Capitolo ventuno
Quando si svegliò di nuovo, era molto più tardi e qualcuno suonava il campanello. Per uno o due secondi, ancora ubriaca dalla sera prima, pensò fosse un sogno o un déjà-vu particolarmente vivido, ma poi Adam si stiracchiò e subito le tornò in mente la notte appena trascorsa. Lui aprì gli occhi e sorrise. «Chi è? Aspetti qualcuno?».
Le balenò in mente l’immagine di Michael Cory, con un caffè in mano. Merda. La sera prima non era riuscita a capire se Adam sapesse del ritratto: quando ci aveva pensato, aveva già bevuto troppo. Mentre si infilava in fretta e furia i jeans e recuperava la camicetta dal pavimento, si sforzò di riflettere. Adam doveva sapere che Marianne conosceva Cory, visto che era venuto al funerale, ma avrebbe parlato di un ritratto se l’avesse saputo, considerando come la pensava sulle ragazze anoressiche di Marianne. Considerando la reputazione di Cory. E a ogni modo, disse una vocina secca, che lo sapesse o no, non gli sarebbe parso strano che lei non l’avesse informato che Cory frequentava casa loro?
«Saranno dei testimoni di Geova», disse. «Che carini a venire il sabato mattina presto».
«Non è così presto, sono le undici».
«Davvero?». Lanciò un’occhiata all’orologio. «Vado a vedere, poi ti porto il caffè. Resta a letto».
Le dimensioni della sagoma sul gradino non placarono le sue paure ma, quando aprì la porta, appoggiato al muro del patio non c’era Cory, ma Peter Turk. Subito le guardò la camicetta di seta. «Hai avuto una seratona? Ti donano i capelli scompigliati».
Sollevata, resistette all’impulso di dirgli che a lui donava l’aria da rockstar invecchiata. L’outfit del giorno – giacca di pelle nera, jeans neri aderenti e una maglietta grigia strappata con la stampa sbiadita di una donna nuda – era così perfetto che avrebbe potuto andare in tour da solo. L’unica cosa che stonava con la classica dissolutezza rock era lo zaino azzurro JanSport ai suoi piedi, in apparenza nuovo, tipico dei secchioni.
«Su, sputa il rospo: chi è lo stronzo fortunato stavolta?», le chiese, poi entrò e si richiuse la porta alle spalle.
«Nessuno, temo. Mi dispiace deluderti, però ammetto che ho i postumi di una sbronza».
«Quello l’avevo già capito da solo. Hai del caffè?»
«Se lo fai tu».
Si sedette sul divano di Jacqueline e bevve mezzo litro d’acqua mentre Turk si spostava per la cucina con una certa familiarità, aprendo i pensili e prendendo il sacchetto di chicchi di caffè senza esitazione. Pensò a Adam a letto al piano di sopra e sperò che non avesse sentito il loro scambio di battute. Chissà se sarebbe riuscita a tenerlo lassù fin quando Turk se ne fosse andato. Peter aveva un fiuto di prim’ordine per i pettegolezzi. Ma non c’era nulla di incriminante nella presenza di Adam, no? Per l’amor del cielo, quella era casa sua, era ovvio che dormisse lì, e poi loro due erano vecchi amici quindi perché non potevano uscire a bere qualcosa? Si era decisa a dirlo a Turk quando fu preceduta da un rumore al piano di sopra. Lui si voltò per guardala, con le sopracciglia inarcate quasi fino all’attaccatura dei capelli.
«Adam», disse lei.
«Non ci credo». Spalancò gli occhi. «Non l’hai fatto, vero?»
«No, non l’ho fatto. Piantala. Comportati bene». Lo fulminò con lo sguardo e, proprio in quell’istante, si udirono dei passi sulle scale della cucina.
«Pete. Mi sembrava di aver sentito la tua voce. Come stai?».
Adam era molto più pimpante di lei. Aveva lasciato la camicia del giorno prima spiegazzata sul pavimento e si era messo solo il maglione e i jeans, un look plausibile per un sabato mattina. Lui e Turk si scambiarono un abbraccio virile, con una stretta alle spalle seguita da una pacca rassicurante sulla schiena.
«Tutto ok», rispose Turk. «Ma nel profondo non riesco ancora a crederci».
«Lo so. Soprattutto qui».
Turk annuì, cupo. «Rowan ha detto che metterete in vendita la casa».
