Capitolo trentotto

Si fece lasciare in Parks Road e, fino alla chiusura alle quattro e mezza, gironzolò tra gli amuleti, gli attrezzi, i vasi e le maschere africane del Pitt Rivers Museum. Entrare nell’atrio dalle alte volte le parve come mettere piede in una vasta ed eclettica intelligenza vittoriana, meraviglioso, ma per lei quel museo era sempre infangato dai ricordi del padre.

Un pomeriggio di pioggia, quando lei aveva otto o nove anni, mosso da un inaspettato impulso, lui l’aveva portata proprio lì. Lei era rimasta estasiata, molto probabilmente dalla stranezza di quel posto: ricordava di essere rimasta a lungo davanti alle teste raggrinzite, affascinata e orripilata. Per anni, in seguito, se le previsioni accennavano anche solo alla pioggia e c’era la possibilità di dover restare tutto il pomeriggio in casa insieme, lui l’aveva subito portata lì, incoraggiandola a perdersi tra gli oggetti in esposizione.

Sei o sette anni prima, l’aveva chiamata per chiederle di vedersi per pranzo a Londra. Aveva proposto un ristorante a South Kensington e, visto che da tre anni ormai lei accampava scuse, aveva ceduto e accettato. Ovviamente era stata l’ennesima trappola. Aveva prenotato un tavolo per quattro: si era portato dietro Jessica e Harry, che aveva appena compiuto sei anni. Al telefono, il padre le aveva detto di aver scelto quella zona perché era facilmente raggiungibile da Putney, dove all’epoca viveva Rowan, ma in realtà il suo tratto saliente era la vicinanza al Museo di storia naturale: Harry voleva vedere i dinosauri.

A tavola, quando Jessica aveva portato il piccolo in bagno, il padre le aveva detto senza mezzi termini che l’unica cosa che le chiedeva era di essere civile con sua moglie. Rowan si era rifiutata di andare al matrimonio e da allora l’aveva incontrata di persona solo due volte, sempre per un’imboscata. Il padre sapeva però che Harry l’avrebbe conquistata: come poteva essere il contrario? Era così innocente, con gli occhioni marroni e la zazzera color nocciola, così curioso della sua sorellastra grande e, quando aveva chiesto a Rowan di tenerlo per mano per attraversare Cromwell Road, lei aveva provato come un pugno dritto al cuore. Poi però aveva visto il padre tenerlo per mano mentre giravano per il museo, accovacciarsi per mostrargli quante ossa ci fossero nello scheletro di una zampa, indicare tutte le specie di scarabei, e il suo cuore era tornato di ghiaccio. Suo padre aveva mai fatto così con lei? L’aveva guardata con gli occhi dolci almeno una volta?

Quando svoltò l’angolo di Norham Gardens, le campane di St Giles suonarono le sette. Senza le nuvole a fare da isolante, la giornata di sole si era trasformata in una sera pungente e i suoi piedi strisciavano sul marciapiede accanto ai giardini già ricoperti di brina. Tra i lampioni, il suo fiato pareva spettrale.

Aveva trascorso l’ultima ora e mezza da Caffè Nero in High Street dove, per giustificare quella lunga permanenza, aveva bevuto due enormi tazze di caffè che adesso la rendevano ancora più ansiosa. Alle quattro, Adam le aveva mandato un messaggio per dirle che era arrivato a Highgate ma poi non aveva saputo più nulla da parte sua. Era convinta che le avrebbe scritto o l’avrebbe chiamata per sentire come stava, ma d’altra parte, si disse con decisione, doveva essere impegnato con Jacqueline. Una volta saputo di Bryony, probabilmente era crollata di nuovo.

«Perché non resti con lei?», gli aveva chiesto Rowan. «Posso badare io al forte qui».

«No, c’è Fint con lei, e poi non sarebbe giusto lasciarti qui da sola con tutto quello che sta succedendo. Tu dovresti andare a casa». Era stato come se gli fosse venuto in mente all’improvviso. «Vorresti farlo? Dio, mi dispiace, avrei dovuto pensarci prima».

«È tutto a posto», aveva risposto lei. «Fino a quando non si saranno calmate le acque, lascia che resti qui a farti compagnia».

«Sei sicura?».

Lei aveva fatto una specie di smorfia.

«Grazie». Le aveva rivolto un sorriso di sincera gratitudine. «Saperti qui rende tutto molto più facile. Per me». Aveva fatto un profondo respiro. «Dio solo sa che cosa ne faremo dei quadri adesso».

