo scontro sarebbe stato come quello di un normale film d’azione. Che avrebbe trovato Nia intrappolata in una casa galleggiante, o qualcosa del genere, forse legata e imbavagliata ma più probabilmente rinchiusa nella sua camera da letto, e suo padre – che Cameron non aveva mai visto ma continuava a immaginare per qualche motivo con la faccia di Bruce Campbell in Ash vs Evil Dead, – che provava, fallendo, a impedire loro di liberarla. Nella sua fantasia più sfrenata, quella che ha liquidato come troppo bizzarra immediatamente dopo averla concepita, Bruce Campbell aveva in mano un fucile che Juaquo doveva prendergli.

Ora, Cameron è costretto ad ammettere che la realtà in cui è incappato è più assurda di qualunque altra cosa abbia mai immaginato, e in più non hanno ancora trovato Nia.

La voce di Juaquo interrompe le sue fantasticherie. «Ehi. Lo senti?»

«No» dice Cameron, ma appena pronuncia quella parola sente anche lui. È debole ma diventa sempre più forte, e Cameron incespica sulle scale, confuso. Juaquo gli si avvicina, afferrandogli un braccio, e lo spazio intorno si riempie improvvisamente di un familiare giro di basso.

«Viene da lì» dice Juaquo, indicando, e Cameron si accorge che la scala finisce proprio sotto di lui. Fanno gli ultimi passi uno accanto all’altro e si ritrovano su una piccola piattaforma, che si allunga in una passerella stretta, fiancheggiata su entrambi i lati da pareti lisce e illuminate fiocamente. In fondo c’è una porta socchiusa. La musica che proviene dall’altra parte è talmente forte che Cameron sente ogni battito come se provenisse dal suo petto. Attraversa la passerella, sbirciando oltre la ringhiera mentre la percorre, e la afferra con forza mentre viene investito da un’ondata di vertigini. La distanza sembra allungarsi all’infinito, curvando su entrambi i lati in un immenso nulla, ma Cameron riesce a sentire il mormorio delle voci del software interno. È dappertutto, ma il segnale più forte proviene proprio dalla zona di fronte a lui, filtrando attraverso la fessura della porta semiaperta. Cameron vi appoggia una mano, attraversandola, e poi si ferma di botto, tanto che Juaquo gli va a finire addosso. La musica martellante gli riempie le orecchie mentre sposta lo sguardo su un mare di persone esultanti che sventolano bastoncini luminosi viola, con gli occhi su un palco delimitato da due coppie di schermi. Un uomo in smoking bianco balla freneticamente al centro della scena, imitato da una dozzina di ballerini vestiti in modo identico, e tutto quello che riesce a fare Cameron è fissarli.

«Ehiiiiiii, sexy lady!» canta l’uomo sul palco, mentre la folla si contorce e urla davanti a lui, e Cameron sente qualcuno che gli afferra brutalmente una spalla.

«Sto avendo le allucinazioni?» urla Juaquo.

«No!» grida Cameron.

«In questo caso» urla ancora Juaquo, «da quand’è che il tipo di Gangnam Style è in tour nella nostra città?»

«Non è lui» grida Cameron, ma Juaquo sta puntando furiosamente verso il palco, usando i gesti per scandire ogni parola.

«Ma! Pare! Proprio! Di! Sì!»

«Io non…» Cameron comincia a rispondere, ma poi rinuncia, restando a fissarlo. Ha la pelle d’oca e per un momento dimentica tutto: la tempesta, il concerto, persino il motivo per cui sono arrivati fin lì, persino la stessa Nia. Al centro della folla urlante c’è un uomo che dà le spalle al palco e fissa Cameron tra i corpi che si spintonano, e Cameron ricambia il suo sguardo fisso, mentre gli si blocca il respiro. È un momento che ha immaginato infinite volte negli ultimi dieci anni, e che portava sempre con sé domande destabilizzanti. Cosa farei? Cosa dovrei dire? Mi riconoscerebbe? Lo riconoscerei?

Ma in quel momento ogni domanda svanisce.

Non ne esistono più, ci sono solo stupore e una valanga di emozioni.

Cameron fa un passo avanti, con gli occhi fissi su una faccia che ha visto solo in fotografia, e nei ricordi, per tanto tempo.

«Papà?» dice.

Riesce a malapena a sentire la propria voce con quella musica, ma non gli importa. Suo padre – è proprio suo padre, ha gli stessi capelli arruffati e la barba trasandata che Cameron gli tirava con le mani, da bambino – fa un passo verso di lui.