Sedendosi al posto della madre a capotavola, Adam le lanciò un’occhiata, sorpreso.
«Gli ho detto che sarebbe venuto un agente di Savills», spiegò lei.
«Ci stiamo pensando», ammise Adam. «La mamma non riesce più nemmeno a venire qui. Che cosa ci fai a Oxford?»
«Sono venuto solo per oggi per trovare mia madre, ha diverse cose da riparare e le ho detto che ci avrei pensato io, così non deve cercare nessuno». Rowan si era scordata quel lato di Turk, sorprendentemente abile nell’aggiustare oggetti. Quando alla festa Dan Whyte aveva staccato dalla parete il lavabo del piano di sotto, era stato Turk a sistemare il rubinetto e dare la malta prima che Jacqueline e Seb tornassero da Barcellona.
Portò la caffettiera in tavola. Davanti alle tre tazze, Rowan, assonnata e ancora piena di alcol, sentì una risata sulla punta della lingua. Era troppo, troppo strano starsene là seduta con i vestiti della sera precedente a conversare amabilmente quando, appena poche ore prima, i fianchi di Adam l’avevano schiacciata contro il letto. Con le narici gonfie per lo sforzo di restare seria, vide Turk strizzare gli occhi: Che cosa combini?
Per fortuna, Adam non se ne accorse. Si versò del caffè e ne bevve un sorso bollente. «Che cosa stai facendo ultimamente, Pete? Per il lavoro, intendo».
«In realtà, sto lavorando a una sceneggiatura. Ho incontrato un tizio che fa il produttore e la storia gli piace un sacco, quindi…». Inclinò la testa da un lato all’altro.
«Buon per te. Di che si tratta?»
«Di un thriller. Parla di un tipo che viene avvicinato da un uomo che insiste di essere suo fratello anche se la madre è morta anni prima rispetto a quando è nato. È una storia dark. Anzi, gotica».
«Magari l’abbiamo sentito nominare, il produttore?», s’informò Rowan. «Che altro ha fatto?»
«Be’, ancora niente. Ha appena avviato la sua società. Però mi piace e ha un amico che gestisce un fondo speculativo e vuole lanciarsi nella produzione cinematografica, quindi diciamo che aggiustiamo il tiro a mano a mano che andiamo avanti…». Lasciò la frase in sospeso.
«Scrivi ancora musica?». Adam bevve un altro sorso di caffè.
«Ogni tanto. Una specie. L’anno scorso ho fatto due jingle per delle pubblicità in radio». Turk abbassò lo sguardo e si rigirò la tazza tra le mani, come se non ne avesse mai visto una prima. «Non so», proseguì. «Mi sento un po’… forse esaurito è la parola migliore per descriverlo. Comunque, come ti trovi a essere tornato? Ti mancherà il clima della California. A Cambridge si gela d’inverno, con il vento che arriva dagli Urali».
Adam raccontò a Turk una versione condensata di quanto aveva detto a Rowan a cena e poi, d’un tratto, mise giù la tazza. «Bene», concluse, alzandosi. «Mi dispiace dover scappare ma devo essere a Londra per le due, per incontrare un vecchio amico. No, non alzarti, Pete». Lo fece sedere di nuovo. «Vado a prendere le mie cose e vado. È stato un piacere vederti». Gli mise una mano sulla spalla e poi fece il giro del tavolo. Rowan si alzò, convinta di accompagnarlo alla porta, ma lui scosse la testa.
«Ti si fredda il caffè. Esco da solo. Grazie ancora per tutto… per occuparti della casa». Le sfiorò la spalla, ma la guardò negli occhi solo per un secondo prima di distogliere lo sguardo. «Ti chiamo io», le disse.
Per tenersi occupato, Turk si riempì di nuovo a metà la tazza di caffè e aspettò di sentire i passi di Adam nel corridoio sopra le loro teste prima di allungarsi sul tavolo. «Sei sicura di non avere niente sulla coscienza? Avete i postumi di una sbronza coi fiocchi, voi due. Su, non fare la timida, puoi raccontare tutto allo zio Pete».
Da come la guardava, era ovvio che avesse notato il suo viso in fiamme. Per lo shock però, non per l’imbarazzo. Come poteva Adam comportarsi così dopo la notte appena passata, alzarsi e andarsene senza dire una parola?