Arrivata in Fyfield Road, Rowan scrutò subito il punto in cui prima era parcheggiata la macchina nera della giornalista. Non c’era più, e lei sentì allentare un poco la tensione alle spalle. Si era preparata a essere avvicinata di nuovo, o peggio: e se, intanto che era fuori, gli altri giornali avessero mandato qualcuno e al suo ritorno avesse trovato un capannello di cronisti? Ma la strada era deserta e lei percorse gli ultimi venti metri inspirando a fondo, riempiendo i polmoni di aria gelida.

Proprio quando imboccò il vialetto però, sentì dei rapidi passi venire verso di lei e una mano sul gomito.

Cacciò un urlo per lo spavento; non riuscì a trattenersi. Quando si voltò, vide la giornalista.

«Mi scusi», disse lei, con voce dolce e disarmante. «Non volevo spaventarla».

«Per l’amor del cielo». Rowan si portò una mano al petto. «Non può fare così, avvicinarsi di soppiatto alla gente al buio».

«Volevo parlarle».

«Oh, allora è tutto a posto».

La donna ignorò il suo tono. «Prima era con Adam, vero?»

«Sì, ma lui non ha voluto parlare con lei e nemmeno io voglio farlo».

«Ogni tanto la gente cambia idea quando è da sola. Pensa che…».

«Ci lasci in pace. Non sappiamo niente, va bene? Niente».

«Lei è la sua ragazza?», s’informò la donna. «Era anche al funerale, vero? C’era una foto di lei qui fuori, in strada…».

«Si tolga dalle palle». Con la borsa stretta al petto, si voltò e salì di corsa i gradini. Le tremavano così tanto le mani che riuscì a infilare la chiave nella serratura solo al terzo tentativo.

«Georgina Parry, del “Mail”», urlò la donna in fondo ai gradini. «Se cambia idea, ho infilato il mio biglietto da visita sotto la porta».

Rowan strappò il biglietto in mille pezzi e li mise sul fondo del cestino della spazzatura in cucina. Solo il pensiero di quella donna le dava la nausea. Per starsene seduta al gelo per ore, doveva essere davvero convinta di aver fiutato qualcosa.

Mandò un messaggio a Adam per avvisarlo ma, alle nove e mezza, non aveva ancora ricevuto risposta. L’ansia continuava ad aumentare. Un conto era non scriverle per sapere come andasse, ma non rispondere a un messaggio con un’informazione di quel tipo non era da lui. Arrivò addirittura a dubitare che l’avesse ricevuto, ma poi si disse che ovviamente non poteva risponderle perché stava guidando. Lei però gli aveva scritto poco dopo le sette e il viaggio non durava mica due ore e mezzo. Era pure domenica sera: la maggior parte del traffico doveva essere per entrare a Londra, non per uscirne.

C’era stata una sciagura, un incidente. Si era messo al volante senza aver dormito abbastanza e troppo agitato, i suoi riflessi erano annebbiati… O forse, pensò con un’ondata di nausea, Theo l’aveva chiamato. E se la polizia avesse scoperto qualcosa su Cory e fosse riuscita a collegarla a lui quel pomeriggio? Era sicura che non li avesse visti nessuno, ma se si sbagliava… Alle dieci chiamò Adam, ma il telefono squillò a vuoto e partì la segreteria, così come venti minuti più tardi. Con i nervi a pezzi, camminò su e giù per la casa, incapace di restare seduta per più di un minuto. Doveva chiedere a Jacqueline? Poteva farlo? Se fosse successo qualcosa anche a suo figlio… Piantala, Rowan.

Erano quasi le undici e un quarto quando sentì la chiave nella serratura. Vedendo Adam, si trattenne a stento dal correre tra le sue braccia, sollevata. Fece per baciarlo, ma lui girò il viso premendo una guancia contro la sua e, un secondo dopo, si ritrasse.

«Ero preoccupata», gli disse. «Pensavo saresti tornato prima. Io…».

«Sto bene».

«Il viaggio è stato così brutto?»

«Non dei migliori. Mi verso un bicchiere di vino. Ne vuoi uno anche tu?»

«Ci penso io», gli disse, arrivati in cucina, «siediti».

«Sono stato seduto per un’ora e mezza», ribatté lui, brusco.

«È ancora là fuori, la giornalista? Hai ricevuto il mio messaggio? Ti ho scritto».

«Sì, l’ho visto».

Forse era convinto di averle risposto? Il suo messaggio era andato perso? Confusa, Rowan si voltò verso il piano da lavoro per aprire il vino, contenta di avere una scusa per nascondere un attimo il viso. Riempì due bicchieri e li portò in tavola. Nel passargli il suo, per la prima volta incrociò il suo sguardo e, con una certa apprensione, vi lesse qualcosa di più della stanchezza emotiva e fisica. Dopo ore di attesa, passate a immaginare una catastrofe, non ce la faceva più. «C’è qualcosa che non va, Adam?».