«Il mio ragazzo. Non dovresti essere qui. È troppo pericoloso, devi andare via! Ora!»

«Ma…»

Non riesce a finire la frase.

Sul palco, la canzone si conclude con un’esplosione di fuochi d’artificio. Cameron solleva d’istinto la mano per coprirsi gli occhi.

Quando torna ad aprirli, suo padre non c’è più.

«Papà!» urla, prendendo a correre, impacciato. La folla gli si para davanti mentre si guarda freneticamente in giro alla ricerca del volto familiare, dei capelli folti e neri, e poi accelera il passo non appena scorge William Ackerson davanti a sé, portato via da due uomini dall’aria incazzata che lo stringono e lo trascinano per le braccia. Lo stanno portando via! Lo perderò, pensa Cameron, cedendo al panico. Si mette alle calcagna degli uomini, scansando due persone, che con uno strillo si tolgono di mezzo. Emerge dalla folla appena in tempo per vedere suo padre che viene trascinato oltre un’altra porta.

«PAPÀ!» urla ancora una volta, scattando mentre Juaquo gli grida dietro di aspettarlo. Si getta attraverso l’uscio, incespicando e cadendo brutalmente sulle mani e sulle ginocchia, poi guarda in su con un gemito. Sotto le ginocchia c’è un tappeto logoro, e intorno a lui un lieve mormorio di voci. La luce del sole filtra brillando dolcemente attraverso una vetrata decorata, in alto sul muro, e sfiora le spalle di due angeli scolpiti che delimitano un lungo corridoio tra file di panche. Il pulsare della musica e il ruggito della folla sono spariti: quando guarda dietro di sé vede solo Juaquo davanti a una porta chiusa, che si guarda intorno confuso. Cameron si alza in piedi, cercando suo padre.

«Papà?» dice ancora, ma mentre poco prima la sua voce era soffocata dalla musica, ora viene fuori altissima. Le persone che mormorano, pregando con le mani giunte davanti alle teste chine o appoggiate in grembo, gli lanciano occhiate torve. Una vecchia con un elaborato cappello sussurra: «Shhhh».

Cameron la fissa. Come suo padre, anche lei ha un volto familiare, solo che questa volta non sa perché. Sa solo che guardarla lo terrorizza, e quando vede da vicino il suo cappello, il terrore si intensifica. Sta per succedere qualcosa di terribile. Lo sente, ma come fa a saperlo?

Questa volta è Juaquo a fornire la risposta.

«Oh mio Dio» dice a bassa voce. «Che cosa sta succedendo? Come siamo finiti qui?» Cameron si gira a guardarlo, e trova Juaquo a fissarlo con enormi occhi angosciati. «È quella chiesa. Quella del notiziario, quella in cui…»

Il video, pensa Cameron, e tutto torna. La stessa luce soffusa, gli stessi angeli scolpiti, sgranati e indistinti, ripresi dal cellulare di qualcuno. Il pop-pop-pop degli spari, le urla dei feriti. Una vecchia che giaceva distesa nel corridoio centrale, con il cappello sporco di sangue che le copriva il viso.

«Oh, merda» dice Cameron, e la vecchia gli lancia un’altra occhiataccia.

«Shhhh!» sibila.

È l’ultima cosa che dirà.

Dietro Cameron, la porta della chiesa si apre con un cigolio.

«Scappate!» urla alla gente sulle panche, che si gira verso di lui. La vecchia, il cui cappello sta per esplodere insieme a gran parte della sua testa, si alza con un indice sollevato, come se stesse per fargli una ramanzina.

L’uomo armato le spara prima che possa riuscirci. Cameron sente il proiettile fischiare dietro l’orecchio e vede la donna che viene sospinta all’indietro dal colpo, si accascia sulla panca davanti a sé e poi crolla a terra, nell’identica posizione in cui sarà immortalata quando la sua storia finirà in rete. Era la notizia di punta della settimana precedente. Il video era ovunque: Cameron l’ha persino condiviso tramite i suoi feed. Eppure lei sta morendo davanti ai suoi occhi, e lo sta facendo adesso, nella vita reale e in tempo reale. Come tutti gli altri. L’uomo con la maschera nera entra sparando, mentre la gente tra le panche urla e scappa. Si dirige verso la parte anteriore della chiesa, poi gira vorticosamente, sparando proiettili che scheggiano le panche di legno e fanno esplodere gli angeli in mille pezzi. Juaquo afferra il braccio di Cameron e lo fa abbassare, mentre corrono freneticamente lungo la navata laterale per poi nascondersi dietro un tavolo di legno pieno di candele accese. Cameron sa che non dovrebbe guardare, ma non riesce a farne a meno. L’uomo armato si trova proprio di fronte all’abside, e sorride mentre Cameron lo guarda da dietro una colonna. Inserisce un dito sotto il bordo della maschera, e a Cameron sfugge un gemito sommesso.