«Siamo andati a cena», spiegò, «e ci siamo scolati due bottiglie di vino dopo un paio di gin tonic a testa. Nulla di più scabroso, temo, a meno che non conti che mi sono addormentata vestita».
«Mmm».
La porta d’ingresso si richiuse e sentirono il passo strascicato di Adam sui gradini e poi sul vialetto. D’un tratto a Rowan tornò in mente la notte prima ancora, il rumore dei passi affrettati.
«Lo sa?», s’informò Turk.
«Che cosa?»
«Adam, di Cory. Del ritratto».
«No. Almeno, non credo. Non ne ha parlato».
«E tu?».
Scosse la testa e la stanza prese a ondeggiare, facendole venire la nausea. «Volevo farlo oggi, prima che se ne andasse. Non mi sembrava il momento giusto, ieri sera. Avevamo bevuto troppo».
«Che cos’ha detto Cory, quando è venuto qui? Non me l’hai raccontato al telefono».
Rowan sperava che i suoi occhi non tradissero i rapidi calcoli che stava facendo nella mente. Quanto poteva rivelargli? «Non molto», rispose. «Mi ha detto che passava tanto tempo qui, a conoscere Marianne e disegnare».
«Pensi che ci fosse qualcosa tra loro? Una storia?»
«No, Pete, non credo. Sul serio. Piantala di tormentarti, per favore». Chissà perché quell’idea gli dava tanto fastidio. Lui non aveva comunque nessuna possibilità con Marianne; lei era stata chiara anni prima. «E poi me l’hai detto tu stesso che era felice con Greenwood».
«Lo so. Lo so. È solo che mi è rimasto sul gozzo il pensiero che quel… che quel verme viscido e opportunista venisse qui, per cercare di smascherarla».
«Che cosa c’era da smascherare?». Lo guardò fissa.
Si strinse nelle spalle. «Niente. Cioè, niente di particolare, niente che non sapessimo già tutti, famigliari e amici. È solo che… lei era fragile, dopo l’esaurimento e quello che aveva fatto Seb e Cory è… è un predatore. Basta guardare i suoi precedenti. Lui l’avrebbe sfruttato, il passato di Marianne. Non avrebbe avuto la minima esitazione».
«Pete, Mazz ti ha mai parlato della morte?»
«Che cosa?»
«Quello che ho detto. Ti ha mai parlato della morte?».
Tenne gli occhi incollati al suo viso. «Che cosa stai dicendo? Che ne ha parlato con lui? Con Cory?». In un baleno, il tono della sua voce si fece più acuto. «Cazzo, Rowan. Gli ha parlato di suicidarsi? Lui sapeva che voleva…».
«No. No. Non è quello che mi ha detto. Ha detto soltanto che lei tornava spesso a quell’argomento. Penso fosse per via delle ragazze anoressiche, che l’hanno spinta a riflettere…».
«Se lui lo sapeva… se l’ha spinta, se le ha messo lui quel tarlo…». Turk si alzò, facendo stridere le gambe della sedia sul pavimento.
«Piantala!», sbottò Rowan a voce più alta di quanto volesse. «Piantala, Pete», ripeté, in tono più controllato. Lui emanava rabbia, come il calore che sale dall’asfalto. «Su, siediti».
Con il fiato corto, la fulminò con lo sguardo per diversi secondi prima di cedere e tornare a sedersi.
«Gliel’ho chiesto nello specifico», spiegò lei non appena Turk si sedette. «Gli ho chiesto spiegazioni. Ovviamente, sapeva dell’esaurimento nervoso: se anche non glielo avesse detto lei, come è stato, per la cronaca, era comunque uscito su tutti i giornali. Gli ho chiesto se gli fosse sembrata incline al suicidio e lui ha risposto di no».
Turk rifletté un momento. «E ha detto la verità? Gli hai creduto?»
«Sì».
«Perché se…».
Rowan alzò una mano. «Mi ha raccontato di Greta Mulraine», lo interruppe. «In tutta franchezza, di sua spontanea volontà». Vide un lampo di sorpresa sul viso di Turk. «Ha detto che sapeva com’è una persona che pensa al suicidio. Anzi, mi ha chiesto se pensassi che lui fosse il tipo che potrebbe fare una cosa simile, starsene con le mani in mano sapendo che qualcuno è disperato. Mi ha chiesto se pensassi che fosse un mostro».
«E lo pensi?».
Fece una pausa. «No», rispose. «Non di quel genere».
«Da cosa si era travestita Marianne?»
