Capitolo trentacinque

Attesero Theo e Grange in salotto. Sentendo i loro passi sui gradini che portavano all’ingresso, Rowan provò l’ennesima scarica di adrenalina. Era come se camminasse su una fune tesa sopra un burrone altissimo, all’altro capo la aspettava la pace, la promessa di un futuro con Adam, ma prima c’era la corda sottile sotto i piedi, la consapevolezza che ogni passo falso poteva essere la sua rovina.

Al rientro da Benson Place, si era concessa un brandy per calmare i nervi. Adam era tornato poco dopo le sei, quindi lei aveva avuto due ore e mezza per trovare il modo migliore di spiegargli quanto aveva scoperto senza attirare l’attenzione su di sé. Aveva subito capito che andare direttamente da Theo avrebbe potuto ritorcerglisi pericolosamente contro. Si era immaginata la sua fronte aggrottata per la sorpresa sopra gli occhi scintillanti: stamattina non sapevi nulla e adesso, Rowan, tutt’a un tratto, ci porti lo scalpo dell’assassino di Marianne?

Quella mattina però, Adam aveva visto il cellulare di Bryony sul tavolo e, prima che uscisse, lei gli aveva detto che per passare il tempo e tenersi occupata, perché dopo la notizia non ce l’avrebbe fatta a studiare quel giorno, sarebbe andata in Southmoor Road a restituirlo. Era un piccolo dettaglio, un germe in apparenza innocente, ma da lì sarebbe sembrato scaturire quel che lei aveva da raccontare, che così sarebbe stato più plausibile.

Ma c’era anche la questione del tempismo. Da un lato, non era un bene che la sua scoperta fosse avvenuta così a ridosso della notizia della morte di Cory; dopotutto, ad attirare la sua attenzione era stata la premura di Greenwood. Dall’altro però, prima i riflettori si fossero concentrati su Bryony, meglio sarebbe stato. La chiamata di Theo era la prova che stava lavorando con scrupolo. Rowan se l’era immaginato intento a risolvere il puzzle con lo stesso approccio metodico dei Glass a Natale, separando prima i pezzi per fare il bordo e poi, con pazienza, un tassello alla volta, un minuto dopo l’altro, mettendo insieme il resto del quadro. Le due ore e mezza in cui aveva aspettato Adam le erano parse un’eternità.

Non appena aveva varcato la soglia, aveva subito capito dalla sua faccia che era successo qualcosa. «Raccontami tutto», le aveva detto. Quando aveva finito, lui era rimasto seduto con la testa tra le mani per un minuto buono. «Questo è un incubo», aveva commentato infine.

«Mi dispiace tanto, Adam».

«Non può essere che tu ti stia sbagliando?»

«È possibile. Tutto è possibile. Cioè, non lo sapremo per certo fino a quando la polizia non parlerà con lei… ma la risposta di James, il modo in cui mi ha sbattuto la porta in faccia… Non credo di sbagliarmi».

Nella mente le era comparsa un’altra immagine di Theo alle prese con il suo puzzle e si era quasi sentita impazzire per la frustrazione. Forza, Adam, avrebbe voluto urlare, chiama la polizia, fallo. E invece, dopo aver preso il telefono, lui aveva esitato ancora. «Loro mi piacciono, Rowan», aveva detto. «Tutti e due. Greenwood è un brav’uomo. E Bryony… è così giovane. Questo…». Aveva alzato le mani dalle ginocchia e le aveva lasciate ricadere flosce, in un gesto disperato. «Anche se fosse vero, a fare così… mi sento sporco».

Pur avendo telefonato lui, Adam lasciò che fosse Rowan a esporre la storia alla polizia.

«Sei stata tu a scoprire tutto, Ro».

Theo e Grange quasi non profferirono parola mentre lei spiegava del telefono di Bryony, degli stivali nell’ingresso, della preoccupazione di Greenwood, della conferma di Martin Johnson. Per tutto il racconto, sentì il cuore palpitare per l’ansia, a volte fermarsi del tutto e poi riprendere a battere in modo brusco, minacciando di toglierle il fiato. E gli occhi dei poliziotti non si staccarono dal suo viso nemmeno per un momento, anche se il sergente Grange prese un sacco di appunti sul taccuino che teneva in equilibrio sulle ginocchia.