Lui bevve un sorso di vino, come se stesse riflettendo. «Sono andato a trovare Peter stasera».

«Peter Turk?», disse lei, troppo in fretta. Poi, per rimediare, aggiunse: «Come mai? Volevi darla di persona anche a lui? La notizia, intendo».

«In parte».

Il nodo per la tensione che sentiva allo stomaco era sempre più grosso.

«Come mai sei andata a trovarlo, Rowan? La settimana dopo il funerale. L’hai fatto davvero solo per riallacciare i ponti?»

«Non capisco». Aggrottò la fronte per mascherare la preoccupazione.

«Pete mi ha detto che volevi parlare di Marianne. Ha detto che non credevi che fosse scivolata».

«Lo sapevi già che non ci credevo».

«Non sentivi né lei né lui da dieci anni, eppure sei andata apposta a Londra per parlare con lui. Comunque, Peter mi ha fatto ricordare che sei sparita proprio dopo la morte di papà, quando Mazz avrebbe potuto avere bisogno della tua presenza».

Rowan lo guardò dritto negli occhi. Era un azzardo, ma doveva provarci: non poteva permettere che proseguisse su quella linea di pensiero. «Pete ti ha detto anche che sono una cacciatrice di dote?», chiese, con il cuore al galoppo. «Una sanguisuga, così ha detto. Ti ha chiesto se sono riuscita a mettere le grinfie su di te?».

Come aveva sperato, Adam fu colto in contropiede. «Che cosa?»

«È quello che mi ha detto l’ultima volta che l’ho visto, il giorno in cui è venuto qui, a casa, la mattina in cui l’hai visto anche tu. Si era inventato una storia su dei gemelli che aveva prestato a Marianne per una festa, invece era venuto a rubare».

«A rubare? Di che cosa stai parlando?»

«È furioso con me perché l’ho beccato mentre rubava degli schizzi. Tanti, dieci o quindici. E non è stata un’idea del momento, era venuto preparato. Nello zaino aveva una cartelletta per trasportarli».

Adam la guardava come se parlasse in arabo. «Pete rubava gli schizzi di Marianne?»

«Sì. Per venderli. È al verde».

«No». Scosse la testa. «Non ha senso. I diritti d’autore del disco…».

«Un solo disco, diviso per quattro, anni fa? Che cos’ha fatto dopo? Dei jingle per la radio l’anno scorso?». Si bloccò: fare la stronza non l’avrebbe resa migliore. «Hai incontrato il suo coinquilino?», gli chiese. «L’amico di un amico, che dovrebbe restare solo qualche giorno?».

A giudicare dall’improvvisa consapevolezza nello sguardo che le rivolse, capì che l’aveva visto. «Perché non hai detto niente?»

«Perché mi dispiaceva per lui. E poi ha detto che Mazz dava sempre gli schizzi agli amici, ed era vero». Pensò in fretta e prese una decisione. «E poi, non volevo andarmene».

Adam alzò la testa.

«Quella mattina, quando Turk è venuto qui, è stata la prima volta che io e te… siamo stati insieme, e subito dopo tu sei scomparso. Ho pensato che, se avessi saputo che non c’era mai stata nessuna effrazione, avresti pensato che non era più così importante che io stessi qui». Sentì il rossore risalire lungo il collo. «Volevo rivederti».

Si spostarono sul divano e Adam le mise un braccio sulle spalle. Le raccontò di come aveva dato la notizia a Jacqueline e Rowan riferì la breve discussione con Georgina Parry. «Non c’era più quando sono arrivato», disse lui, «o comunque non mi è venuta dietro, ma se domani tornerà, dovrò chiedere a Theo se può fare qualcosa. Anche se ne dubito». Svuotò il bicchiere. «Non riesco ancora a crederci che fosse Peter a prendere gli schizzi».

«Lo so».

«Sai dove li vendeva?»

«No. Non siamo arrivati a quel punto prima che mi desse della pazza e se ne andasse su tutte le furie».

Adam sorrise. «Hai ancora il disegno che ti ha fatto Cory? Stamattina l’ho cercato qui in cucina, pensando a lui, ma non sono riuscito a trovarlo».

Un rullo di tamburi di preoccupazione nel petto. «L’ho messo via. Mi faceva sentire strana, sapendo che lui non c’è più».

«Posso vederlo?»

«Adesso?»

«Sì, ma non alzarti. Vado io a prenderlo. Dov’è?»

«No». Allungò una mano, per farlo restare seduto. «Non c’è problema. Resta qui, lo prendo io».