«Che cosa?»
«Per la festa, quando ha preso in prestito i gemelli».
«Oh, giusto». Turk annuì. «Da Al Capone. Il tema era bulli e pupe».
Rowan ricordò Marianne davanti al lungo specchio in camera dei genitori che infilava a forza una spilla da balia in un collare per cani di cartone.
Non ho intenzione di vestirmi da spogliarellista solo perché Martin ha deciso che dev’essere una festa in maschera. Lucciole e preti? E cos’è lui, uno scambista di mezza età?
«Brava la mia ragazza», disse Rowan. Prese le tazze e le mise nel lavello. «Li ho cercati ieri. Non so se usasse un portagioie, una volta non lo aveva, ma non ho trovato gemelli sul comò, che mi è sembrato il posto più ovvio. E neanche sul comodino, però il primo cassetto è pieno di cianfrusaglie. Magari sono finiti tra quelli di Seb. Le sue cose ci sono ancora, nella loro vecchia stanza».
«Ok. Grazie per averci provato. Va bene se faccio un salto di sopra e do un’occhiata veloce?»
«Certo». Aprì il rubinetto e gli lanciò un’occhiata fugace oltre la spalla. «Tu almeno sai cosa cercare».
Mentre lavava la caffettiera e la metteva sullo scolapiatti ad asciugare, rifletté. Con quel rapido sguardo, aveva visto qualcosa di strano, ma non capiva di preciso che cosa. Esaurito il gorgoglio dell’acqua risucchiata dallo scarico, rimase lì in piedi, con le mani poggiate sul bordo del lavello per ascoltare i movimenti sopra la sua testa. Nulla; silenzio.
Uscì piano dalla cucina e salì nell’ingresso. Si bloccò ai piedi delle scale, attenta a restare nascosta dal pianerottolo, e rimase in ascolto, ma non sentì il rumore di cassetti aperti né di passi che facevano scricchiolare le assi del pavimento.
Lui aveva portato con sé lo zaino; ecco che cosa l’aveva colpita. Quando era arrivato, non l’aveva lasciato sotto l’appendiabiti, come facevano sempre al ritorno da scuola. L’aveva portato con sé in cucina e l’aveva appoggiato ai suoi piedi e, nei pochi secondi in cui lei si era voltata per sparecchiare le tazze, lui l’aveva raccolto da terra e se l’era messo in spalla.
Facendo il minor rumore possibile, salì le scale. Già dall’ingresso aveva visto la porta della camera di Seb e Jacqueline chiusa. Percorse il corridoio fino a quella di Marianne e assunse un’espressione benevola ma, quando allungò la testa oltre la porta, i suoi sospetti trovarono conferma: nella stanza non c’era nessuno. Si voltò per andarsene e sentì un cigolio sopra la testa.
Uno dopo l’altro, i pezzi andarono al loro posto ma, arrivata in cima alle scale, rimase comunque scioccata dalla scena che si trovò davanti.
Turk era inginocchiato davanti al tavolo da lavoro, aveva tirato fuori uno dei cesti di Marianne e tolto il coperchio; sparsi a terra intorno a lui, c’erano cinque o sei schizzi su fogli A4. Lo zaino di tela era aperto e, lì accanto, giaceva il suo contenuto: una cartelletta portadisegni a sua volta aperta. Conteneva un fascio di fogli, quello in cima era uno schizzo a carboncino di due mani giunte.
«Ecco come mai la polizia non ha trovato segni di effrazione».
Turk non l’aveva sentita arrivare. Si voltò di scatto, con gli occhi sgranati per lo shock.
«Non è furto con scasso se il proprietario ti invita a entrare, giusto?».
Lui si alzò in fretta e furia. Sotto il soffitto relativamente basso dello studio, pareva ancora più alto e, vedendoselo venire incontro, per un attimo Rowan ebbe paura. Era forte. Molto più di lei.
«Me li avrebbe dati se glieli avessi chiesti. Non fare come se li stessi rubando».
Rowan rifletté. Era vero, Marianne regalava degli schizzi agli amici; mentre parlavano, i suoi stavano nell’armadio al piano di sotto. «E allora perché non glieli hai chiesti?», s’informò. «Perché non li hai chiesti a Adam un attimo fa? E perché cavolo hai lasciato che Mazz pensasse che qualcuno si introducesse in casa sua?».