Rowan si aspettava che fossero eccitati da una simile possibilità, dalla potenziale soluzione, invece Theo in particolare era muto, avvilito. Ripensò a Cory il giorno in cui si era introdotto in casa e aveva trovato il disegno di Marianne, a come si era spenta la luce che lo animava. Chissà se Theo si sentiva in imbarazzo. Lei, una dilettante, era riuscita a scoprire che Bryony era stata in quella casa la notte della morte di Marianne, mentre lui con le sue indagini aveva concluso che fosse stato un incidente.

La guardò, con espressione solenne. «Questa è un’accusa molto seria, Rowan».

«Non è un’accusa», lo corresse lei. «Sono delle osservazioni. Dei pensieri».

«No. Se hai ragione, ci hai fornito il movente e l’opportunità».

«Bryony ha compiuto diciotto anni appena prima di Natale, ha dato una festa», intervenne d’un tratto Adam. «Se ha… cioè, se è stata… coinvolta, verrà processata come un adulto, vero? Non come una minore».

A Rowan parve di leggere della compassione negli occhi di Theo. «Non corriamo troppo», disse. «Potrebbe esserci una spiegazione completamente diversa. Dobbiamo parlare con lei». Si alzò dal divano e lanciò un’occhiata al sergente Grange, che sfogliava gli appunti a ritroso come se cercasse qualcosa. «Ok, David?»

«Giusto per ricontrollare di aver scritto tutto correttamente», disse lui. «Le orme nella neve di cui siamo a conoscenza… Ne ha parlato lei alla signorina Winter quando siete usciti per un drink». Un drink. Rowan rivide le lenzuola aggrovigliate nel letto al piano di sopra, la testa bionda di Theo sul cuscino accanto alla sua, i peli sottili sul suo petto così diversi da quelli folti e scuri di Adam.

«Sì», rispose lui evitando di guardarla.

«Ma l’informazione sul numero di scarpe, o sul fatto che Marianne e Bryony si scambiassero le scarpe, quella l’ha avuta da Peter Turk?».

Lei annuì.

«E quando gliel’ha detto?»

«Era un sabato… sì, due sabati fa. Aveva dei biscotti del Borough Market, era andato a comprarli quella mattina».

«Quindi vi siete visti a Londra?»

«Sì».

«Ma a quel punto lei era già qui, per badare alla casa, intendo».

Merda. Rowan si costrinse a guardarlo negli occhi. «Sì».

«Sei andata apposta a Londra per vederlo?», s’informò Theo.

Si sentì addosso lo sguardo di Adam e si voltò verso di lui. «Dopo aver litigato con Marianne, ho perso i contatti anche con Turk. Quando l’ho rivisto al funerale, mi sono resa conto di quanto mi fosse mancato nel corso degli anni, lui e la sua amicizia. Ho pensato che se potevamo ricavare qualcosa di buono da tutto questo…». Allungò un braccio e prese la mano di Adam.

Quando i poliziotti se ne andarono, ormai erano le dieci. Adam chiuse la porta e, non appena la macchina si fu allontanata lungo la strada, girò la chiave. Il suo viso, illuminato dalla luce color burro della lampada, era teso. «Sono esausto», esclamò. «Tutto questo, lo shock, la polizia. E dover dire alla mamma che forse non è stato un incidente… Non riesco nemmeno a spiegarti quanto sia stato terribile, Ro».

Di sotto, prepararono del tè e lo bevvero seduti sul divano di Jacqueline. La finestra dei Johnson era illuminata come al solito e Rowan immaginò Martin che camminava nella sua stanza, destinato all’ennesima notte insonne a guardare fuori.

«Dirai a tua madre di Bryony?», chiese.

«No, non fino a quando sarò costretto. Prego ancora che tu abbia frainteso e che ci sia un’altra spiegazione, del tutto innocente».

«Lo so».

A letto, pelle contro pelle, Rowan avrebbe voluto averlo come non mai, ma si trattenne. Adam era contento anche solo di starle vicino e allora lo cinse in un lungo abbraccio al buio. Alla fine, sentendo il suo respiro rallentare, pensò che si stesse addormentando, ma di colpo, sveglissimo, le chiese: «Come mai Theo ti ha parlato delle orme?».

Sperò che non l’avesse sentita sobbalzare. «Come abbiamo detto, quando siamo usciti per bere una cosa dopo che sono tornata. L’ho chiamato io».

«Pensavo non foste particolarmente amici».

«No, ma abbiamo degli amici in comune, ci conosciamo abbastanza bene da uscire a bere qualcosa, soprattutto visto che ormai non conosco quasi più nessuno a Oxford». Cercò di usare un tono allegro. «Non ce la facevo a lavorare e basta».