Capitolo due
Il cumulo di posta nell’ingresso indicava la frequenza con cui la gente andava e veniva. Era alto più di quaranta centimetri e, con il passare delle settimane, si allungava sempre più, addossato alla parete. Ogni volta che rientrava prima dei vicini del piano di sotto e raccoglieva la posta dallo zerbino, Rowan trovava tre o quattro lettere indirizzate a vecchi inquilini, nomi ormai familiari di chi aveva traslocato di recente ma spesso anche di chi non aveva mai conosciuto. Non erano solo pubblicità e cataloghi, ma cose importanti: tessere elettorali, comunicazioni della banca, biglietti di compleanno. Le prove cartacee di una vita disorganizzata.
Quella sera non era stata la prima a rientrare; per strada si sentivano le note del basso già da un centinaio di metri e la posta del giorno era già stata gettata nel mucchio. Non aspettava nulla e forse non avrebbe nemmeno controllato se non avesse visto una busta di Barclays in cima alla pila. Controllò – sì, era per lei – la prese e si bloccò.
Sotto c’era una busta color panna delle dimensioni di una cartolina, con il suo nome e l’indirizzo scritti in nero. Riconobbe all’istante la calligrafia.
Lo shock la investì come il flash di una macchina fotografica. Lo stretto ingresso scomparve, sostituito da una luce bianca e dal silenzio, per poi tornare di colpo alla realtà: il basso martellante dietro la porta sottile, il motivo febbrile delle piastrelle incrinate, che d’un tratto si misero a vorticare. Proprio come la scatola dei disegni, la busta pulsava di energia. Una volta, da piccola, si era piazzata ai piedi di un traliccio e aveva ascoltato il ronzio dell’elettricità sopra la sua testa. Vivo. Letale.
Adesso, a distanza di dieci anni, il giorno dopo la chiamata di Jacqueline… Non poteva essere una coincidenza.
Esitò un secondo ancora e afferrò la busta, come se qualcuno potesse sbucare dall’appartamento accanto e prenderla. Tenendola premuta al petto, aprì la porta, si girò goffamente sull’ultimo gradino, la richiuse dall’interno e mise il chiavistello.
Se avesse avuto delle sigarette in casa, avrebbe fumato. Invece si versò un bicchiere di vino e lo bevve come se fosse una medicina mentre percorreva la breve distanza tra il lavello della cucina e la finestra del soggiorno. Il basso che saliva attraverso il pavimento ricordava un cuore pulsante. I Placebo o i Muse: una musica incessante, ansiosa.
La busta era sul tavolo, una calamita i cui poli si invertivano di continuo, attraendola e poi respingendola. Voleva aprirla, ma l’idea le dava la nausea.
La calligrafia di Marianne, con le lettere ben distanziate, che si impennavano e poi scendevano come il tracciato cardiaco su un monitor. Era straordinario rivederla dopo tanto tempo, come se avesse ricevuto una lettera da un’altra vita. All’università se n’erano scritte; era un continuo andirivieni tra loro, tra Oxford e Londra, a distanza di pochi giorni. Si erano mandate anche messaggi ed email, certo, ma le lettere erano diverse, lunghe e discorsive, scritte a tarda notte, come se, senza mai ammetterlo, stessero continuando le conversazioni che facevano nella stanza di Marianne quando spegnevano la luce e restavano sdraiate a letto al buio. Per dieci anni Rowan aveva aspettato di riprendere quello scambio, all’inizio ogni giorno e poi, per proteggersi dalla delusione, sempre meno spesso, fino a concedersi di sperare solo in certe occasioni speciali: Natale, l’anno nuovo, i loro compleanni. L’anniversario.
E il fatto che ci fosse proprio quell’indirizzo le diceva qualcosa. Realisticamente, se Marianne aveva saputo di doverle scrivere lì, poteva significare una cosa soltanto: che aveva ricevuto il biglietto di Natale di Rowan e l’aveva aperto. L’aveva conservato. Nonostante tutto, quel pensiero le riempì il cuore di gioia.
La busta aveva il timbro di cinque giorni prima. Marianne l’aveva imbucata il giorno prima di morire. Cinque giorni. C’era voluto così tanto per percorrere il centinaio di chilometri che la separavano da Oxford oppure era di sotto già da un po’? Quella settimana era rientrata tardi ogni sera; non aveva mai preso la posta direttamente dallo zerbino. Forse era stata nel mucchio e lei non l’aveva vista. Forse gli inquilini del piano di sotto l’avevano presa per errore insieme alla loro posta. Marianne era morta di sera. Forse la busta era sul tavolo della cucina nel loro appartamento mentre lei cadeva dal tetto in Fyfield Road.
Rowan bevve un sorso di vino e la prese. Con mano tremante, la aprì ed estrasse un bigliettino dello stesso color panna con la stessa calligrafia nera.
“Devo parlarti”.
Nient’altro, niente firma, nemmeno una M, ma non ce n’era bisogno. A tastoni, Rowan scostò una sedia e si sedette. Fissò le parole che cominciarono a pulsare sul foglio, con i bordi sfocati e poi nitidi, poi di nuovo sfocati.
Perché? Che cosa era successo? Perché qualcosa doveva essere successo, non c’era alcun dubbio.
Si alzò in fretta, rovesciando quasi la sedia, e corse al lavello a vomitare il vino e quel poco del pranzo che aveva nello stomaco. Nel raddrizzarsi, un velo di sudore freddo le imperlò la fronte.
Dopo tutto quel tempo, aveva cominciato a credere che quella storia sarebbe rimasta sepolta. Ogni anno che passava, la immaginava sprofondare sempre più, sotto un nuovo strato di terra, cosicché fosse sempre più difficile riportarla in superficie. Ora si rendeva conto di essere stata ingenua. Quel che aveva fatto Marianne era soltanto seppellito, non scomparso. Era sempre rimasto là, dormiente, in attesa del momento in cui si sarebbe risvegliato, stiracchiato e sarebbe venuto alla luce.