Capitolo nove
«Li compro online», le disse. «Da Square Mile. Vendono solo chicchi, poi te li devi macinare da solo, ma lo faresti comunque, per la freschezza, no? Questo viene dal Brasile, Capao. Aspetta di assaggiarlo». Turk prese una caraffa di acqua filtrata dal frigo, riempì la caffettiera e pressò il caffè nel filtro. «Sono i migliori a Londra, quelli di Square Mile. Tutti i bar si servono da loro».
Rowan lo vide regolare la fiamma del gas perché non lambisse i lati della caffettiera. Sapeva che sarebbe venuta e doveva aver pensato che l’occasione richiedesse i pantaloni aderenti di seta nera a motivo cachemire che indossava. Le aveva aperto la porta a piedi nudi ma, entrando in cucina, si era infilato un paio di pantofole indiane ricoperte di perline. Sembrava un wrestler travestito da Aladdin per una recita.
La cucina era pulita e in ordine ma, appena oltre la porta sul retro, regnava il caos. Pur essendo a fine gennaio, una massa fluttuante di verde soffocava la piccola zona pavimentata e i rami dell’alloro arrivavano fino alle finestre del primo piano della casa dietro. Lo stretto vialetto accanto alla cucina era invaso dalle ortiche morte.
«Non sei tentato di ampliare la casa?», gli chiese.
«Come?»
«Sfruttando lo spazio fuori, come quella». Indicò la casa accanto, la cui parete più esterna coincideva con il confine della proprietà, così da creare lo spazio necessario per quella che, oltre lo steccato marcescente di Turk, pareva una cucina enorme e molto elegante.
«Oh, già. Un giorno. È che sono un tale inconveniente, i lavori, non ti pare?».
Riempì le tazzine e le portò al tavolo. Rowan era seduta su una panca ricavata da una vecchia traversina dei binari mentre lui si mise a frugare in un cestino sul piano da lavoro. «Sei fortunata», annunciò. «Stamattina sono andato al Borough Market e ho comprato questi biscotti da un tizio italiano. Li fa con l’olio essenziale di limone che gli spedisce sua nonna dalla Sicilia». Lanciò un’occhiata al caffè, deluso. «Non riesco mai a far venire una bella schiuma sopra».
«È delizioso, Peter. Probabilmente è il miglior caffè che abbia mai bevuto».
Soddisfatto, mise dei biscotti su un piattino e si sedette. «Allora», azzannò un biscotto rischiando di rompersi un dente, «non ti fai vedere per anni e poi, d’un tratto, eccoti qui, due volte in una settimana. Vorrai parlare di Mazz, ovviamente».
Aveva deciso di non tergiversare. «Non riesco a credere che sia scivolata».
Quando Turk la guardò, per la prima volta gli osservò attentamente il viso. L’angolo interno degli occhi, arrossati per la visibile mancanza di sonno, era segnato da rughe grigie. «Non so», le disse. «No, non è vero. Dev’essere andata così, se lo dicono i poliziotti. Se ci fosse qualche dubbio, starebbero investigando, ci sarebbe un’inchiesta. Non siamo mica in un brutto sceneggiato televisivo. Non sono degli idioti».
Rowan ripensò a Theo e represse un brivido di disgusto. «Lo so».
«Però sì, è strano. Non ha molto senso nemmeno per me».
«Hai detto che soffriva ancora di vertigini».
«L’ultima volta che siamo saliti lassù, è stato come al solito. Non si è staccata dal muretto. Andava nel panico ogni volta che io facevo un passo».
«Quando è stato?»
«Un mese fa? Sei settimane, forse».
«Stava bene? Non era… giù? Depressa».
«No. Era distrutta. Stava lavorando come un cane per la nuova mostra, non ci eravamo sentiti per un paio di settimane… ma era felicissima. Ti ricordi com’era quando lavorava bene? Come traboccava di eccitazione?».
Rowan annuì. Una volta Marianne aveva provato a spiegarglielo. Aveva detto che, quando il lavoro andava bene, le pareva che il mondo si riassestasse apposta per aiutarla: era tutto intenso, rilevante, più luminoso del solito. «“Un’ossessione sfavillante”».
«L’aveva detto lei?»