No. Non è lui. Tutto questo non è reale, pensa, anche se una parte assurdamente estranea del suo cervello gli suggerisce che invece è reale eccome, è proprio lì davanti a lui, può persino sentire il profumo intenso della cera che si mescola al forte odore di polvere da sparo.

La maschera scivola via.

Il padre di Cameron sorride, e negli occhi luccica un bagliore malato. «Non dovresti essere qui, figliolo» dice di nuovo, nello stesso tono che un tempo usava quando voleva rimproverare Cameron per aver giocato nel suo ufficio. «Questo non è un posto per bambini. Adesso papà ha delle cose importanti da fare, e non mi serve un socio in questo affare».

Cameron spalanca la bocca mentre suo padre solleva la pistola, puntandola verso di lui. Non è reale. Il dito di suo padre accarezza il grilletto. Non è reale!

La colonna esplode riducendosi in polvere, proprio sopra la sua testa.

«MUOVITI!» grida Juaquo, trascinando Cameron per il braccio, mentre gli spari scoppiano dietro di loro. Cameron si guarda alle spalle appena in tempo per vedere l’uomo armato rimettersi la maschera e sollevare la canna dell’arma verso la propria testa. In lontananza si sentono le sirene. Cameron allunga una mano alla cieca davanti a sé mentre esplode l’ultimo colpo, e trova la maniglia levigata del confessionale. La spalanca e i due corrono forsennatamente attraverso un’oscurità fitta e fetida, mentre la chiesa scompare dietro di loro. Cameron prende una storta sul terreno irregolare e inciampa su Juaquo, e i due finiscono insieme a terra con un tonfo sordo.

Juaquo emette un suono a metà tra una risata e un urlo, rotolando sulla schiena.

«Stiamo viaggiando nel tempo, no? Questa è l’unica spiegazione, giusto? Dimmi che è l’unica spiegazione. Dimmi che in questo momento siamo in una macchina del tempo. Quella sparatoria è avvenuta la settimana scorsa. E quel concerto, quel concerto non stava accadendo. Quel concerto si è tenuto tipo dieci anni fa! È così, vero? È l’unica spiegazione». Juaquo si blocca. «Cioè, non so cosa ci facesse tuo padre là. Questa cosa non l’ho ancora capita. Stiamo viaggiando nel tempo attraverso la tua mente? È una caratteristica dei tuoi poteri che hai dimenticato di menzionare? Perché se viaggiamo nel tempo, mi piacerebbe vedere i dinosauri. Possiamo farlo? Vediamo un dinosauro, poi salviamo la tua ragazza e ce ne andiamo».

Cameron fa una smorfia, rendendosi conto che il suo amico è in piena crisi isterica, ma si chiede anche se le sue domande siano poi così lontane dalla verità. È davvero un viaggio nel tempo? Sembra impossibile, eppure…potrebbe esserlo? Sono circondati dalla tecnologia, la più avanzata che abbia mai visto: gli ronza in testa senza soste, come una colonna sonora di sottofondo. Lui non ha cercato di interfacciarsi, ma è possibile che sia stata la tecnologia, invece, a interfacciarsi con lui?

Cameron chiude gli occhi, concentrandosi. Si sente vicinissimo a capire cosa sta succedendo, tuttavia la risposta è ancora fuori dalla sua portata: la sente ballare appena oltre il limite della coscienza, scaltra e dispettosa. È come se la sua mente stesse lavorando contro di lui, confondendogli i pensieri. Cerca di ripercorrere i momenti appena trascorsi e vede solo la faccia di suo padre.

Non dovresti essere qui. Questo gli aveva detto. Aveva ragione?

Per un momento, Cameron non riesce a ricordare il motivo per cui ha deciso di venire in quel posto.

Poi una luce accecante lo investe e il cervello si svuota.

Cameron si mette a sedere, e Juaquo scoppia in una grossa risata, mentre il paesaggio intorno a loro si illumina all’improvviso. L’aria si riempie del fruscio secco delle foglie di granoturco. Centinaia di migliaia di piante, estese in file ordinate verso l’orizzonte da un lato mentre si interrompono bruscamente dall’altro. Cameron intravede l’erba verde tagliata tra i gambi, una pista sterrata a forma di diamante. Juaquo fa un’ultima risatina isterica e dice: «Chiedo scusa, ma credo di aver ordinato Jurassic Park, non L’uomo dei sogni».