In quel momento però, come le tessere di un puzzle che si incastrano tra loro, collegò tutto: l’“amico di un amico” con i ceci al curry; la cucina da ristrutturare; i jingle per la radio; il copione che non sarebbe andato da nessuna parte. E i prezzi elevati dei lavori di Marianne. «Oh», commentò. «Li vendi».
Turk scoppiò a ridere come se fosse la cosa più ridicola che avesse mai sentito, ma in quella risata c’era qualcosa che non andava. Era di una falsità lampante e, di punto in bianco, Rowan provò pena per lui.
«Dove sono finiti tutti i tuoi soldi, Pete?», gli chiese, in tono più gentile. «Quelli di Bugiardi innamorati? Avevi fatto una fortuna, no? Il contratto, i diritti d’autore…».
«È stato un secolo fa», sbottò lui. «Anni e anni fa. Dividili, fai la media per tutti questi anni e avrei guadagnato di più a friggere patatine da McDonald’s».
«Non sarebbe stato meglio che rubare a un’amica?».
Ora la sua risata si fece amara. «Tu vuoi fare a me la predica sul prendere qualcosa a Mazz? Sul serio?». Rise di nuovo e, questa volta, parve davvero divertito.
«Di che cosa stai parlando?», gli chiese.
«Dai, Ro, credi davvero che esista una sanguisuga peggiore di te? Venire qui come se fossi uscita da Oliver Twist, la povera bambina con il papà che la lascia a casa da sola perché non le vuole bene, grata per ogni patetica briciola di attenzione caduta dal tavolo dei Glass».
Fu come se le avesse dato un pugno nello stomaco. Era crudele, molto crudele, ma vero. Aveva cercato di non esserlo, o almeno di non darlo a vedere, però ogni tanto si era davvero sentita grata.
«Mazz era così contenta quando alla fine hai recepito il messaggio e ti sei tolta dalle palle», aggiunse lui. «Era sollevata».
Un altro pugno. «Te l’ha detto lei?»
«Non ce n’era bisogno. Ti ricordi quel pomeriggio? Non vedeva l’ora di sbarazzarsi di te».
Con suo estremo orrore, Rowan sentì un groppo in gola. Non piangere. Non permetterti di piangere, Rowan, che cavolo. Non era vero; sapeva che non lo era. Pete non conosceva tutta la storia: era ovvio che Marianne non gliel’avesse mai raccontata. Quel pensiero le diede forza, come una scarica di energia.
«E adesso che piani hai?», insistette Turk. «Vuoi mettere le grinfie su Adam? Scusa se ho rovinato tutto stamattina, ma se fossi in te non mi preoccuperei troppo. Sono sicuro che sfrutterai la tua astuzia per trovare un modo di circuirlo e averlo in pugno. Povero stronzo. Dovrei metterlo in guardia».
Non reagire, si ammonì. Non fargli capire che ti sta innervosendo.
«Forse dovrei metterlo in contatto con Josh».
«Che cosa?»
«Te lo ricordi? Gli piacevi sul serio, Rowan, penso che ti amasse, e invece tu l’hai mollato senza una parola, sei andata avanti come se fosse stata solo una cosa di una notte. Mi ha detto che hai cercato di parlargli al funerale, come se niente fosse».
«È stato anni fa, per l’amor del cielo. Eravamo ragazzini». Resta calma, non farti distrarre. «A chi li vendi?», chiese. «Ovviamente Greenwood non ne sa nulla».
Turk alzò gli occhi al cielo, come se fosse lei a meritarsi il suo disprezzo. Si voltò, si accovacciò e raccolse gli schizzi sparsi sul pavimento. Rowan vide un braccio, una nuca sotto uno chignon basso, la sagoma a carboncino di una delle ragazze dei primi quadri, con ancora abbastanza carne attaccata alle ossa da attirare un acquirente amante di un corpo femminile desiderabile. Sotto lo sguardo di Rowan, li infilò nella cartelletta e la chiuse.
«La minacciavi, Peter?», gli chiese.
«Che cosa?». Alzò lo sguardo dallo zaino in cui stava infilando la cartelletta.
«Minacciavi Marianne? La spaventavi?».
Infuriato, lui chiuse la cerniera e si sistemò lo zaino in spalla. Le passò accanto diretto alle scale, creando uno spostamento d’aria. «Sai che cosa penso?», le disse. «Penso che tu sia una pazza del cazzo».