«Una volta. Credi fosse davvero così?»
«Che cosa, un’ossessione, in senso letterale?». Turk passò un dito sul bordo della tazzina. «No. No, non credo. Ma era decisamente su di giri, vero? Era decisamente in uno stato alterato».
«Ma non si drogava?»
«Mazz?». Quasi scoppiò a ridere. «Non fumava più neanche l’erba. Non si ubriacava più. Dio, sei proprio rimasta indietro».
Rowan si concesse un momento per assimilare quelle parole. Marianne non era mai stata attratta dalle droghe, e neanche lei. Quando girava, avevano condiviso l’erba della band e, un paio di volte, avevano provato la cocaina, ma più per curiosità che per un reale desiderio. Nessuna delle due ne era rimasta particolarmente impressionata.
«E poi se avesse preso qualcosa, la polizia lo saprebbe, no? Cioè, c’è stata l’autopsia. Per ogni morte improvvisa viene…».
«Lo so», lo interruppe. Non riusciva a sopportare la serie di immagini scatenata da quella parola: un tavolo anatomico, il corpo nudo e freddo di Marianne, il vassoio con gli strumenti.
Per qualche secondo, nessuno dei due disse nulla. Dall’alloro sbucò un gatto e, per scacciare le immagini nella sua mente, Rowan lo osservò mentre avanzava sulla staccionata. Era troppo magro; si vedevano le ossa muoversi sotto al pelo. Doveva essere un randagio, oppure vecchio e malato.
«Marianne era cambiata», disse Turk d’un tratto. «Dopo che è successo. Non era più la stessa. Era… spenta. Seria. Non beveva neanche più. Cioè, beveva, non rifiutava un paio di bicchieri di vino, ma non abbassava mai la guardia e non si ubriacava più come una volta. E con il lavoro… Dio, se già prima pareva una maniaca… Un paio di volte io e Jacqueline abbiamo dovuto praticamente rapirla dal suo studio».
«Rapirla?»
«Eravamo preoccupati. Andava avanti a biscotti, non dormiva e fumava decisamente troppo. L’ho portata a casa di un amico in Cornovaglia per una settimana e i primi due giorni li ha passati a dormire. A un certo punto sono andato a controllare che non fosse morta». Abbassò lo sguardo, rendendosi conto di quel che aveva detto, poi prese la tazzina e la esaminò come se non l’avesse mai vista prima.
«La mia teoria», riprese, «è che si sentisse in colpa per quello che era successo».
Il cuore di Rowan cominciò a battere forte. «In colpa?»
«Per la donna che è rimasta uccisa».
Lo fissò.
«Sì, sembra una follia, ma lo sai quanto fosse… coscienziosa. Si sentiva responsabile. Lo sapevi che ha pagato l’università al figlio? La retta, le spese per il sostentamento, tutto quanto».
«Quale figlio?».
Turk la guardò come se fosse ritardata. «La donna che Seb ha ucciso quando ha avuto l’incidente, ti ricordi? Quella che era nell’altra macchina. Aveva un figlio che all’epoca aveva quindici anni. Mazz gli ha pagato l’università».
Rowan si portò le mani alla bocca. «Scusami, sì. Ma certo. No, non sapevo che l’avesse fatto».
«Penso che stesse cercando di espiare la colpa… Capisci che cosa intendo? Non solo pagando la sua istruzione, ma lavorando come una matta. Era una forma di autoflagellazione. Secondo me, era convinta che se si fosse spinta al punto di rottura, se si fosse negata tutto, compresa la salute, avrebbe potuto scontare la sua colpa. Fare ammenda».
«Ma è… da pazzi».
«Lo so. Ma ti ricordi quanto fosse arrabbiata per Seb, quanto gli volesse bene. Ho anche pensato che forse si volesse prendere apposta la colpa, consapevolmente, per sentirsi ancora vicino a lui. Legata a lui».
Si alzò e prese la caffettiera. Senza sedersi, fissò Rowan intensamente.
«Ed è stato a quel punto che tu sei sparita».
«Oh, per favore, Pete. Lo sai che non è stata una mia scelta. Ti ricordi quel pomeriggio, io…».
