Capitolo quaranta
Solo una settimana prima, non avrebbe mai creduto che tornare in Fyfield Road, da Adam, avrebbe potuto terrorizzarla a tal punto. Non appena vide la casa però, la sensazione si fece più forte. Sapeva che c’era, gliel’aveva detto lui stesso, ma la casa era al buio. Se fosse dovuto uscire per qualsiasi motivo, pensò, le avrebbe scritto – “Vado a prendere il vino. Torno tra dieci minuti” – ma, quando controllò il telefono, non trovò alcun messaggio.
La luna si insinuò in uno spiraglio tra le nuvole e, per un momento, con un raggio illuminò gli occhi orbi della casa. Era ancora presto, non erano nemmeno le sette, ma tra la strada deserta e l’assenza di rumori prodotti dal genere umano sembrava di stare nel cuore della notte. L’unico movimento era quello del vento che agitava le foglie dei sempreverdi e scuoteva i rami sottili del salice con il capo chino sul vialetto.
Dopo un’occhiata dietro di sé, si avviò sulla ghiaia che scricchiolava sotto i suoi passi e salì i gradini fino alla porta d’ingresso. Il lampioncino era spento, quindi cercò a tastoni le chiavi nella borsa.
Aprire la porta fu più difficile del solito per via di una strana pressione, come se qualcuno la spingesse dall’altro lato. Quando si voltò per richiuderla, una folata di aria proveniente dall’interno della casa la fece sbattere. Nel silenzio, il rumore fu impetuoso.
Non se lo stava immaginando, pensò: c’era davvero corrente in casa. Doveva esserci una finestra aperta, ma dove? Non sulla parte anteriore, altrimenti l’avrebbe vista. Ma perché avrebbe dovuto aprire una finestra? Fuori si gelava.
Era successo qualcosa. Non appena lo pensò, ne fu sicura.
«C’è nessuno?».
Accese la luce e l’ingresso prese forma tutt’intorno a lei. Lo spiffero arrivava dal piano di sopra. Gridò di nuovo ai piedi delle scale, ma non ottenne risposta. La porta del soggiorno era aperta, lei accese la luce, andò velocemente al caminetto e prese l’attizzatoio.
Sul pianerottolo, la paura le attanagliava lo stomaco. L’aria fredda arrivava dall’ultimo piano. Dallo studio. Mentre saliva l’ultima rampa di scale, sentì il sangue pulsare nelle tempie.
Al chiaro di luna, vide gli schizzi gettati alla rinfusa sul tavolo da lavoro e per terra. Notando il lucernario aperto, con sotto la scala doppia, l’attizzatoio le cadde di mano con un gran clangore. C’era odore di sigaretta: era salito per fumare. Con mani tremanti, salì sulla scala.
Lui la aspettava in cima, gigantesco per la prospettiva, con le gambe ben divaricate. Il vento tentava di strappargli il foglio che aveva in mano, ma lei non aveva bisogno di guardarlo per sapere di che cosa si trattava. L’aveva perso per sempre; era palese, dal suo viso impenetrabile. Severo. Rancoroso.
Sferzato dal vento, il foglio si piegava e si accartocciava. Non c’era nulla che non avrebbe fatto, pensò furiosa, letteralmente nulla, pur di strapparglielo di mano e cancellarlo dalla sua memoria. Pur di tornare indietro anche solo di un giorno.
Dietro di lui c’era il bordo del tetto. Lei ne percepì il potere, il campo di forza che esercitava, lo strano miscuglio di attrazione e repulsione. Era così intenso, privo di protezioni – un volo di quattro piani, una morte quasi certa. Lui seguì il suo sguardo e si fece da parte.
«Fallo», disse.
«Adam, ti prego, lasciami…».
«Che cosa diavolo è questo?». Sollevò il disegno davanti a sé, come se fosse uno scudo.
Povera stupida, Rowan. Povera, povera stupida.
«Come… Come hai fatto a trovarlo?». Il vento distorse le sue parole, le attenuò fin quasi a farle scomparire, per poi farle riecheggiare.
«Come ho fatto a trovarlo? È questo che mi chiedi?».
La sua voce era tagliente. Il dolce Adam.
«L’avevo messo via. Io…».
«Con lo schizzo che ti ha fatto Cory. Ti ho sentita nello studio di mio padre ieri sera, Rowan. Ho sentito ogni passo su quelle assi del cazzo».