Cameron si alza in piedi e osserva, cercando di capire cosa sta vedendo, solo che non ne ha bisogno. Juaquo ha ragione. Il grano, l’erba, la terra: è un diamante, un campo da baseball. E quando vede l’uomo sul rialzo, con la sua divisa a righe che brilla sotto le luci e la S cucita sul petto, avanza come in un sogno. Solo che non è un sogno. Il mondo esterno, quello da cui è venuto, è il sogno, distante e insignificante. Questo, questo momento, è reale.

Il padre di Cameron ha in mano un guanto da baseball.

«Vuoi fare due lanci?» dice.

Cameron annuisce senza parlare e prende il guanto.

I due si lanciano la palla avanti e indietro sotto ai riflettori, non sa dire per quanto tempo. È solo vagamente consapevole della presenza di Juaquo, disteso sulla schiena nel campo a sinistra, che canta Back in Time di Huey Lewis and the News e ogni tanto fa una pausa a metà del ritornello per gridare: «Ciao, McFly!» a nessuno in particolare. A un certo punto, ha la prontezza di spirito di pensare che, quando torneranno a casa, dovrà occuparsi delle parcelle per le sedute di Juaquo dallo psicologo: forse potrà pagargli qualche seduta con la dottoressa Kapur. Ma… non c’era qualcosa che doveva ricordare, a proposito della dottoressa?

La palla finisce nel suo guanto, disperdendo il ricordo.

«È ora che tu vada, Cameron» dice suo padre. «Non dovresti essere qui. Torna a casa, da tua madre».

«Ma io non voglio andare. Non posso. Devo… devo prima…» Cameron si blocca. Sa che c’è una ragione per la quale è venuto qui, ma è come se qualcuno gliel’avesse nascosta, coprendo le sue motivazioni con uno spesso drappo nero. Non sa più perché è arrivato in questo posto. Non è nemmeno sicuro di dove sia, questo posto. Ha un lontano ricordo di una barca, di una tempesta… ma è accaduto oggi?

«Devi andartene, figlio mio» insiste William Ackerson.

«Se me ne vado vieni con me?» chiede Cameron.

«Temo che non sia possibile».

«Ma perché?» domanda Cameron. «Perché ci hai lasciati? Sei partito? Mamma ha detto che volevi farlo. Pensa che sei semplicemente andato via e ti sei rifatto una vita da qualche altra parte, ma poi alcuni hanno detto che eri morto, che frequentavi la gente sbagliata e qualcosa è andato storto».

«E tu, Cameron? Cos’hai pensato?»

«Non lo so. A un certo punto ho pensato che fossi morto, perché se così non fosse stato, saresti tornato. Ma adesso…» Esita, e quando la palla viene verso di lui, questa volta si accorge di lanciarla con forza di lato, ma forse se l’è immaginato, perché suo padre l’afferra facilmente. Si sente stordito, come se stesse correndo con il pilota automatico e il cervello che dorme dietro al volante. Il modo in cui la palla, una sfera bianca contro il cielo nero, vola avanti e indietro, avanti e indietro, lo incanta. Lo ipnotizza.

«Pensavi che fossi morto» dice suo padre. «Sei sicuro che non lo sia?»

Cameron ci pensa su. A differenza degli altri calcoli mentali che ha cercato di fare, i ricordi a cui tentava di accedere senza riuscirci, sembra che questa domanda sia qualcosa che il suo cervello desidera prendere in considerazione. Sembra l’unica cosa che conti. Ne è sicuro? No, non lo è. In effetti, il fatto che suo padre sia morto è una cosa sensata. Spiegherebbe tutto, compreso il motivo per cui si trova qui, in un campo da baseball come nell’Uomo dei sogni, con indosso la divisa dei Chicago White Sox del 1919. Sta giocando con il suo fantasma.

Per qualche motivo, non gli sembra così assurdo.

«Allora… questo è il paradiso?» sussurra.

Suo padre sorride. «No, è l’Iowa».

Cameron fa cadere la palla.

Suo padre perde ogni traccia di allegria: al sorriso subentra un’espressione accigliata, poi uno sguardo confuso, e infine interrogativo. Cameron sbatte le palpebre, mentre la nebbia scompare dal suo cervello, e il fumo dagli occhi.