«Non ti sto mica accusando, non c’è bisogno che ti metti sulla difensiva. Sto solo dicendo che forse, se fossi rimasta, le saresti stata d’aiuto. Aveva bisogno di te».
«Avrebbe potuto avermi con sé. Ci ho provato, lo sai che l’ho fatto. E ci provavo ancora. Ogni anno le mandavo un biglietto con il mio numero. Ogni anno. Gliene ho mandato uno sei settimane fa». E Marianne l’aveva aperto, l’aveva conservato e le aveva spedito a sua volta un biglietto.
Turk tornò a sedersi con aria più greve, rassegnata. «Lo so. È solo che è stato strano, ecco tutto. Un giorno facevi parte della nostra vita e poi, abracadabra, sei sparita. Io e te non avevamo mica litigato, però hai abbandonato anche me».
«Non ti ho abbandonato».
«Di certo non ti sei tenuta in contatto».
«Quel pomeriggio, tu hai scelto Marianne».
«Per quel pomeriggio. Per l’amor del cielo, non sapevo mica di dover scegliere per sempre».
«Pensavo che uscissi con me solo perché ero amica di Mazz. Perché facevo parte del pacchetto».
«Be’, e io pensavo che fossimo un’unica compagnia».
Rowan provò un’ondata di nostalgia tanto potente che le vennero le lacrime agli occhi, e Turk se ne accorse.
«Fa male», commentò lui. «Vero? Fa un male cane».
«Se non altro tu non hai sprecato il tuo tempo».
«Oh, ne ho sprecato un sacco. Per altre cose, relazioni…». Scosse la testa. «Non ne ho mai avuto una che la gente chiamerebbe con quel nome. Ma come potevo impegnarmi con qualcun altro se ero innamorato di lei? Mi hanno scaricato più volte di quante tu possa anche solo immaginare, tesoro».
Rowan ebbe un altro spiacevole ricordo di Theo Marsh, con il viso sopra al suo mentre la premeva contro il materasso.
«Sai», proseguì Turk, «pensavo ti saresti fatta sentire quando è uscito l’album».
«Quello è esattamente quando non mi sarei fatta sentire. Non ci parliamo per un anno, poi tu scrivi un tormentone ed eccomi che sbuco fuori di nuovo? Sarei sembrata una fissata con le celebrità».
«Dio, come sei strana. Perché non potevi essere un’amica che si congratula con un amico che ha avuto successo? Non puoi vederla così?»
«Mi dispiace, Pete».
Alzò gli occhi al cielo. «È passato tanto tempo ormai. Chiedi al mio agente».
«Che casino. Tutto quanto».
Rimasero seduti in silenzio, poi Turk prese il piattino. «Mangia un altro biscotto», le disse e, a quell’offerta assurda, lei scoppiò a ridere. Lui la seguì a ruota e, come se fosse saltato un tappo, risero fino ad avere le lacrime agli occhi, fino a non sapere più nemmeno perché avevano cominciato.
Rowan fu la prima a ricomporsi. «Mi ero dimenticata quanto sei ridicolo», gli disse, asciugandosi sotto gli occhi con il pollice.
«Parla per te». Le porse un fazzoletto.
«Conosci bene James Greenwood, Pete?», gli domandò.
«Un po’. Abbastanza bene, direi, ma solo tramite Mazz».
«Che cosa ne pensi di lui?»
«Per quanto mi scocci dirlo, è un tipo a posto. Affidabile. E, per quanto sia sorprendente visto il mondo a cui appartiene, è uno che non spara cazzate».
«Sembra che a Jacqueline piaccia».
«Sì. E nonostante tutto lo scalpore sui tabloid quando si è lasciato con la moglie, Sophie, erano anni che stava con lei; forse erano pure andati all’università insieme. Non è un dongiovanni depravato che fa grandi promesse per infilarsi nelle mutandine di giovani artiste impressionabili. E poi hai visto Bryony, la figlia. Mazz diceva che è davvero un bravo padre; si è battuto con le unghie e con i denti per ottenere la custodia condivisa. Sophie, o più probabilmente Derry, ha assunto gli avvocati del divorzio Mills-McCartney e sembra che lui abbia dovuto concederle un rene su un vassoio d’argento».
«Quanti anni ha lei?»