«Io… volevo proteggerti. Marianne non c’è più e volevo che ti ricordassi della persona che conoscevi, di quella Marianne, non di quella che…». Guardò il disegno di traverso, come se non sopportasse la sua vista.
Lui scoppiò in una risata amara. «Sei incredibile, davvero».
Lo fissò, stupita. «Che cosa vuoi dire?»
«Sei una combattente, Rowan. Una vera combattente. Non ti fermi mai. Come uno scarafaggio. Se venisse l’apocalisse, saresti l’unica sopravvissuta».
«Adam, lascia che…».
«Sul serio hai pensato», la interruppe, «anche solo per un secondo, che avrei creduto che mia sorella avesse fatto tutto questo?». Agitò il disegno davanti a lei, che frusciò come fiamme al vento. «Mia sorella».
«Ma l’ha fatto! Guarda, è tutto lì. Stai tenendo in mano la prova».
Lui lo sollevò e, con un movimento selvaggio, lo strappò a metà. Tra le urla di Rowan, ripeté più volte quel gesto, senza mai staccare gli occhi dal suo viso. Poi alzò le mani sopra la testa e lasciò andare tutti i frammenti di carta, che crearono un turbine intorno a loro, una tempesta di macabri coriandoli.
«Mia sorella avrà anche fatto il disegno», ribatté lui, «avrà fantasticato sulla morte di Lorna – persino io l’ho immaginata, Dio mio – ma lei non avrebbe mai e poi mai fatto nulla perché accadesse. Pensi sia possibile conoscere una persona come io conoscevo lei, Marianne, mia sorella, la mia famiglia, e non saperlo?»
«Ti prego, Adam…».
«Sei stata tu, vero? Per tutto questo tempo. Hai ucciso tu Lorna. Tu, non mia sorella. E anche Cory. Questo pomeriggio hanno ritrovato la sua auto in Meadow Lane, proprio dove era ormeggiata la barca di Lorna. Vorresti farmi credere che è una coincidenza?»
«No», disse lei. «No. Non sono stata io a…».
«Oh, ma per favore! C’è qualcosa di vero in tutto quello che mi hai detto? Una sola cosa».
Un gran dolore. Rowan si sforzò di tenere a bada l’angoscia che le bruciava nel petto, l’impulso di gettarsi ai suoi piedi e implorarlo. «Te l’ho detto», esordì, «che volevo rivederti. La tua famiglia, tutti voi… Voglio bene a tutti, ve ne ho sempre voluto. Farei qualsiasi cosa per voi».
«Oh, adesso lo so». Quanta amarezza nel suo tono.
«Ma tu, soprattutto tu, Adam. Ti prego, credimi. Ti prego, dammi una possibilità».
La luna sbucò da dietro una nuvola e lo colpì con la sua fredda luce bianca. Rowan lo fissò negli occhi che erano stati anche di Marianne. Aveva voluto così tanto bene a entrambi.
Fece un passo verso di lui e, pensando che volesse abbracciarlo, sul suo viso comparve un’espressione di orrore. No, non orrore: repulsione.
Repulsione.
Provò una potente esplosione di rabbia come mai prima. Essere rifiutata di nuovo, respinta una seconda volta dalle persone che amava di più: era troppo. Gli si avventò contro. Adam incespicò, per poco non perse l’equilibrio e, dietro di lui, Rowan vide il giardino. Lui la afferrò per un braccio, glielo torse facendola urlare, ma il dolore la rese più forte e lei lo respinse con tutte le sue forze, sentì i suoi piedi strisciare sull’asfalto. Avanti. Chiamò a raccolta tutte le energie, si liberò dalla presa, fece un passo indietro e si lanciò di nuovo contro di lui, con la testa all’altezza del suo petto.
Adam si spostò appena in tempo; mezzo secondo dopo e sarebbe stato troppo tardi. Ma lei aveva preso troppo slancio e non riuscì a fermarsi. Lui fece per afferrarla, cercò di prenderla. Rowan sentì le sue dita aggrapparsi al tessuto della manica.
Per un attimo, si sentì galleggiare, leggerissima. La vista del giardino le tolse il fiato. I rododendri, le betulle, le rose, il prato: tutto illuminato d’argento, come la promessa di un altro mondo. Era di nuovo a letto sveglia con Marianne, con la luna che filtrava dalle tende aperte, e stavano chiacchierando.