Rowan sedeva al buio. Se ne stava così da ore. Aveva visto gli ultimi raggi di luce scivolare sul pavimento come l’orlo di un abito da sposa. Sul bracciolo del divano, il cellulare si mise a squillare, interrompendo il silenzio, ma il numero sullo schermo era di nuovo quello di Cory. Lo lasciò suonare.
Si era sentita esattamente così anni prima, quando aveva lasciato Fyfield Road per l’ultima volta. Vulnerabile come un paguro strappato dalla conchiglia che occupava, con la carne tenera in bella vista per i predatori che si spostavano come nuvole nell’acqua sovrastante. Le pareva di essere stata presa a calci al cuore.
Le campane di St Giles suonarono le dieci e la caldaia si spense con un clic. Perché Adam se n’era andato così all’improvviso? Perché non l’aveva chiamata? Se fossero stati due estranei che si erano conosciuti in un bar, avrebbe capito, ma considerando il loro passato e come stavano le cose, non aveva senso.
Ti chiamo io. Quando? Più tardi, una volta che Turk se ne fosse andato? Oppure era solo una frase fatta, un modo per andarsene senza problemi? Provò disgusto per sé stessa. Chi era adesso a comportarsi come una ragazzina, a esaminare ogni sua parola in cerca di un indizio che lei gli piacesse davvero? Almeno, ogni parola che si ricordava, considerando la sua mente annebbiata dall’alcol. Era stato quello per lui, una scopata favorita dall’alcol? Forse, ed era l’interpretazione più gentile, aveva semplicemente cercato un po’ di conforto con qualcuno che aveva voluto bene a Marianne come lui. No, invece: non aveva forse detto che Mazz sapeva che il bacio di tutti quegli anni prima significava qualcosa per lui? Non aveva detto che avrebbe associato per sempre quella notte alla morte della sorella? Oh, per l’amor del cielo, Rowan, smettila.
Un pensiero più cupo: e se Turk aveva messo in pratica la sua minaccia e l’aveva chiamato? Magari aveva davvero messo in guardia Adam. Ma che cosa poteva avergli detto? Che lei aveva sempre voluto bene ai Glass e che era grata del loro affetto? Adam lo sapeva già. E sapeva chi era stato a dettare le regole la notte passata. Lei non aveva avuto la minima intenzione di “mettere le grinfie” su di lui.
Non vedeva l’ora di sbarazzarsi di te. L’espressione sul viso di Turk quando gliel’aveva detto: una sanguisuga. Era davvero così che la vedeva, come una disgustosa creatura informe che si attaccava agli altri e li prosciugava? No, non era vero; era impossibile. Turk era sulla difensiva, l’aveva attaccata. I Glass si erano affezionati a lei; gliel’avevano detto, gliel’avevano dimostrato. Le avevano dato tanto, su quello non si poteva discutere, ma non era sempre stato un rapporto a senso unico.
Alle undici meno un quarto, squillò il telefono di casa. Adam aveva chiamato su quello quando l’aveva invitata a cena; si alzò di scatto e corse di sopra.
«Dov’era? È tutto il giorno che la chiamo sul cellulare».
Cory.
«L’ho dimenticato da un amico ieri sera».
«Non riuscivo a rintracciarla. Per pura fortuna mi sono ricordato che una volta Marianne mi aveva chiamato da questo numero perché aveva lasciato il telefono su un taxi. Ho dovuto risalire nella cronologia delle chiamate e…».
«Che c’è?», lo interruppe. «È tardi e stavo andando a letto».
«Ho un’idea. Al momento, non ne sono sicuro, è solo un…».
«Che cosa?», tagliò corto lei.
«Marianne mi aveva detto che il padre aveva delle storie. Lei lo sapeva, giusto?».
Rowan sentì una mano gelida insinuarsi tra le sue costole e agguantarle il cuore.
«E se non fosse stato un incidente?», disse lui. «La morte di cui parlava Marianne. Ho pensato e ripensato a tutto e continuo a tornare al suo esaurimento dopo la morte di Seb. Ho letto un pettegolezzo online sul fatto che ci fosse di mezzo una donna, che Seb fosse ubriaco fradicio per aver perso una donna. E se c’entrasse qualcosa? E se la donna che lui amava non l’avesse lasciato ma fosse morta?».
Quando riuscì a parlare di nuovo, la voce di Rowan parve venire da molto lontano. «Sta forse dicendo quello che penso?».