«Diciassette. No, diciotto. Il suo compleanno è stato appena prima di Natale. Quest’anno finirà il liceo».
«Davvero?». Le era parsa più giovane. «Andavano d’accordo, lei e Mazz? Al funerale mi è sembrata piuttosto turbata».
«Erano migliori amiche».
«Anche se i suoi si erano lasciati per colpa di Marianne?»
«Un paio di mesi fa le ho incontrate in città all’ora di pranzo mentre facevano shopping insieme. La sera prima erano state a un concerto al Roundhouse. Marianne portava Bryony a eventi, mostre private, cose del genere; si scambiavano i vestiti e le scarpe. Mazz era più una sorella che la matrigna cattiva».
«Be’, era più vicina all’età di Bryony che a quella di Greenwood».
«Che cattiveria».
«Ma è vero, no? Se davvero lui ha quarantotto anni e sua figlia diciotto».
Turk si strinse nelle spalle. «Bryony adorava Marianne perché lei la trattava alla pari. Era tipico di Mazz, no? Quando ti guardava, ti faceva sentire come se ti vedesse davvero. Il vero te, non…». Si grattò l’accenno di barba sulla guancia, in imbarazzo. «Sai, anche se sapevo che lei non era affatto così, volevo credere che Greenwood per lei fosse solo una mossa per fare carriera».
«Oh, Pete».
«Ma era felice con lui. Qualsiasi cosa lei cercasse, lui ce l’aveva. E io non ce l’ho mai avuta».
Rowan allungò una mano sul tavolo e gli strinse il braccio.
«Povero stronzo», commentò Turk. «Te lo immagini come deve sentirsi?».
Dall’ingresso giunse il suono di una chiave nella porta. Rowan lo fissò. Viveva con qualcuno? Con una donna? Turk però si era voltato e non riuscì a incontrare il suo sguardo.
Si udì il ticchettio di una bicicletta portata dentro e poi: «C’è nessuno?»
«Sono qui, Martin».
Rowan inarcò le sopracciglia.
«Un amico di un amico. È qui per qualche giorno, niente di più».
Sentirono dei passi in corridoio e poi sulla soglia comparve un ectomorfo con una tuta integrale in lycra blu elettrico. Aveva una bella testa rotonda con i capelli curati castano chiaro e un viso dall’aria stranamente innocente per un uomo sui trenta o trentacinque anni, anche per via dei pomelli rossi sulle guance. Un contabile ingenuo ma simpatico, pensò, descrivendolo per Mazz.
«Martin, questa è Rowan, una mia vecchia amica di Oxford».
«Piacere di conoscerti, Rowan. Resti per cena? Pensavo di fare i miei ceci al curry, Pete, se ti va. Mi piace cucinare il sabato sera», spiegò. «Purtroppo in settimana, ora che rientro dall’ufficio, non ne ho spesso la possibilità».
Rowan notò che Turk era mortificato. «Sei molto gentile», rispose, «ma devo tornare a casa. Ho fatto solo una scappata».
«Oh, che peccato. Sarà per la prossima volta».
Quando svoltò l’angolo, Turk era ancora sul marciapiede. Abbassò il finestrino, gli fece un cenno con la mano e, nello specchietto retrovisore, lo vide alzare un braccio per salutarla.
Gli aveva detto che sarebbe tornata dritta a Oxford, ma poi le era venuta un’idea migliore. Invece di immettersi nel traffico che avanzava lento verso la North Circular, accostò e prese lo stradario dal cruscotto. Un paio di minuti più tardi, fece inversione e si diresse verso est.
L’ultimo anno alla Slade, Marianne aveva affittato uno studio a Bethnal Green con una donna di nome Emma Hammond. Rowan non aveva mai capito se anche Emma frequentasse la Slade o se facesse semplicemente parte della rete di artisti di cui era entrata a far parte Marianne una volta arrivata a Londra. A ogni modo, aveva un paio d’anni più di loro e faceva quelle che definiva «sculture di vestiti», strutture dalle forme bizzarre ricoperte di tessuti che ricordavano delle tende montate con un forte vento da persone affette da una grave disprassia.