«Non è quello che ho detto?» dice l’uomo, ma Cameron si limita a fissarlo, prima con sospetto, poi con orrore, mentre la faccia di suo padre comincia a tremare, trasformando il ghigno allegro in un angosciato cipiglio con una serie di spasmi troppo veloci per essere considerati umani.

«Non è, non è, non è quello che, quello che ho detto?» balbetta la cosa-padre, e Cameron avanza, deciso questa volta, concedendosi di concentrarsi per la prima volta sul profondo e complesso ronzio delle voci digitali che lo circondano. Sono dappertutto: sotto i suoi piedi, nell’aria, e anche nella sua testa. È stato manipolato. Sabotato.

Hackerato, pensa. Mi stanno HACKERANDO. Strisciano nella mia testa come un virus e mi mostrano solo quel che vogliono che io veda. E papà non può rispondere alle mie domande, perché…

Perché sto parlando con me stesso.

«Questa battuta è di Kevin Costner» dice Cameron, e stringe il pugno mentre si concentra su una cosa in particolare.

Suo padre si immobilizza mentre il volto perde di espressione. Solo che non è mio padre, pensa Cameron, e neanche il suo fantasma. Per un momento, il mondo intero sembra tacere.

* * *

Niente di tutto ciò è reale.

Ma qualcuno vuole farmelo credere.

La consapevolezza lo riempie di rabbia: contro suo padre, contro l’illusione, contro la forza invisibile che ha cercato di approfittare dei suoi ricordi dolorosi per manipolarlo. Tutto quello che ha visto stasera è stato estratto dalla sua testa. Le cose che ha visto di recente, e anche quelle cui ha cercato per tutta la vita di non pensare.

Cameron apre il pugno e la cosa-padre esplode in un tripudio di luce.

Può anche essere la tecnologia più avanzata che lui abbia mai visto, ma resta sempre e solo un mondo digitale come un altro, un programma per computer come un altro. Proprio come il robot di sicurezza della OPTIC, proprio come la barca che si accende senza chiave.

Se ha un software, posso hackerarlo.

Cameron batte le mani e il campo di grano esplode in una fiammata. Intorno a lui, il mondo sembra brillare.

«Ehi!» grida Juaquo, e Cameron si blocca. Aveva quasi dimenticato che era lì, ma Juaquo non sembra più dare di matto. Urla e corre verso il campo da baseball, indicando furiosamente il grano che brucia, e Cameron è solo leggermente sorpreso di vedere un’orda di orchi urlanti e con la bava alla bocca che si schiantano attraversando i gambi infuocati e la base di battuta.

Dopotutto, ha guardato Il Signore degli Anelli appena una settimana prima.

Muove la mano nell’aria, concentrandosi intensamente, e sorride mentre una pistola laser prende forma nel suo palmo, apparentemente dal nulla. Il sistema è adesso sotto il suo controllo come è sotto il controllo di chiunque lo abbia creato, e l’aria stessa sembra fatta di codici. Cameron punta l’arma contro l’esercito che avanza,
creando un sentiero attraverso il mare di creature, ridendo a crepapelle mentre i loro corpi si aprono in due. Una testa mozzata atterra ai suoi piedi, e Cameron la punta, ridendo ancora mentre quella esplode come un pomodoro troppo maturo lanciato contro un muro. E un muro c’è davvero, perché questo posto non è un campo di grano dello Iowa o altrove. È una stanza, e, sotto il viscido sangue nero della testa fracassata dell’orco, Cameron vede una porta che luccica, con l’uscio che diventa sempre più luminoso man mano che vi focalizza la sua energia.

«Juaquo!» urla, e gli indica la porta. Juaquo capisce al volo e corre ad aprirla. Mentre lo fa, ogni elemento della stanza, l’erba, la terra, gli orchi rimasti e i pezzi sparsi dei loro compagni, tremola e si sgretola: il programma è irrimediabilmente danneggiato. Per un istante non si muove nulla e nessuno parla. L’unico suono che Cameron riesce a sentire è il sangue che gli batte nelle orecchie, e oltre quello, il respiro affannoso di Juaquo.

A quel punto, l’amico sbircia dalla porta aperta e spalanca gli occhi.

«Cameron» dice. «Vieni qui. Ora».

«Che c’è?»

Juaquo scuote la testa, facendo una smorfia. «Mi hai preso in giro. Mi hai detto che avevi bisogno di muscoli, e pensavo che parlassi alla lettera. Non combatterò contro questo qui, amico».

Cameron sussulta. «Cosa? E perché no?»

«Perché se Barry il Suonato è il padre della tua ragazza, puoi metterlo ko pure da solo».