Lo studio era appena oltre Hackney Road. Quando vi arrivò, era ormai buio ma, dall’enorme gasometro illuminato che si stagliava contro il cielo, Rowan capì di essere vicina. Rallentò e la macchina dietro di lei la superò con una furiosa accelerata.
Dopo un paio di partenze false, trovò la strada e riconobbe il negozio all’angolo aperto ventiquattr’ore su ventiquattro e il ristorante asiatico lì accanto, dove avevano mangiato insieme due o tre volte. Proprio davanti c’era un parcheggio libero.
Lo studio occupava un edificio a forma di cubo su un piano soltanto che in origine era un garage e aveva una saracinesca automatizzata, grande abbastanza per far passare una macchina, ricoperta di graffiti. Una volta Emma aveva fatto una battuta sui Basquiat della zona. Verso la strada, l’unica finestra era coperta da una sudicia griglia metallica ma, sul retro, c’erano delle grandi porte di vetro che davano sul giardino affacciato a sud.
Accanto alla saracinesca c’era una porta in acciaio. I nomi scritti a mano sul display erano scoloriti e illeggibili, ma Rowan premette il campanello e rimase in attesa. Un autobus di passaggio fece vibrare una pozzanghera sporca di benzina sull’orlo del marciapiede. Erano passati dieci anni da quando Marianne se n’era andata, anzi, undici, quindi era molto improbabile che Emma stesse ancora là. Chissà se riusciva davvero a vendere abbastanza per permettersi uno studio in qualsiasi parte della città, figuriamoci a Bethnal Green.
Valeva comunque la pena fare un tentativo. Turk era sempre stato protettivo nei confronti di Marianne ma, se giravano delle voci, Emma sarebbe stata ben contenta di riportargliele. All’inizio erano amiche ma, più tempo Emma passava con Marianne, più le riusciva difficile continuare a esserlo. Mentre lei pinzava vestiti sulle sue strutture instabili, Marianne realizzava le nature morte di Sport cruenti. L’ultima goccia era stata quando «Artforum» l’aveva citata insieme a Sam Taylor-Wood. Quella sera, aizzata da mezza bottiglia di grappa alla pesca, Emma non si era più trattenuta e aveva detto a Marianne che era una stronza viziata che otteneva tutta quell’attenzione solo perché i suoi genitori erano famosi e gli uomini volevano scoparsela.
Rowan premette di nuovo il campanello. Se non altro funzionava, l’aveva sentito suonare. Passò una macchina e, quando la musica hip hop sparata a tutto volume si affievolì, sentì togliere il chiavistello. La porta si aprì di pochi centimetri, rivelando una sezione verticale di una donna indiana con una salopette rosa.
«Mi dispiace disturbarla», disse Rowan, «ma sto cercando di rintracciare Emma Hammond».
«Non sta più qui, mi dispiace». Aveva l’accento di Birmingham.
«Va bene; era un azzardo. Sono un’amica di Marianne Glass. Lei ed Emma dividevano…».
La porta si aprì di qualche altro centimetro. «Lo so», la interruppe la donna. «Mi piace sapere che Marianne ha lavorato qui. Ha lasciato delle gran buone vibrazioni. Questo è un posto davvero produttivo. Senta, non so dove sia lo studio di Emma adesso, avevo sentito che era dalle parti di Stepney, ma il fine settimana lavora ancora allo Speakeasy. È sabato sera, quindi dovrebbe trovarla lì».
«Dov’è?»
«Dietro l’angolo, tre vie più avanti da quella parte». Indicò la strada principale con il pollice rivolto a sinistra. «Più o meno a metà della via. Non c’è l’insegna, ecco perché si chiama come i bar che vendevano alcolici clandestinamente, ma non può non vederlo. C’è una finestrella all’altezza del viso. Se ci guarda dentro, vedrà il bancone».
«Grazie».
«Si figuri. Mi dispiace molto per Marianne, comunque. Non la conoscevo, ma mi piacevano tanto i suoi lavori».
L’ingresso dello Speakeasy era in un vicolo puzzolente su un lato del palazzo che lo ospitava. Una volta entrata, Rowan si ritrovò in una stanza illuminata soltanto da candele, con un lungo bancone alle cui spalle c’erano delle bottiglie scintillanti. I tavoli erano fatti con barili tagliati a metà e le sedie erano vecchie e di legno con la vernice scheggiata, di quelle che agli hipster piacevano tanto. Al barile più vicino, due uomini barbuti con la camicia scozzese bevevano birra da barattoli di vetro.
Era ancora presto, poco dopo le sei e mezza, ma quattro tavoli erano occupati e all’estremità del bancone c’era un gruppetto di persone. Rowan si guardò intorno, ma non riuscì a vedere Emma. Il barista indossava un berretto e una maglietta rossa scolorita con un adesivo dei Flying Burrito Brothers. «Sì, aspetta», le disse. Nel mentre, Rowan scrutò la lavagna con i drink, ma nell’ampia lista non riconobbe nessuna birra né gin, tutti con nomi che parevano usciti dalla vasca da bagno di qualcuno.
Dubitava che Emma si ricordasse di lei ma, quando la vide emergere dalla cucina, capì che si sbagliava. Emma era stupenda, pensò Rowan. Indossava un vestito rosso a pois stile anni Cinquanta legato intorno al collo e un paio di stivali da motociclista ricoperti di borchie. Dall’ultima volta che l’aveva vista, si era fatta dei grossi tatuaggi con un cuore accompagnato da una scritta, una donna a seno nudo e diverse piume. Portava i capelli neri legati in una coda alta con un nastro in pendant con il vestito.
«Come stai?», le chiese, con un fianco appoggiato al bancone. «Ho sentito la notizia, ovviamente. Mi dispiace».
«Grazie. Però non eravamo più in contatto».
«Sul serio?». Emma fece un cenno al barista che le diede quella che pareva una limonata. Bevve un sorso dalla cannuccia, attenta a non rovinare il rossetto color ciliegia. «A te che cosa ha fatto?».
Rowan si strinse nelle spalle. «Niente. Sono cose che succedono».
«Be’, non ti sei persa granché». Bevve un altro sorso. «Ma se Marianne non c’entra, allora, con tutto il rispetto, come mai sei qui?». Inarcò le sopracciglia dalla forma precisa e rifinita a matita.
Non aveva senso menare il can per l’aia. «Volevo chiederti se girasse qualche pettegolezzo», le disse.
«Del tipo?»
«Qualsiasi cosa. Mi sono ricordata che tu conosci tutti nel mondo dell’arte, che hai un sacco di agganci. Ho pensato che, se qualcuno sapeva qualcosa, saresti stata tu». Compiaciuta, Emma inclinò la testa come un gatto. «Senti», proseguì Rowan, «Marianne stava con James Greenwood, questo è ovvio, ma mi chiedevo se magari ci fosse un altro. Se se la facesse con qualcuno».
Un altro sorso civettuolo, con la bocca stretta alla Betty Boop intorno alla cannuccia. «Se ci fosse stato qualcuno, te lo direi, tesoro, te lo giuro, ma a quanto ne so, non c’era nessuno». Si allungò sul bancone per restituire il bicchiere. «Però Marianne sarebbe stata capace di qualsiasi cosa, non ti pare? Si rigirava gli uomini a suo piacimento, sul piano personale e professionale. Io la vedevo sempre flirtare con i critici, non c’era da stupirsi che avesse recensioni così buone. Si dice che abbia ottenuto la mostra alla galleria di Saul Hander solo perché ha leccato il culo a Michael Cory».
«A Michael Cory? Sul serio? Non l’avevo sentito».
«Oh, certo. Lui ha esposto delle fotografie da Greenwood un annetto fa; è così che lei l’ha incontrato. Utile avere un grosso commerciante d’arte per compagno, vero? Bella mossa per la carriera, Marianne. Alfie, il mio ragazzo, è un fotografo ed è andato a quella mostra privata e l’ha vista che sbatteva le ciglia e faceva la gattamorta con lui».
«C’era anche lui? Cory, intendo? Di persona?»
«Lo so. Dev’essere merito di Greenwood. Comunque, negli Stati Uniti Cory è rappresentato da Hander e quindi lei voleva che lui mettesse una buona parola. E guarda un po’: ecco una mostra a New York per Marianne Glass, tesoro. Roba da far venire il voltastomaco, non credi?».